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Un decalogo contro lapatia politica (Gustavo Zagrebelsky)

[Questo intervento di Gustavo Zagrebelsky è stato tenuto al convegno nazionale del Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti) il 4 marzo 2005 e pubblicato sul quotidiano "La Repubblica" sempre il 4 marzo 2005. Una versione più ampia è alle pp. 15-51 di Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma 2005]


Secondo un luogo comune, l'attaccamento alla democrazia si svilupperebbe da solo, causa ed effetto della democrazia stessa: tanta più democrazia, tanta più virtù democratica. Un circolo meraviglioso! La democrazia sarebbe l'unica forma di governo perfettamente autosufficiente, rispetto a ciò che Montesquieu denominava il suo ressort, la molla spirituale. Basterebbe metterla in moto, all'inizio; poi, le cose andrebbero da sè per il meglio.
Ebbene, a distanza di qualche decennio dalla Costituzione, uno scritto famoso di Norberto Bobbio (Il futuro della democrazia, 1984) tra le "promesse non mantenute" della democrazia indicava lo spirito democratico.
Invece dell'attaccamento, cresce l'apatia politica. In Italia, e forse non solo, si è democratici non per convinzione, ma per assuefazione e l'assuefazione può portare alla noia, perfino alla nausea e al rigetto. È pur vero che la partecipazione può improvvisamente infiammarsi e l'indifferenza può essere spazzata via da ventate di mobilitazione, in situazioni eccezionali. Sono però reviviscenze che non promettono nulla di buono. Gli elettori, eccitati, si mobilitano su fronti opposti per sopraffarsi, al seguito di parole d'ordine elementari: bene-male, amore-odio, verità-errore, vita-morte, patriottismo-disfattismo, ecc., cose che lestofanti della politica spacciano come rivincita dei valori sul relativismo democratico. Parole che potranno forse servire a vincere le elezioni ma intanto spargono veleni, senza che un'opinione pubblica consapevole sappia difendersi, dopo che la routine l'ha resa ottusa. Un difetto e un eccesso: l'uno indebolisce, l'altro scuote alle radici.
Apatia e sovreccitazione sono qui a dimostrare che l'ethos della democrazia non si produce da sè. Monarchie, dispotismi, aristocrazie e repubbliche hanno avuto i loro pedagoghi: Senofonte, Cicerone, Machiavelli, Bossuet, Montesquieu... Le rivoluzioni hanno avuto i loro catechismi. La democrazia invece ha politologi e costituzionalisti. Non bastano. Il loro compito è studiare e spiegare regole esterne di funzionamento ma ciò che qui importa, il fattore spirituale, normalmente sfugge. Il loro pubblico, poi, non è certo il cittadino comune, come dovrebbe essere, in quanto si sia in democrazia. Naturale dunque è che si guardi alla scuola e al suo compito di formazione civile. Il decalogo che segue è una semplice proposta.
1. La fede in qualcosa che vale
La democrazia è relativistica, non assolutistica. Come istituzione d'insieme, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli su cui si basa. Deve cioè credere in se stessa e sapersi difendere, ma al di là di ciò è relativistica nel senso preciso della parola: fini e valori sono da considerare relativi a coloro che li propugnano e, nella loro varietà, ugualmente legittimi. Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma, sono incompatibili. La verità assoluta e il dogma valgono nelle società autocratiche, non in quelle democratiche. Dal punto di vista dei singoli, invece, relativismo significa che "tutto è relativo", che una cosa vale l'altra, cioè che nulla ha valore. In questo senso, cioè dal punto di vista dei singoli, relativismo equivale a nichilismo o scetticismo. Ora, mentre il relativismo dell'insieme è condizione della democrazia, nichilismo o scetticismo sociali sono una minaccia. Se non si ha fede in nulla, perché difendere una forma di governo come la democrazia che vale in quanto le proprie convinzioni possono essere fatte valere? Per lo scettico, democrazia o autocrazia pari sono. Rallegriamoci dunque se la democrazia, come insieme, è relativistica. Solo così la società può essere libera; chi se ne duole, nasconde pensieri autocratici. Impegniamoci però in ogni luogo per scuotere l'apatia, promuovere ideali, programmi e, perché no, utopie.

