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Pubblicato su “Voci e volti della nonviolenza”, n. 152 del 27 febbraio 2008

Partirei da  una proposta semplice, che sembra ovvia ma non lo é: l'idea che vorrei  mettere in pratica nelle liste è l'idea che le donne hanno valore, e che le differenze fra esseri umani, fra uomini e donne, siano esse biologiche o derivazioni culturali, non costituiscono scusante o giustificazione per la discriminazione rivolta contro le donne.

Pubblicata sulla lettera di marzo del circolo ACLi di Cernusco sul Naviglio (Mi)

In questi tempi in cui si parla a proposito e a sproposito dell’aborto e della legge 194, ho sentito l’esigenza di condividere con voi alcune riflessioni. Io credo che tutto il dibattito sia stato affrontato in modo sbagliato. Sono cattolica e, personalmente, non avrei mai abortito. Da giovane ho avuto dei figli e diversi aborti spontanei, che sono stati per me una fonte di sofferenza. Tanto più penso sia molto difficile per una donna decidere di non portare avanti una gravidanza non voluta.

Gli stupratori non nascono tali. Vengono "costruiti", addestrati, come si addestrano i soldati ad uccidere. E la cultura che fa di un uomo uno stupratore è la stessa che "fa" noi tutti/e. Non è una questione femminile, è una questione condivisa, e come tale va affrontata. Molti uomini pensano, e sono sinceri, che la violenza sessuale, quella domestica ed il sessismo siano problemi altrui: segnatamente oggi, dopo gli ultimi fatti di cronaca, è problema/responsabilità dei barbari invasori stranieri.



Da “Il Manifesto” del 4 gennaio 2007

In Iran un ampio movimento di donne ha deciso di raccogliere firme per sostenere la richiesta di riformare le leggi che discriminano la parte femminile della società. Con un lavoro capillare, nelle città e nei villaggi, che mobilita diverse generazioni di attiviste: un'esperienza unica in un Medio oriente dove prevale l'atmosfera della guerra

Marina Forti

L'obiettivo può sembrare limitato: una campagna per abrogare le norme legali che discriminano le donne in Iran e sancire la parità giuridica di donne e uomini. Eppure la campagna lanciata alla fine di agosto da alcuni gruppi di donne iraniane è interessante ben al di là del suo carattere «riformista» e paritario. L'intenzione è di raccogliere «un milione di firme per cambiare le leggi discriminatorie».
Per come è nata, per la diversità delle persone che vi partecipano, quest'iniziativa sta catalizzando un movimento diversificato per età ed estrazioni sociali e politiche. Un milione di firme non sono poche, e le attiviste che hanno lanciato questa campagna intendono raccoglierle una per una, con un lavoro capillare: porta-a-porta, riunioni nelle università e nei luoghi di lavoro, conferenze pubbliche, carovane nei villaggi e nei quartieri periferici...

Da “Il Manifesto” del 4 gennaio 2007

«La nostra campagna proverà che la lotta delle donne ha ampio consenso». Un sito da voce a una mobilitazione femminista che va ben oltre il suo obiettivo, cioè la parità giuridica delle iraniane
ma.fo.


La campagna «Un milione di firme per cambiare le leggi discriminatorie» è stata lanciata il 27 agosto a Tehran e lancia un segnale importante, in un momento in cui in Iran e in tutto il Medio Oriente prevale l'atmosfera del confronto militare. L'appello pubblicato dalle attiviste iraniane elenca alcuni obiettivi. «Promuovere la cooperazione tra uno spettro ampio di attiviste sociali per il cambiamento», «identificare le priorità delle donne» «sviluppando i legami tra gruppi di donne con diversi retroterra», ad esempio «quelle che difendono i diritti umani e altri grupppi di cittadine»; questo «farà crescere la generale consapevolezza sulle ingiustizie che esistono nel sistema legale». Ancora: «Amplificare la voce delle donne», «aumentare la conoscenza e promuovere l'azione democratica».

Tratto dal notiziario del “Centro di ricerca per la pace” del 21 febbraio 2007

[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul quotidiano "La repubblica" del 2 febbraio 2007]


In nome di che cosa si può decidere della separazione dell'ambito privato e dell'ambito pubblico? E chi può prendere una simile decisione? Forse è una delle questioni più sottili che dobbiamo affrontare. Ma generalmente ci sfugge perché è risolta, a nostra insaputa, dal costume, dalla tradizione.
Sembra naturale che debba essere così. Salvo che si resta talvolta un pò perplessi davanti a certi eventi, certi incontri, con altre culture e anche con altre generazioni. I limiti non sono sempre stabiliti allo stesso posto, nello stesso modo. Si fanno in pubblico delle cose che si facevano solo in casa, e non si sa più come comportarsi, dove passa la separazione tra vita privata e vita pubblica.
I movimenti per l'emancipazione e la liberazione delle donne hanno rappresentato uno di questi momenti in cui le certezze rispetto a che cosa è il privato e quale altra il pubblico hanno vacillato. E questo terremoto non ha finito di sconvolgere i nostri punti di riferimento. Probabilmente perché il posto dove una donna può stare è stata una delle chiavi che è servita per assicurare la chiusura dell'ambito privato rispetto a quello pubblico. Ma se le donne escono dalla casa, dove si sposta la separazione? E che cosa, infatti, definiva prima la vita privata? Il mantenimento della donna a disposizione del capofamiglia per soddisfare le sue necessità? Forse sarebbe interessante esaminare le diverse necessità a cui la donna in casa doveva corrispondere per capire qualcosa della definizione del privato rispetto al pubblico.

(Cecilia Strada, dal sito Peacereporter – articolo del 8 marzo 2007)
(tratto da “Notizie minime – n. 24, del 10 marzo 2007 – Centro Ricerca per la Pace)


Dal 2001 a oggi, qualcosa è cambiato per la popolazione femminile in Afghanistan. Diverse donne sono state elette all'Assemblea nazionale (tutte però, è bene ricordarlo, grazie alle "quote rosa" e non perché siano state realmente premiate dal voto degli elettori), nelle città in molte hanno potuto ricominciare a lavorare fuori casa, a studiare, a frequentare gli spazi pubblici. Per la stragrande maggioranza di chi abita al di fuori dei grossi centri urbani, tuttavia, sembra che il tempo non sia passato.
Ancora oggi, una donna che nasce in Afghanistan - chiamiamola Gulchì, con nome di fiore - ancora prima di venire al mondo appartiene al padre. Nella vita di tutti i giorni, è il fratello a controllarla, accompagnandola e sorvegliandola quando è costretta a uscire di casa. Se il padre deve assentarsi per lavoro, o se il padre muore, è il fratello a diventare il capo della famiglia e a disporre di lei. "Il fratello è peggio del padre" è la frase di circostanza che le donne usano ogni volta che vengono a conoscenza di qualche abuso perpetrato su una donna da parte del fratello.