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Tratto dalla “Nonviolenza è in cammino”, n. 1381 del 8 agosto 2006
L'indicibile tragedia che si sta svolgendo in questa sesta guerra tra Israele e il mondo arabo dovrebbe obbligarci a focalizzare la nostra attenzione su come potrebbe essere realizzata la pace in quest'area. I punti principali sono chiari, ma sono minacciati in particolare da coloro che smettono di pensare proprio quando ve ne sarebbe più bisogno. Questi punti sono:
1. Le risoluzioni 194 e 242 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che chiedono il ritorno dei palestinesi e il ritiro di Israele ai confini del 1967 (prima della guerra del giugno di quell'anno).
2. La risoluzione del Consiglio nazionale palestinese del 15 novembre 1988, che accetta la soluzione dei due stati.
3. La proposta avanzata dall'Arabia Saudita nel 2002 che Israele si ritiri entro i confini del 1967 in cambio del riconoscimento di tutti gli stati arabi.
Applicando questi punti si otterrebbero due stati tra loro confinanti, con Gerusalemme Est e la Cisgiordania (West Bank) che ritornano alla Palestina (Israele si è già ritirata da Gaza), le alture del Golan restituite alla Siria, e qualche problema minore di confine da risolvere, talvolta attraverso aggiustamenti creativi. Nessuna grande rivoluzione, solo buon senso.
Ma ci sono anche richieste minime e massime da entrambe le parti.
La Palestina ha tre richieste minime, non negoziabili: - uno stato palestinese secondo i punti 1 e 2 precedenti, con - Gerusalemme Est capitale, e - il diritto al ritorno, inteso come diritto ma negoziabile nella quantità,.
Israele ha due richieste minime, non negoziabili: - riconoscimento dello stato ebraico di Israele - entro confini sicuri.

Pubblicato su "Il manifesto" del 8 agosto 2006.

Sottrarsi al ricatto della Shoah e dare voce a un grido liberatorio contro la politica di Israele: sul manifesto del 3 agosto e su Liberazione del 4 Angelo d'Orsi propone questa sorta di «programma minimo» per la sinistra - intellettuali, politici, giornali e comuni mortali in grado di sottrarsi al «chiacchiericcio opinionistico» che ci martella con la sicurezza di Israele e in nome della Shoah giustifica la sua aggressività in Medioriente, la sua pulizia etnica verso i palestinesi e la sua arroganza verso l'Onu. A costo di alimentare il chiacchiericcio, mi permetto di dissentire fermamente. Prima che sul merito, su una pratica intellettuale che perimetra la sinistra coi picchetti, gerarchizza intellettuali e senso comune, identifica verità e razionalità senza nulla apprendere dallo scacco della ragione in cui sulla questione mediorientale tutti, intellettuali e ordinary people, siamo presi e persi.

Pubblicato su “La Stampa” di domenica 6 agosto 2006
Copia articolo pubblicato sul sito del Centro Sereno Regis di Torino

Gli israeliani lo sperimentano sulla propria pelle ogni giorno, da quando il 12 luglio si son trovati nell’obbligo di rispondere a un attacco Hezbollah che non ha più come scusa i territori occupati, ma è un’aggressione che minaccia esistenzialmente Israele ed è al contempo laboratorio di uno scontro Iran-Usa: in questa guerra libanese sono in realtà soli, nonostante le attestazioni solidali che vengono da Bush e Blair. Non si sentono rassicurati neppure dall’accordo, ambiguo, che si delinea fra Parigi e Washington al Consiglio di sicurezza Onu. Quella congerie di stati cui viene dato il nome falso di comunità internazionale si agita, domanda la «piena cessazione di ostilità», ma non osa chiedere che essa sia «immediata» e simultanea.

Ora che finalmente l'ONU è riuscito ad approvare una risoluzione relativa alla guerra che Israele ha iniziato contro il Libano ed una forza internazionale di "interposizione" si frapporrà tra Israele e Libano, credo che, a mente fredda, si possa fare alcune considerazioni.

La prima riguarda proprio l'ONU: se c'è un'istituzione che esce, ancora una volta, a pezzi da questa crisi è proprio l'ONU.
Il ritardo con il quale ha avviato la discussione, l'intreccio dei veti, nonché la difficoltà con la quale arrivare ad una condanna dell'intervento israeliano, così palesemente spropositato e assurdo, ha reso ancora più evidente l'impotenza di questo organismo e di come, troppo spesso, sia funzionale agli interessi dei paesi occidentali.

