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La politica della nonviolenza (Daniele Lugli)

(Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1317 del 5 giugno 2006)

Ci sono due desideri collettivi che caratterizzano questi anni: la voglia di impero e la voglia di comunità.
Della prima ci parla l'inizio veramente folgorante del libro di Fabio Mini (La guerra dopo la guerra). La voglia di impero, o si potrebbe dire la smania di impero, è il fenomeno che caratterizza quest'avvio del terzo millennio. Sembra quasi che l'esperimento della democrazia popolare dopo meno di un secolo stia scivolando all'indietro verso un nuovo sistema imperiale.
Almeno parallela cresce un'altra voglia, quasi una smania, di comunità, la nostalgia di una comunità che non abbiamo in verità mai conosciuto. Scrive Zigmunt Bauman (Voglia di Comunità,): La comunità ci manca perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice che il mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci e sempre più riluttante a promettere.
Ma la comunità resta pervicacemente assente, ci sfugge costantemente di mano o continua a disintegrarsi, perché la direzione in cui questo mondo ci sospinge nel tentativo di realizzare il nostro sogno di una vita sicura non ci avvicina affatto a tale meta...
La voglia di sentirsi in quella comunione profonda diventa ricerca di un legame collettivo, potremmo quasi dire un legame "purché sia", anche inventato. Il che sarebbe in sé abbastanza ridicolo se non avesse elementi preoccupanti, che emergono in luoghi non poi così lontani da noi, con esiti cruenti. È la ricerca di un'appartenenza che ci sorregga nella distinzione da chi è diverso da noi perché sta oltre un certo confine, definito per stile di vita, gruppo etnico o religioso, o semplicemente una distinzione funzionale a rivendicare il nostro privilegio.
La smania di impero e di comunità sono entrambi modi di rifiutare la politica, la democrazia, la ricerca faticosa della costruzione di una convivenza, che non è regalata. L'impero è una soluzione; significa che c'è qualcuno, più forte di tutti, che aggiusta le cose. Nella storia, almeno in quella nostra, lo hanno impersonato i romani, poi gli inglesi, ora gli americani. Preferire l'impero è arrendersi ad un'evidenza semplice: se il mondo è fatto in modo tale che si può essere solamente piaga o coltello, meglio essere coltello - e possibilmente stare dalla parte del manico.

L'atomica contro l'ipocrisia
Spesso chi mi chiede di parlare di Aldo Capitini mi domanda che cosa c'è di vivo nei suoi scritti. La domanda vera è per me quanto di vivo porto io (e portano anche gli altri) rispetto alle cose scritte e compiute da Aldo Capitini, cioè quale sia oggi la nostra capacità di proposta rispetto ad una testimonianza di pensiero e di azione che ho avuto la fortuna di incontrare.
C'è tra gli altri un testo breve di Capitini, scritto tre giorni dopo la bomba di Hiroshima e pubblicato su "Epoca" nel suo primo numero - siamo nell'agosto del '45: "Tutta la potenza si è raccolta in una bomba di sovrumana potenza", scrive Capitini, "l'imperium si è ricollocato verso l'unica forza che d'ora in poi può decidere della guerra o della pace". Di seguito tratteggia in modo sintetico e preciso quello che oggi noi chiamiamo globalizzazione, la prospettiva - ormai realizzata - di un mondo che si fa uno. E, ancora a proposito della bomba, dice: è un bene che sia avvenuto, ci toglie la possibilità di fare dei distinguo sull'opportunità della violenza e ci interroga su come possiamo affermare, al di fuori di una logica di forza, i valori costruiti attraverso l'esperienza di comunità che per la guerra hanno sofferto.
Nella crisi e nel vedere in prospettiva il conflitto mondiale che si stava preparando, ancora dopo la bomba di Hiroshima e Nagasaki, Capitini ripropone con forza la nonviolenza come varco attuale della storia, come "la" cosa da fare, un tema politico da affrontare. Il che vuol dire trasformare anche le istituzioni, che poi sono modalità di relazione tra le persone. Nel tempo si sono irrigidite, ispessite, e vanno di nuovo vivificate.
È una cosa con la quale occorre fare i conti, in particolare dovranno farlo i giovani in una situazione nella quale parlare di politica ha un suono che, se non è osceno, ci manca poco, perché il tipo di esperienza che viene fatta nella vita pubblica nel nostro paese, da anni a questa parte, ha perso molti degli elementi di valore, che sono inscritti anche nella nostra Costituzione.

