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Il contenuto di violenza dei trasporti (Giorgio Nebbia)

Pubblicato su “Voci e volti della nonviolenza”, n. 98 del 4 settembre 2007


Il potersi muovere è liberatorio; tutta la storia umana è progredita con l'aumento della possibilità di muoversi, di incontrare altri popoli e persone, di visitare altri paesi, di scambiare materie e, soprattutto, conoscenza.
Peraltro la mobilità costa; non parlo del denaro, ma di beni ambientali come l'energia, l'inquinamento e il territorio, costa in termini di violenza contro l'ambiente e la natura. Tutto comincia con il consumo di energia necessaria per spostare un corpo umano di 70 chili (o un sacco di un quintale) per un metro o un chilometro; l'energia può essere fornita dallo stesso corpo umano, se una persona va a piedi, da un'altra persona o da un animale che trascina un carro, da un animale da cavalcare. Ciascuno di questi "mezzi" richiede energia alimentare e genera rifiuti, gli escrementi
animali. Le fonti di energia rinnovabili come il vento sono stati utili per muovere le navi, a condizione di avere delle navi (di legno), delle vele (di tela), cose materiali, oggetti, quindi, e ancora una volta di avere conoscenze tecniche.
A dire la verità ci sono ben poche analisi dei consumi di energia e degli effetti ambientali e del contenuto di violenza dei mezzi di trasporto. A mano a mano che progrediva la richiesta di mobilità ci si è accorti che occorrevano strade e si sono perfezionate le tecniche per costruirle, per renderle più agevoli - a spese di pezzi di territorio; bisognava tagliare alberi e spianare dislivelli e superare corsi di acqua e anche questo aveva un costo ambientale.
Con la rivoluzione industriale si è visto che la fatica animale o umana poteva essere alleviata con mezzi di trasporto azionati da combustibili fossili come il carbone, prima, e poi i prodotti petroliferi. Anche in questo caso a spese di "natura", di riserve di energia non rinnovabili, di modificazioni negative dell'aria e delle acque; anche in questo caso a spese di pezzi sempre più importanti del territorio; non bastavano le vecchie strade e la tecnica ha offerto modi e processi per costruire strade asfaltate, larghe, sicure, oppure strade ferrate e poi stazioni ferroviarie e stazioni di servizio e distributori di carburanti, e ogni volta che c'erano ostacoli geografici è stato necessario scavalcarli con ponti, gallerie, livellamento di colline e montagne.

Il successo economico - non solo in senso monetario, ma anche di soddisfazione e, si fa per dire, di "felicità" - ha largamente coperto, o fatto dimenticare, gli effetti ambientali negativi e la violenza ecologica e umana dei mezzi e delle vie di trasporto. In una spirale per cui non si capiva più se i nuovi mezzi e vie di trasporto servivano a chi li realizzava o a chi doveva utilizzarli. Il mito delle "alte velocità" di trasporto delle persone e delle merci ha oscurato il significato di queste stesse parole. Per cui enormi opere o devastanti effetti ambientali hanno assicurato alle imprese di costruzione grandi profitti, spesso con pubblico denaro - con le "opere pubbliche" - e anche occupazione, ma per permettere al viaggiatore o alle merci di guadagnare letteralmente pochi minuti su percorsi che complessivamente richiedono alcune ore.
Quante "bretelle" e svincoli e sovrappassi sono stati fatti con danni ambientali e con vantaggi praticamente nulli per gli utenti dei trasporti, ma grandissimi per i costruttori. Chi sa che qualcuno un giorno non voglia scrivere una storia del costo ambientale dei trasporti in Italia? Il mito dell'alta velocità e della comodità ferroviaria ha portato a mettere in circolazione treni e vetture sempre "più perfette", con enormi sprechi, scimmiottando le "comodità" degli aeroplani, con vetture tremolanti, con gabinetti che non si aprono o non si chiudono, con impianti di diffusione della musica che restano silenziosi. Qualcuno farà mai una indagine sul costo degli sprechi ferroviari, nel nome di un "progresso" tecnico accompagnato da un peggioramento della qualità dei trasporti e della vita dei viaggiatori? La proliferazione dei mezzi di trasporto, soprattutto stradali, ha avuto effetti negativi non solo sul territorio, ma anche sotto forma di inquinamento dell'aria ad opera dei gas generati dai carburanti, della raffinazione e del trasporto dei prodotti petroliferi, per la maggior gloria dell'industria automobilistica.