2. La cura delle individualità personali
La democrazia è fondata sugli individui, non sulla massa. Come Tocqueville ha antiveduto, la massificazione è un pericolo mortale. Proprio la democrazia, proclamando un'uguaglianza media, può minacciare i valori personali annullando individui e libertà nella massa informe. E la massa informe può accontentarsi di un demagogo in cui identificarsi istintivamente. I regimi totalitari del secolo scorso sono la riprova: una democrazia senza qualità individuali si affida ai capipopolo e questi, a loro volta, hanno bisogno di uomini-massa, non di uomini-individui. Per questo, la democrazia deve curare l'originalità di ciascuno dei suoi membri e combattere la passiva adesione alle mode. Dobbiamo vedere con preoccupazione l'appiattimento di molti livelli dell'esistenza, consumi e cultura, divertimenti e comunicazione: tutti "di massa". Chi non si adegua, nel migliore dei casi è un "originale", nel peggiore uno "spostato". Non è questa certo la prima volta che ci si rivolge proprio alla scuola perché alimenti, e non reprima, caratteri e vocazioni personali delle giovani vite con cui ha a che fare.

3. Lo spirito del dialogo
La democrazia è discussione, ragionare insieme; è, socraticamente, filologia. Chi odia discutere, il misologo, odia la democrazia, forma di governo discutidora. Alla persuasione preferisce l'imposizione. Maestro insuperabile dell'arte del dialogo, cioè della filologia, è certo Socrate, cui si deve la denuncia di due opposti pericoli. Vi sono - dice - "persone affatto incolte", che "amano spuntarla a ogni costo" e, insistendo, trascinano altri nell'errore. Vi sono poi però anche coloro che "passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi i più sapienti per aver compreso, essi soli, che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c'è nulla di sano o di saldo, ma tutto va continuamente su e giù". Dobbiamo guardarci da entrambi i pericoli, l'arroganza del partito preso e il tarlo che nel ragionare non vi sia nulla di integro. Per preservare l'onestà del ragionare, deve essere prima di tutto rispettata la verità dei fatti. Sono dittature ideologiche, quelle che li manipolano, travisano o addirittura creano o ricreano ad hoc. Sono regimi corruttori delle coscienze "fino al midollo", quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un "nichilismo della realtà", mettendo sullo stesso piano verità e menzogna. Gli eventi della vita non sono più "fatti duri e inevitabili", bensì un "agglomerato di eventi e parole in costante mutamento (su e giù, per l'appunto), nel quale oggi può essere vero ciò che domani è già falso", secondo l'interesse del momento (Hannah Arendt).
Perciò, la menzogna intenzionale - strumento ordinario della vita pubblica - dovrebbe trattarsi come crimine contro la democrazia. Nè intestardirsi, dunque, nè lasciar correre, secondo l'insegnamento socratico. Il quale ci indica anche la virtù massima di chi ama il dialogo: sapersi rallegrare di scoprirsi in errore. Chi, alla fine, è sulle posizioni iniziali, infatti, ne esce com'era prima; ma chi si corregge ne esce migliorato, alleggerito dell'errore. Se, invece, si considera una sconfitta, addirittura un'umiliazione, l'essere colti in errore, lo spirito del dialogo è remoto e dominano orgoglio e vanità, sentimenti ostili alla democrazia.

4. Lo spirito dell'uguaglianza
La democrazia è basata sull'uguaglianza; è insidiata dal privilegio.
L'uguaglianza è isonomia - "la più dolce delle parole" -, l'uguaglianza delle leggi, che, in Grecia, precedette il secolo glorioso della democrazia ateniese. Senza leggi uguali per tutti - pensiamo ai privilegi, alle leggi ad personas - la società si divide in caste e la vita collettiva diventa dominio di oligarchie. Il privilegio crea arrivismo e rincorse perverse. Se la mobilità e gli accessi in alto esistono, la società è sottoposta a stress dal carrierismo diffuso, con disagio, frustrazioni, perfino suicidi; se si chiudono, per insufficiente mobilità, si ingenera un terribile male distruttivo, l'invidia sociale. Tanto sono evidenti, non occorrono esempi della caduta attuale dello spirito di uguaglianza. Si tratta anzi di un rovesciamento: l'ammirazione sta al posto del disprezzo verso i privilegiati, esempi da imitare nel modo di pensare e nello stile di vita.
C'è un luogo di culto sociale che esprime lo spirito autentico del nostro tempo: lo stadio. Si faccia attenzione alle stratificazioni del pubblico.
Alla tribuna volgarmente denominata dei vip, dove siedono i prominenti di politica, finanza, mondanità, si volgono gli occhi di decine di migliaia di potenziali clientes che, invece di avvertire l'indecenza della situazione, farebbero di tutto per esservi ammessi.