Una marcia di molti...
Aldo Capitini è noto soprattutto come ideatore e promotore della Marcia per la pace Perugia-Assisi, che ha avuto la prima edizione nel 1961. Qualche breve cenno per contestualizzare. Il 1961 è l'anno in cui si costruisce il muro a Berlino, l'anno della crisi di Cuba, che ci porta sull'orlo della guerra atomica. All'indomani della Marcia Kennedy dirà che "o gli uomini sono capaci di liberarsi della guerra, o la guerra si sbarazzerà di loro".
In questo clima politico e culturale si colloca la prima Perugia-Assisi promossa da questo professore umbro che non ha dietro a sé grandi organizzazioni, nessuna forza politica o religiosa, solo l'intuizione di questa manifestazione per affermare una volontà popolare di pace. La Marcia ebbe un suo significato e un suo senso, tanto che è stata ripetuta e ancora si ripete, ad anni alterni, con l'aggiunta di edizioni "speciali". Dopo quella prima iniziativa furono costituite un pò dappertutto le Consulte per la Pace, con l'appoggio delle forze politiche e sindacali di sinistra, colpite dalla gravità del momento. Capitini, non iscritto a partiti, ma noto per il suo impegno contro la guerra fin sotto il regime fascista, divenne presidente della Consulta nazionale della pace. Ci furono momenti di forte partecipazione popolare, che abbiamo ritrovato forse solamente con la campagna delle bandiere arcobaleno. Aldo Capitini, che pure aveva un ruolo riconosciuto - presidente nazionale della Consulta - in un movimento tanto ampio, sentì il bisogno di qualcosa di più specifico e radicato, che andasse oltre larghe ma generiche manifestazioni per la pace. Per questo scelse di costituire un piccolo movimento: il Movimento Nonviolento.

... un movimento di pochi
Quando la pace è in pericolo si leva la reazione spontanea delle persone, una sensibilità che però scompare non appena i media guidano la nostra attenzione su un tema diverso, su un'altra urgenza. Il rifiuto della violenza è un obiettivo più mirato, più quotidiano, che pervade tutto il modo di essere di una società e non si realizza per caso. La guerra è un'espressione, orribile, dell'incapacità di risolvere in modo diverso dalla violenza i problemi che si pongono. Da lì nasce la necessità, per tutti noi, di approfondire il tema della nonviolenza e da lì nasce anche il piccolo ma tenacissimo Movimento Nonviolento in cui mi ritrova.
Per lo stesso desiderio di esprimere messaggi precisi, specifici, dopo la Perugia-Assisi Capitini indice a Roma una marcia "contro la guerra, il terrorismo, la tortura". Dalle migliaia che avevano marciato in Umbria, si passa a 200 persone. Il tema è chiaro: ci sono persone disposte in ogni caso ad assumere la questione della violenza come un punto centrale, consapevoli ormai che le strade dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni e che le vie del cambiamento, percorse con mezzi violenti ed incoerenti con il fine, portano al peggio. Gandhi precisa in più punti che dobbiamo esercitare la nostra padronanza sui mezzi che scegliamo, poiché sui fini è impossibile esercitare un controllo. Per certo sappiamo che quanto facciamo s'imprime indelebilmente sul risultato. Non è vero che il fine giustifica i mezzi, come l'interpretazione più banale di Machiavelli fa dire, è invece vero, sicuramente vero, che i mezzi pregiudicano il fine, lo distorcono, lo fanno diventare diverso da quello che si voleva.

Un banco di prova: politica, amministrazione locale, partecipazione
L'esperienza del fare politica, a partire dall'amministrazione locale, é, diceva Capitini, una responsabilità necessaria. Può esserci nella vita un momento di meditazione quasi monastica, scriveva, ma poi occorre passare di nuovo per la vita pubblica, perché questa capacità di relazione con gli altri è ciò di cui siamo costituiti. Altrimenti, ci ricordava, verrà ancora un tempo in cui le persone avvertiranno i politici come persone lontane, che non li rappresentano. È molto bello, diceva Aldo, che ora ci siano comizi nelle piazze e non una persona che arringa le masse dal balcone di piazza Venezia o dalla radio, ma non sarà un progresso vero se resterà la distinzione tra chi parla e chi ascolta. Un tentativo di risposta erano i suoi Centri di Orientamento Sociale, dove si andava per ascoltare e parlare, non uno senza l'altro, dove i temi più diversi erano affrontati. Patate e ideali, ripeteva Capitini. Affiorano esperienze che riprendono quell'ispirazione, di seria e impegnata costruzione dal basso d'istituti per la miglior conoscenza, discussione, deliberazione degli argomenti di comune interesse. È la necessaria aggiunta, fondata sul potere di tutti, agli istituti di democrazia rappresentativa, che attraversano una profonda crisi: dall'Onu alla circoscrizione.
La democrazia, nella sua migliore espressione che è quella costituzionale, appare fragile nelle cosiddette democrazie occidentali. Sembra avere smarrito la sua forza propulsiva. Viene da chiamarle democrazie accidentali.
La loro pretesa di esportare diritti con la forza dell'economia, della corruzione, delle armi ha dato luogo, al più, a democrature, che hanno fatto apparire meno orride, se non rimpiangere, le istituzioni precedenti.

