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Un film umanissimo - che fin dalla sua presentazione a Cannes ha conosciuto un grande successo di critica e che in poche settimane di programmazione in Francia ha attirato milioni e milioni di spettatori - ha riacceso le luci sui monaci di Tibhirine in Algeria, toccando corde che a volte la predicazione e la testimonianza dei cristiani fatica a raggiungere e stimolare. Il regista di "Uomini di Dio", in uscita nelle sale italiane venerdì 22, ha saputo sapientemente restituire la dimensione umana di quella comunità monastica, centrata sull'essenziale della preghiera comune dei salmi, sul lavoro quotidiano, sui rapporti fraterni in comunità e con i vicini musulmani. È una vicenda che parla di vita e non di morte, di pienezza di vissuto proprio nell'assunzione dell'eventualità di una morte violenta.

Recensione di Buratti Marco

La bella Grace fugge inseguita da un gruppo di gangster e giunge in una sperduta cittadina, chiamata Dogville. La ragazza incontra Tom , che, autonominatosi portavoce della città, persuade gli altri abitanti ad aiutarla, nascondendola dagli inseguitori in cambio di servizi domestici. Ma quando i malavitosi cominciano a cercarla con insistenza, tirando in ballo anche la polizia, gli abitanti impauriti pretendono da lei sempre di più e Grace si rende conto che la gentilezza, la bontà e la fratellanza dei cittadini erano solamente una facciata superficiale di quello che in realtà erano.
Gli abitanti di questo paese disperso tra le Montagne Rocciose si presentano come delle persone oneste e perbene, riservate ed amichevoli, ma già dalle prime scene si può intuire che lì regna l’omertà; tutti fingono di non vedere, ma sanno tutto di tutti; tutti hanno paura, hanno pregiudizi; sono arroganti, indifferenti e in malafede. Ogni cittadino è sedotto dal potere, che ,ben presto, si rendono conto di avere sulla fuggitiva, vista come un dono dal cielo, un oggetto. A Dogville andrà in scena un enorme delitto e sarà vetrina di violenze fisiche e psicologiche che mineranno il diritto alla libertà e alla vita di Grace.
Per tutta la durata del film si respira un aria malsana, l’atmosfera è claustrofobica
La storia è narrata per capitoli (un prologo e nove capitoli), che scandiscono la narrazione, e viene enunciata da una voce narrante (molto profonda) di un narratore extradiegetico ubiquo e onniveggente, che racconta in modo letterario, ironico ed imparziale.
La recitazione degli attori è teatrale, i dialoghi sono forbiti, infatti il regista compie un esperimento di cinema fusionale, mescolando cinema, teatro e letteratura.
Tutto è ridotto all’osso, è stilizzato, forse per dare rilievo agli attori, in favore dei gesti e della parola; il set spoglio, semplice e astratto riesce a far concentrare lo spettatore sulle persone e sollecita la fantasia di quest’ultimo, che deve inventarsi la scena; questa caratteristica la rende un’esperienza cinematografica molto originale. Solo in una scena troviamo una sorta di scenografia, quando Grace apre la finestra della stanza del cieco, fuori ci sono degli alberi veri e la luce che entra è diversa, è più naturale.