5. Il rispetto delle identità diverse
In democrazia le identità particolari sono ininfluenti sul diritto di stare in società. Non è stato così in passato; non è pienamente così neppure ora. Oggi, il problema della coesistenza di identità plurime è di natura etnico-culturale e religiosa; storicamente, è stato religioso, derivando dal distacco della Riforma dalla Chiesa di Roma. In nome dell'ordine interno, col principio cuius regio, eius et religio, a metà del '500 si impose in Europa l'identità di religione agli abitanti le medesime terre, rendendo sì possibili le migrazioni da uno stato all'altro per difendere, insieme alla vita, la fede, ma permettendo la persecuzione religiosa entro ciascuno Stato. L'idea della tolleranza nacque per consentire di tenere insieme terra e fede, per non dover perdere l'una volendo conservare l'altra. Ma non alla tolleranza si rivolge la democrazia. Il contesto è diverso. L'assolutismo, quando si ammorbidisce, può parlare di tolleranza; non la democrazia, cui si addice invece il linguaggio della cittadinanza, uguale per tutti. Onde il concetto di identità, se deve valere per riconoscere e proteggere le culture diverse, è irrilevante per la partecipazione alla vita pubblica.
Il rischio viene ora da un nuovo richiamo all'unione tra potere civile e religione. Storicamente, essa ha posto la vita religiosa sotto la potenza degli Stati. Oggi, "atei-clericali", o come li si possa chiamare, mirano al rovescio: cuius religio, eius et regio, in un ambiguo intreccio di potere civile e religioso in cui l'uno si appoggia sull'altro (Stefano Levi della Torre). Una nuova alleanza tra trono e altare, una minaccia di rinnovate intolleranze su ampia scala. Questi problemi sono particolarmente vivi nel riflesso che hanno con riguardo ai simboli, velo islamico o crocifisso cristiano. La democrazia non ne può impedire l'esposizione a nessuno in particolare, ma nessuno, a sua volta, può farne uso aggressivo. Se e quando prevarrà il reciproco rispetto, un problema che oggi appare tanto acuto, all'identità associandosi l'esclusione, si supererà da sè, senza bisogno di soluzioni giuridiche. Molto può la scuola nel promuovere la reciproca accettazione e con ciò abbassare l'insolenza dei segni distintivi.

6. La diffidenza verso le decisioni irrimediabili
La democrazia implica la rivedibilità di ogni decisione (sempre esclusa quella sulla democrazia stessa). Le soluzioni definitive ai problemi, senza possibili ripensamenti e correzioni, sono dei regimi della giustizia e verità assolute. In quanto perennemente dialogica, la democrazia non ha e non può volere verità nè a priori, come frutto per esempio di mandati divini, nè a posteriori, come conseguenza di decisioni popolari, anche se unanimi. La strada per dire: "ci siamo sbagliati" deve restare sempre aperta. Non è privo di significato che le democrazie siano prevalentemente orientate contro la pena di morte e contro la guerra, due decisioni dagli effetti irreversibili. Le autocrazie, invece, non hanno scrupoli. Possono fondarsi, come in de Maistre, sull'elogio congiunto della forza armata e del boia, naturali prosecuzioni della verità assoluta. Tutti comprendiamo quanto le decisioni irreversibili possano pregiudicare la discussione in materie oggi divenute cruciali, come la bioetica, la tecnologia applicata ai temi della vita, della morte e della salute o il rapporto tra l'essere umano e la natura - tutte esposte al rischio di scelte senza ritorno.

7. L'atteggiamento sperimentale
La democrazia è orientata da principi ma deve imparare quotidianamente dalle conseguenze dei propri atti. È scontata la citazione della weberiana etica della responsabilità, accanto all'etica della convinzione. Non è così per i regimi della verità assoluta. Essi non temono le conseguenze.
Fiat veritas, fiat iustitia, pereat mundus. Lo spirito democratico è invece quello in cui convinzioni e conseguenze formano il campo di tensione che determina le norme dell'agire responsabile. Ogni progetto realizzato apre problemi che rimettono in discussione il progetto. L'esperienza è il banco di prova della teoria. Immergersi in questa tensione forma il carattere, rende accettabili le sconfitte e promuove nuove energie. Sotto questo aspetto, l'istituzione scolastica da noi è particolarmente carente, orientata com'è all'astrattezza che genera distacco dal mondo, induce alla rinuncia e invita all'individualismo chiuso in se stesso.

8. Coscienza di maggioranza e coscienza di minoranza
In democrazia, nessuna deliberazione si interpreta nel segno della ragione e del torto. Non vale la massima terroristica: vox populi, vox dei. Essa solo apparentemente è democratica poiché nega il diritto della minoranza, la cui opinione, per opposizione, si direbbe vox diaboli. Vox populi, vox hominum, invece; voce di esseri fallibili ma disposti a riconoscere i propri errori. Il motore di questo movimento sta non nella maggioranza, ma nelle minoranze che fanno loro il motto "distinguiti dalla maggioranza nel compiere ciò che ritieni giusto". La loro ragione d'essere è la sfida alla deliberazione presa, in previsione di un'altra migliore. Per questo, la prevalenza di una maggioranza su una minoranza non è la vittoria della prima e la sconfitta della seconda ma l'assegnazione di un duplice onere: alla maggioranza, dimostrare nel tempo a venire la validità della decisione presa; alla minoranza, insistere su ragioni migliori. Ond'è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle che instaurano la democrazia stessa) chiude definitivamente la partita, perché il terreno per la sfida di ritorno è sempre aperto.