Democrazia e costituzione
La democrazia costituzionale è esigente: chiede che la promessa d'eguaglianza che caratterizza il diritto sia presa sul serio, sempre più sul serio, turbando gli equilibri esistenti se sono fondati, come sono, sull'oppressione, su una violenza strutturale, coperta da una violenza culturale che impedisce il venire allo scoperto della violenza diretta.
Quella che più ci spaventa, minacciando la nostra stessa vita, la nostra faticata sicurezza.
La strada da percorrere era individuata con chiarezza nell'art. 3 della nostra Costituzione. I due commi vanno letti bene e assieme: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
"È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Realizzare la promessa d'eguaglianza e libertà, nell'effettiva partecipazione di tutti all'organizzazione politica, economica e sociale, non è stata una priorità per le forze politiche, di governo e d'opposizione, sia pure con diverse responsabilità,. Né i partiti sono stati, ben prima di tangentopoli, le libere associazioni dei cittadini per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, promessi dall'art. 49 della Costituzione. Tanto meno lo sono oggi. I partiti al potere [questo articolo è precedente alle elezioni di aprile 2006 - ndr], uniti nella Casa delle impunità, hanno messo mano anche alla Costituzione stravolgendone l'impianto, limitando la partecipazione effettiva dei cittadini, vanificando il sistema di garanzie, delineando una figura di premier particolarmente inquietante in un paese che ha insegnato il fascismo al mondo. Per questo, quale che sia la pochezza dei loro oppositori, vanno sconfitti nelle elezioni e va liquidato, nel referendum costituzionale, il loro eversivo disegno.

Il potere di tutti
È un esito che si andava da tempo preparando. Aldo Capitini, libero religioso e indipendente di sinistra, fuori dalle chiese e dai partiti, vedeva, e si era all'indomani della liberazione del nostro paese, la fragilità della costruzione democratica, il rischio di una progressiva distruzione della democrazia. Denunciava la superficialità dell'approccio dei partiti interessati a conquistare e gestire posizioni di potere più che alla trasformazione, secondo libertà e giustizia, delle istituzioni. Vedeva iniziata una strada, ai cui esiti assistiamo ora quasi impotenti, che avrebbe portato il paese in una situazione pre-fascista, con il fallimento dei partiti come strumento di rappresentanza ed intervento politico dei cittadini, il discredito delle organizzazioni sindacali, la disaffezione nei confronti degli istituti della democrazia.
C'è una lezione da imparare e diffondere: Ognuno deve imparare che ha in mano una parte di potere e sta a lui usarla bene, nel vantaggio di tutti; deve imparare che non c'è bisogno di ammanettare nessuno, ma che cooperando o noncooperando, egli ha in mano l'arma del consenso e del dissenso. E questo potere lo ha ognuno, anche i lontani, le donne, i giovanissimi, i deboli, purché siano coraggiosi e si muovano cercando e facendo.
E Capitini non stava mai fermo, sempre a promuovere, a sollecitare, a sperimentare.
Una società democratica che stia immobile, si corrompe e si muta: essa ha bisogno di rinnovarsi continuamente dal di dentro; la sua salute sta nel movimento, e il movimento è impresso dal libero giuoco delle proposte riformatrici.
La nostra proposta, riassunta al massimo consiste nello sviluppare e qualificare il controllo dal basso delle istituzioni rappresentative ad ogni livello, nell'aggiungere al metodo democratico il metodo nonviolento nelle lotte politiche, sociali, economiche, nel costruire luoghi che consentano ai cittadini di determinare la politica, integrando, se non radicalmente mutando o sostituendo, i partiti, che a tale compito male assolvono, nel lavorare per una nuova socialità capace di affrontare la crisi della forme istituzionali infra e sovra statali.
Non ci stancheremo di avanzarla e, per quel che ci riesce, di praticarla.