Dinanzi a bombardamenti sistematici su obiettivi civili e su infrastrutture (con l'obiettivo dichiarato di portare in dietro il Libano di 20 anni) da parte di Israele, l'ONU è rimasto assente, paralizzato: analoga cosa sarebbe successo nel caso di invasione da parte di un paese arabo?

Quali condizioni e garanzie irrinunciabili per una Forza d’Interposizione in Medio Oriente? (Alex Zanotelli)


Sembra essersi formato un consenso generale sull’opportunità/necessità che l’Italia partecipi alla Forza Internazionale di Interposizione in Libano. È indubbio che per arrestare la spirale di violenza che sempre più insanguina il Medio Oriente, e si estende pericolosamente al resto del mondo, sia più che mai necessario un impegno attivo della comunità internazionale, sotto la guida dell’Onu. L’esito di un tale impegno dipende tuttavia in modo determinante dalle condizioni in cui verrà attuato e condotto. Sembra più che mai necessario richiamare l’attenzione del Governo, del Parlamento e di tutti i cittadini su alcuni punti molto delicati.
Una prima considerazione doverosa è che la guerra in Libano ha occultato il problema palestinese. Non sembra accettabile, in particolare, che la comunità internazionale ignori completamente il fatto che Ministri e Parlamentari di un paese che dovrebbe essere sovrano siano stati sequestrati (ancora dabato 19 agosto il vice-premier, Nasser-as-Shaer), imprigionati, ed almeno in un caso anche torturati. In nessun altro Paese un simile intervento straniero potrebbe venire tollerato: perché nessuno reagisce nel caso di Israele? È inaccettabile il silenzio del Governo italiano.
Venendo alla costituzione di una Forza Internazionale di Interposizione, essa deve ubbidire ad alcune condizioni fondamentali ed elementari: è evidente che non possono farne parte militari di un paese che non sia rigorosamente equidistante tra i due belligeranti. L’Italia ha stipulato lo scorso anno un impegnativo Accordo di Cooperazione Militare con Israele, che inficia in modo sostanziale e irrimediabile la nostra equidistanza. Il Diritto Internazionale impone, come minimo, la preventiva sospensione di tale Accordo, i cui termini dettagliati devono assolutamente essere resi noti all’opinione pubblica.
È il caso di ricordare ancora che Israele ha partecipato a manovre militari della Nato svoltesi in Sardegna, nelle quali si saranno indubbiamente addestrati piloti ad altri militari israeliani, impegnati poi nella guerra in Libano. Da queste circostanze discende una ulteriore condizione: è necessaria una garanzia assoluta che il comando di questa Forza di Interposizione rimanga strettamente sotto il comando dell’Onu, e non possa essere trasferita in nessun momento alla Nato.
È assolutamente necessario, inoltre, che le spese della missione non gravino ulteriormente sul bilancio dello stato italiano, e in particolare non comportino riduzioni delle spese sociali, ma rientrino nel bilancio del Ministero della Difesa per le missioni militari italiane all’estero.
Queste sembrano condizioni fondamentali e irrinunciabili per la partecipazione del nostro paese.
Rimangono però altre riserve. Appare singolare e tutt’altro che neutrale il fatto che una Forza Internazionale di Interposizione venga schierata sul territorio di uno dei due Paesi belligeranti, quello attaccato, e non sul loro confine. Deve essere chiaro pertanto che, finché tale forza opererà in territorio libanese, essa deve essere soggetta alla sovranità libanese, e che non potrà in alcun modo essere incaricata del disarmo né dello scioglimento di Hezbollah. Queste condizioni operative esporranno comunque i militari che compongono questa forza ad agire nel caso in cui avvengano (reali o pretese) provocazioni: come potranno opporsi con la forza all’esercito israeliano, tutt’ora presente in territorio libanese? Non ci si facciano illusioni sulle regole d’ingaggio, che verranno decise dall’organismo che guiderà la missione, e non dal nostro Governo. Riteniamo giusto richiedere anche che il contingente militare sia affiancato da un congruo numero di volontari disarmati.
Deve infine risultare estremamente chiaro che questa Forza di Interposizione non potrà mai, e in alcun modo, essere coinvolta in una ripresa o in una estensione del conflitto. Così come deve essere escluso un suo impiego per proteggere le ditte italiane che si lanceranno nel lucroso business della ricostruzione del Libano.
É necessario fugare con molta chiarezza qualsiasi illusione che l’interposizione militare, anche nelle migliori condizioni, sia risolutiva per il conflitto in Medio Oriente, soprattutto per risolvere la fondamentale questione palestinese. Chi arresterà la distruzione delle case, delle coltivazioni e delle infrastrutture dei palestinesi, gli omicidi mirati (in palese violazione di qualsiasi norma giuridica)? Chiediamo pertanto che, prima di inviare un contingente italiano, il nostro Governo ponga con forza a livello internazionale l’esigenza irrinunciabile del dispiegamento di una forza internazionale di pace anche a Gaza e in Cisgiordania, a garanzia della sicurezza di Israele e come condizione per la creazione di uno Stato Palestinese.
Chiediamo che su queste questioni fondamentali vengano prese ufficialmente decisioni chiare, esplicite e trasparenti, e si esigano le dovute garanzie a livello internazionale.