9. L'atteggiamento altruistico
La democrazia è forma di vita di esseri umani solidali. La virtù repubblicana di Montesquieu è questo: amore per la cosa pubblica e disponibilità a mettere in comune qualcosa, anzi il meglio di sè: tempo, capacità, risorse materiali. Ciò costituisce la res publica come risorsa comune cui tutti possono attingere. L'emarginazione sociale è dunque contro la democrazia e l'idea che nessuno possa essere lasciato a se stesso non è elemento accidentale della democrazia. L'alternativa è il darwinismo sociale, l'ideologia crudele che legittima la fortuna dei forti e abbandona i deboli alla loro sorte. Dire queste cose a un pubblico di insegnanti che quotidianamente hanno a che fare con studenti che eccellono e con altri che faticano a tenere il passo significa evocare problemi che essi conoscono bene e solidarizzare con la loro fatica.

10. La cura delle parole
Essendo la democrazia dialogo, gli strumenti del dialogo, le parole, devono essere oggetto di cura particolare, come non è in nessun'altra forma di governo. Cura duplice: quanto al numero e alla qualità.
a) Il numero di parole conosciute e usate è proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia. Quando il nostro linguaggio politico si fosse rattrappito al solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo ridotti a gregge. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti nella scala sociale. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana? Comanda chi conosce più parole. Il dialogo, per essere tale, deve essere paritario. Se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di altri, la vittoria non andrà al logos migliore, ma al più abile con le parole, come al tempo dei sofisti. Ecco perché la democrazia esige una certa uguaglianza nella distribuzione delle parole. "È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno". Ed ecco perché una scuola ugualitaria è condizione di democrazia.
b) La qualità delle parole. Per l'onestà del dialogo, le parole non devono essere ingannatrici. Parole precise e dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole su parole. Le parole, poi, devono rispettare, non corrompere il concetto. Altrimenti, il dialogo diventa un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con la frode. Ancora impariamo dal Socrate del Fedone: "il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi". Il mondo della politica è dove questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare per l'appunto dalla parola "politica". Politica viene da polis e politeia, due concetti che indicano arte, scienza e attività dedicate alla convivenza. Ma oggi si parla di politica di guerra, segregazionista, espansionista, coloniale, ecc. "Questa è un'epoca politica - ha scritto Orwell. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono ciò a cui pensare". Altro inganno: la libertà, da protezione degli inermi contro gli abusi del potere è diventata, nell'uso "politico", scudo dietro il quale i potenti nascondono la loro pre-potenza.
Inganni, dunque. A chi pronuncia parole come queste siamo autorizzati a chiedere: da che parte stai? Degli inermi o dei potenti?

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Gustavo Zagrebelsky, nato nel 1943 a San Germano Chisone (To), illustre costituzionalista, docente universitario, giudice della Corte Costituzionale (e suo presidente, quindi presidente emerito); componente dei comitati scientifici delle riviste "Giurisprudenza costituzionale", "Quaderni costituzionali", "Il diritto dell'informazione", "L'Indice dei libri", e della Fondazione Roberto Ruffilli; socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino, già collaboratore del quotidiano "La Stampa"; per la casa editrice Einaudi dirige la collana "Lessico civile"; autore di vari volumi e saggi, ha collaborato al commentario alla Costituzione italiana diretto da Giuseppe Branca. Tra i suoi numerosi lavori segnaliamo particolarmente Amnistia, indulto e grazia. Problemi costituzionali,1972; Manuale di diritto costituzionale. Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, 1974, 1978; La giustizia costituzionale,1978, 1988; Società, Stato, Costituzione. Lezioni di dottrina dello Stato, 1979; Le immunità parlamentari, Einaudi, Torino 1979; Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992; Questa Repubblica, Le Monnier, Firenze 1993; Il "crucifige" e la democrazia, Einaudi, Torino 1995; (con Pier Paolo Portinaro e Joerg Luther, a cura di), Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino 1996; La giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna 1996; (con Carlo Maria Martini), La domanda di giustizia, Einaudi, Torino 2003; (a cura di), Diritti e Costituzione nell'Unione europea, Laterza, Roma-Bari 2003, 2005; (con M. L. Salvadori, R. Guastini, M. Bovero, P. P. Portinaro, L. Bonanate), Norberto Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005; Imparare la democrazia, Gruppo editoriale L'Espresso, Roma 2005; Principi e voti, Einaudi, Torino 2005