Un discorso a parte meritano i trasporti aerei, veramente liberatori per scavalcare gli oceani, per accorciare a poche ore i tempi di percorrenza che, per nave, erano di interi giorni e richiedevano grandi bastimenti.
Davanti a questi vantaggi i trasporti aerei hanno costi ambientali e consumi di energia, per chilometro percorso da una persona o da una tonnellata di merce, ancora più grandi rispetto agli altri mezzi di trasporto.
Il trasporto aereo richiede aeroporti diventati complesse strutture, hanno costretto a spianare grandi superfici pianeggianti del territorio e hanno richiesto nuove strutture stradali e ferroviarie che servono soltanto a collegare le città e gli aeroporti. Grandi aeroporti vicino alle grandi città fanno risparmiare alcuni costi ma comportano altri inconvenienti come rumore e inquinamento e pericoli; aeroporti lontani dalle grandi città comportano più grandi infrastrutture e più lunghi tempi per andare dalle città agli aeroporti.
E così, lentamente, senza accorgercene, siamo cascati in una serie di trappole per cui l'apparente "economicità" e "modernità" nel nome della competitività su scala planetaria, si traducono non solo in guasti e costi ambientali, ma in costi energetici e umani sempre più alti. Tanto che i tragitti brevi, di alcune centinaia di chilometri, richiedono più tempo in aereo che in treno non solo nei treni superveloci, ma anche nei comuni treni ben gestiti.
Si pensi alla trappola dell'aeroporto "milanese" della Malpensa, che ha devastato un grande pezzo di brughiera a nord di Milano, scomodissimo da raggiungere, al punto che il tragitto casa-di-Roma, Fiumicino, Malpensa, centro-di-Milano richiede più tempo di quello che occorre in treno. Al punto che l'avventura della Malpensa ha affossato l'Alitalia e ha compromesso migliaia di posti di lavoro e la stessa sopravvivenza di tale aeroporto. Ai disturbi e alla lentezza e ai costi dei trasporti aerei hanno dato il loro contributo anche gli atti terroristici che hanno moltiplicato la paura, i controlli, i divieti.
Ma siccome la follia non ha confini, ecco che ogni grande città o ogni capoluogo di provincia, o anche ogni paesino vuole il suo aeroporto, non piccoli aeroporti per piccoli aerei, che non esistono praticamente più, ma grandi dignitosi aeroporti, con relative sfarzose infrastrutture, spesso utilizzati soltanto pochi giorni o poche ore all'anno, ma siccome il personale e i servizi devono essere disponibili tutto l'anno, anche se il traffico è di pochi viaggiatori al giorno, ecco che enormi cifre vengono spese per nuovi aeroporti, con sempre nuovi guasti e violenza al territorio.

La crisi economica attuale deriva dai debiti che lo stato ha fatto e continua a fare per opere inutili e per sprechi, nel nome dell'illusione di farci diventare più competitivi o moderni e degni della globalizzazione imperante. È così che nascono i progetti delle varie "alte velocità" ferroviarie e stradali e la fame di nuovi aeroporti.
Purtroppo mi pare che le battaglie popolari contro le varie infrastrutture di trasporti (ma troppo poco si bada ai costi ambientali delle molte più sommerse infrastrutture "pubbliche" a fini militari) si siano limitate alla contestazione del disturbo che esse arrecano alle popolazioni locali, ma non siano state adeguatamente accompagnate da indagini capaci di rispondere alla domanda "a che cosa servono?" (naturalmente al di là dei profitti delle imprese costruttrici). Siamo certi che l'occupazione aumenti con un nuovo continuo assalto del territorio per strade e aeroporti e non possa essere invece assicurata con opere veramente utili ai cittadini, come la difesa del suolo e delle coste contro l'erosione, la regolazione del corso dei fiumi contro le alluvioni? Una volta erano questi i temi della contestazione ecologica: la città, il territorio, i mezzi di trasporto, la difesa del suolo, la lotta all'inquinamento. Tutti temi che possono avere soluzioni soltanto politiche, con la richiesta di finanziamenti per certe opere o la contestazione di finanziamenti per altre opere, come l'alta velocità, il ponte sullo stretto di Messina (forse sepolto), i progetti di altri aeroporti come quello di Viterbo. E, su un altro versante, i vincoli sulla dissennata proliferazione di porti turistici che rendono ancora più fragili le già fragili coste italiane.

Purtroppo apparentemente sinistra e destra politica sono unite nella frenesia del "fare", del "portare a casa" finanziamenti pubblici, senza chiedersi a che cosa e a chi servono, quali effetti hanno o avranno sull'occupazione, sul territorio, sul clima futuro, quale contenuto di violenza presente e futura hanno.
Io credo che in questa direzione - la critica in termini di violenza ambientale e umana - delle scelte politiche, il recupero del significato della "violenza" che non è soltanto quella dei furti a privati, o delle falsificazioni merceologiche, o dei lavavetri, ma è anche quella dell'inquinamento, dei morti sulle strade nel nome dell'ideologia della velocità, della pubblicità che istiga al superfluo, del territorio che si ribella sotto forma di frane e alluvioni e siccità. Che è quella delle opere inutili, degli sprechi fatti senza alcun vantaggio umano e civile, come quella dell'aeroporto a cui sarebbe condannata Viterbo.