Tratto dal Sito del Centro sereno Regis di Torino (Come valutare il ruolo delle Nazioni Unite )


Va da sé che respiriamo un po’ più facilmente dopo la notizia di un cessate il fuoco nel Libano, anche se le prospettive che esso possa costituire un argine definitivo alla violenza non sono favorevoli in questo momento. E dopo aver tremato per 34 giorni mentre le bombe cadevano e i missili prendevano il volo dobbiamo riconoscere che le Nazioni Unite, nonostante tutte le loro debolezze, svolgono tuttora un ruolo indispensabile in una vasta gamma di situazioni internazionali di conflitto. È degno di nota che, in questo caso, nonostante il malcontento di Israele nei confronti dell’autorità dell’ONU, e la riluttanza degli Stati Uniti ad accettare ogni interferenza dell’ONU nelle priorità della loro politica estera, come è avvenuto in Iraq, entrambi i paesi siano stati costretti a rivolgersi all’ONU quando la guerra di Israele contro il Libano si è impennata di fronte alla resistenza particolarmente forte degli Hezbollah.

Nello stesso tempo bisogna ammettere che questo non è certamente il momento di celebrare l’ONU per la sua capacità di adempiere al suo ruolo programmatico di organizzazione intesa a prevenire le guerre e ad assicurare la difesa di stati vittime di un’aggressione. Può darsi che questa sia un’occasione per fare un bilancio di ciò che ci si può aspettare dall’ONU nella prima fase del secolo ventunesimo, concludendo che l’Organizzazione non può essere considerata né come un fiasco né come un successo, ma come qualcosa di intermedio fra questi due estremi che è complicato e sconcertante insieme.

Premessa

La nuova aggressione israeliana al Libano, i ritardi dell’ONU, il fatto che Israele ed USA hanno dovuto accettare la presenza di una forza internazionale (creando un barlume di premessa per una rivisitazione di quella politica della guerra preventiva e uniltaterale che è la causa principale della instabilità del mondo), e, non ultimo per importanza, il dibattito, talvolta aspro, le contrarietà e/o le perplessità, sulla missione della forza di interposizione dell’ONU, che hanno attraversato i movimenti per la pace, possono, ancor più che dividerci, aiutarci a sviluppare una “strategia” che permetta ai movimenti nonviolenti di incidere maggiormente sulle scelte dei governi e della politica.

I numerosi documenti provenienti da movimenti pacifisti (sia quelli più disponibili verso la missione, così come quelli invece radicali nell’opposizione), in ciascuno dei quali ho colto elementi reali di valutazione, pongono in me tante domande e tanti dubbi, che nascono però dalla necessità di vedere pratiche nonviolente nelle scelte politiche che dobbiamo fare che incidano nelle contraddizioni che viviamo.

Vorrei quindi tentare, senza sottrarmi ad un confronto sul contingente della missione di interposizione militare, di sviluppare un ragionamento che ci aiuti a individuare strade da percorrere per dare gambe e riconoscibilità ad una “cultura altra”.
In questo senso mi introduco in questo dibattito con molti dubbi e poche certezze, non perché non abbia idee in merito, ma perché credo che la complessità delle relazioni internazionali, le difficoltà del condizionare come movimenti nonviolenti l’agenda politica, ci impone di muoverci con estrema cautela.

Il mio punto di vista non è neutrale: nasce nell’ambito del movimento nonviolento, e quindi non solo in quello pacifista, dove esistono anche numerose realtà che non hanno abbracciato la nonviolenza.

In quest’ottica voglio provare a ragionare insieme cercando di liberarmi un pochino da alcuni miei costrutti mentali: da nonviolento e antimilitarista, ad esempio, mi sento tranquillamente di essere contrario alla missione in Libano, però sono anche consapevole di come questo mio approccio in questo contesto possa essere “tremendamente” parziale.
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