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Da “Il Manifesto” del 4 gennaio 2007

«La nostra campagna proverà che la lotta delle donne ha ampio consenso». Un sito da voce a una mobilitazione femminista che va ben oltre il suo obiettivo, cioè la parità giuridica delle iraniane
ma.fo.


La campagna «Un milione di firme per cambiare le leggi discriminatorie» è stata lanciata il 27 agosto a Tehran e lancia un segnale importante, in un momento in cui in Iran e in tutto il Medio Oriente prevale l'atmosfera del confronto militare. L'appello pubblicato dalle attiviste iraniane elenca alcuni obiettivi. «Promuovere la cooperazione tra uno spettro ampio di attiviste sociali per il cambiamento», «identificare le priorità delle donne» «sviluppando i legami tra gruppi di donne con diversi retroterra», ad esempio «quelle che difendono i diritti umani e altri grupppi di cittadine»; questo «farà crescere la generale consapevolezza sulle ingiustizie che esistono nel sistema legale». Ancora: «Amplificare la voce delle donne», «aumentare la conoscenza e promuovere l'azione democratica».

Tratto dal notiziario del “Centro di ricerca per la pace” del 21 febbraio 2007

[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "La repubblica" del 2 febbraio 2007]


In nome di che cosa si può decidere della separazione dell'ambito privato e dell'ambito pubblico? E chi può prendere una simile decisione? Forse è una delle questioni più sottili che dobbiamo affrontare. Ma generalmente ci sfugge perché è risolta, a nostra insaputa, dal costume, dalla tradizione.
Sembra naturale che debba essere così. Salvo che si resta talvolta un pò perplessi davanti a certi eventi, certi incontri, con altre culture e anche con altre generazioni. I limiti non sono sempre stabiliti allo stesso posto, nello stesso modo. Si fanno in pubblico delle cose che si facevano solo in casa, e non si sa più come comportarsi, dove passa la separazione tra vita privata e vita pubblica.
I movimenti per l'emancipazione e la liberazione delle donne hanno rappresentato uno di questi momenti in cui le certezze rispetto a che cosa è il privato e quale altra il pubblico hanno vacillato. E questo terremoto non ha finito di sconvolgere i nostri punti di riferimento. Probabilmente perché il posto dove una donna può stare è stata una delle chiavi che è servita per assicurare la chiusura dell'ambito privato rispetto a quello pubblico. Ma se le donne escono dalla casa, dove si sposta la separazione? E che cosa, infatti, definiva prima la vita privata? Il mantenimento della donna a disposizione del capofamiglia per soddisfare le sue necessità? Forse sarebbe interessante esaminare le diverse necessità a cui la donna in casa doveva corrispondere per capire qualcosa della definizione del privato rispetto al pubblico.

(Cecilia Strada, dal sito Peacereporter – articolo del 8 marzo 2007)
(tratto da “Notizie minime – n. 24, del 10 marzo 2007 – Centro Ricerca per la Pace)


Dal 2001 a oggi, qualcosa è cambiato per la popolazione femminile in Afghanistan. Diverse donne sono state elette all'Assemblea nazionale (tutte però, è bene ricordarlo, grazie alle "quote rosa" e non perché siano state realmente premiate dal voto degli elettori), nelle città in molte hanno potuto ricominciare a lavorare fuori casa, a studiare, a frequentare gli spazi pubblici. Per la stragrande maggioranza di chi abita al di fuori dei grossi centri urbani, tuttavia, sembra che il tempo non sia passato.
Ancora oggi, una donna che nasce in Afghanistan - chiamiamola Gulchì, con nome di fiore - ancora prima di venire al mondo appartiene al padre. Nella vita di tutti i giorni, è il fratello a controllarla, accompagnandola e sorvegliandola quando è costretta a uscire di casa. Se il padre deve assentarsi per lavoro, o se il padre muore, è il fratello a diventare il capo della famiglia e a disporre di lei. "Il fratello è peggio del padre" è la frase di circostanza che le donne usano ogni volta che vengono a conoscenza di qualche abuso perpetrato su una donna da parte del fratello.

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo dal titolo originale "I diritti delle donne marocchine indossano vesti regali".
Leela Jacinto, giornalista indipendente esperta di affari mediorientali, è stata reporter internazionale per "Abc News" ed ha insegnato giornalismo per l'agenzia "Pajhwok Afghan News Service" a Kabul in Afghanistan]


Casablanca, Marocco.
La frase che gira sulle strade di Casablanca, l'affaccendata capitale commerciale del Marocco è: l'imperatore ha dei nuovi vestiti. Ha anche una nuova bimba, e la stampa marocchina si è gettata a capofitto sull'evento. Dopo la nascita della sesta figlia di re Mohammed VI, la principessa Khadija, il 28 febbraio scorso, due importanti riviste femminili hanno offerto servizi fotografici in omaggio alla piccola altezza reale. Raffigurando l'intera famiglia abbigliata negli squisiti indumenti tradizionali, i servizi hanno dato un raro sguardo al mondo privato di Mohammed VI, il diciottesimo re della dinastia Alauita, una delle più antiche del pianeta.
"Sì, ho comprato copia di entrambe le riviste", dice Botoul Sahli, insegnante quarantaduenne, "Sono immagini bellissime. Adoro le vesti tradizionali, così preziose. Sua maestà non dà importanza al velo. Sua moglie e le sue sorelle non lo indossano. Queste donne sono esempi importanti per noi, donne musulmane marocchine".
Salutato come una luminosa speranza per la modernizzazione araba quando è salito al trono sette anni fa, Mohammed VI ha da allora percorso una strada che potremmo definire mista, ma persino i suoi critici più accaniti riconoscono che le sue iniziative a sostegno dei diritti delle donne hanno avuto un clamoroso successo.


Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Lo stupro come arma di guerra contro le donne. La guerra è un crimine. Lo stupro è il peggior crimine dei crimini", pubblicato su “Voci e Volti della nonviolenza”, n. 70 del 27 giugno 2007.


"Lo stupro è il processo consapevole di intimidazione grazie al quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in stato di paura" (Susan Brownmiller).
Non si tratta di un atto incontrollato. Lo stupro viene commesso dopo essere stato vagheggiato, pianificato, vagliato, preparato. È un atto che cerca simbolicamente la morte della propria vittima, ovvero che essa desideri essere morta. Lo stupro in guerra è anche uno strumento di esilio forzato, di distruzione di una comunità, di un gruppo o di un popolo. Lo stupro è infine spettacolo: qualcosa che deve essere visto e sentito e raccontato agli altri. L'orrore palese del conflitto armato si somma alle violazioni conseguenti nel campo dei diritti umani; la guerra distrugge o limita severamente i diritti di base sociali, economici e politici di uomini e donne: mentre eserciti e/o milizie avanzano, le scuole chiudono, i servizi sanitari spariscono o diminuiscono, l'economia vacilla e la disoccupazione cresce. Ma la violenza sessuale, sebbene anche uomini la subiscano, non è il primo timore che stringe il cuore di un uomo quando viene arrestato, o quando la sua porta di casa viene buttata giù a calci alle due del mattino, o quando i soldati "nemici" entrano con i carri armati in città. È il primo terrore di una donna.

(Intervento alla tavola rotonda “la nonviolenza delle donne”, tenutasi a Pisa in occasione del convegno “100 anni di Satyagraha”, pubblicato su “La nonviolenza è in cammino”, n. 1438 del 3 ottobre 2006)


In un convegno come questo, che vuole fare memoria di un altro 11 settembre, per rendere visibile il ricco patrimonio di nonviolenza presente nella storia e aprire così una diversa prospettiva per il presente e per il futuro, mi sembra importante fare memoria anche delle riflessioni e delle pratiche in cui il rapporto tra donne e nonviolenza è venuto alla luce nel corso degli ultimi decenni, a partire dalla mia personale ricerca di nonviolenza e presenza all'interno dei movimenti. Un punto di vista parzialissimo, dunque, e per nulla esaustivo, una testimonianza esemplificativa, più che una ricostruzione storica di ciò che è stata la nonviolenza delle donne dagli anni Settanta ad oggi.

Una prima sistematica raccolta di testi su questo tema si trova sul numero di "Azione nonviolenta" del luglio-agosto 1979, sotto forma di dossier dal titolo "Femminismo. La nonviolenza: una via?", con contributi prevalentemente stranieri comparsi nel corso degli anni Settanta.
Questo materiale costituisce il nucleo di partenza di un testo, Per un futuro nonviolento, curato da Adriana Chemello e pubblicato dalla casa editrice Satyagraha nel 1984 (1). L'approccio che l'autrice propone per indagare il rapporto tra donne e nonviolenza è evidenziato già dal titolo del primo paragrafo dell'introduzione: "Mai più vittime e complici". Una presa di distanza dal vittimismo e un mettere in primo piano la responsabilità, la scelta, sia nelle relazioni di genere, sia in quelle politico-sociali, per rifiutare ogni complicità e attivare la forza e il potere che è nelle mani di ciascuna/o, in perfetta continuità con la concezione nonviolenta del potere.: "La forza di chi opprime sta tutta nella paura e nella debolezza della vittima. Il potere sull'altro si avvale del consenso o della delega" ( p. 12).
Più avanti nell'introduzione si parla della necessità di recuperare per tutti i "cosiddetti" (virgolettato nel testo) valori femminili: "l'empatia, l'attenzione ai cicli biologici, il rispetto dei ritmi naturali... l'armonia col cosmo, l'apertura e la disponibilità verso gli altri" (p. 13) e di ripensare la nonviolenza a partire da sè, di "leggerla dal nostro punto di vista per interpretarla e se possibile praticarla in sintonia con la nostra femminilità" (p. 17).
Ma anche il rapporto tra donne e violenza è indagato a fondo in uno dei saggi proposti ("Tra cane e lupo", di Francoise Collin), mettendo in discussione lo stereotipo della donna "naturalmente" nonviolenta ed evidenziando le varie forme di violenza subita o agita, contro gli altri e contro di sè.


Dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (www.emsf.rai.it) riprendiamo il testo della seguente conversazione tenuta al liceo scientifico "Isaac Newton" di Roma e trasmessa nel programma televisivo della Rai "Il grillo" del 10 novembre 1998, pubblicato sul notiziario "La nonviolenza è in cammino".