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Pubblicato su "Notizie minime della nonviolenza in cammino", n. 507 del 5 luglio 2008, dal qutidiano "La Repubblica" del 16 giugno 2008 col titolo "I nostri indiani si chiamano zingari"

E se domani, in Italia, avvenisse qualcosa di simile a quello che si è visto l'11 giugno scorso a Ottawa? Qui da noi non se ne è parlato, ma è stata una scena emozionante a giudicare dalle fotografie comparse sulle prime pagine dei giornali canadesi. Si vedeva in piedi a sinistra il primo ministro Stephen Harper e davanti a lui seduto, il delegato dell'assemblea delle "First Nations" - quelli che noi, per l'errore di Cristoforo Colombo, continuiamo a chiamare Indiani d'America: si chiama Phil Fontaine, nel suo nome anglo-francese è iscritta la storia dei successivi padroni europei del Canada, ma il caratteristico copricapo di piume che sembra uscito da un film di John Ford rivela la sua identità di "Grande Capo" indiano.

Pubblicato sul "Corriere della sera" del 1 luglio 2008 e tratto da "Notizie minime della nonviolenza in cammino", n. 567 del 3 settembre 2008
Perché è grave prendere le impronte ai rom di cittadinanza italiana? Proprio perché essi sono italiani da due o tre generazioni, la decisione suona discriminatoria e razzista. Non è un caso che la memoria vada spontanea alle angherie che subivano i cittadini di religione o etnia diversa da quella "ariana", durante il nazifascismo.

Pubblicata sulla "newsletter Ecumenici" del 29.09.2008


"Sono forse il guardiano di mio fratello?"

Accade nella nostra città, che un ragazzo 19 enne dal Burkina Faso viene ucciso per motivi futili. La storia di Abdul, della sua morte violenta e assurda, è un segnale preoccupante del clima di intolleranza e di disprezzo che vediamo crescere anche nella nostra città. E’ l’ennesimo episodio che ci parla della paura e della violenza che attraversa i quartieri e le strade.

Tratto da "Voci e volti della nonviolenza", n. 79 del 14 luglio 2007 e pubblicato sul quotidiano "La Repubblica" del 31 luglio 2006, col titolo "Dal non-mondo all'inferno su quelle piccole barche"

Ho osservato con attenzione la fotografia della barca dei clandestini alla deriva. Ha l'aspetto e le dimensioni di quelle piccole imbarcazioni per cinque o sei persone che nel periodo estivo si noleggiano sulle nostre coste per un giro di un paio d'ore in mare. Sei metri per due, neanche 12 metri quadrati. Stipate fino all'inverosimile ventisette persone. Ciascuna delle quali aveva pagato 1.500 dollari per l'acquisto dell'imbarcazione senza conducente.
Avevano detto loro: "Seguite le luci delle piattaforme petrolifere e arriverete a Lampedusa". Le luci le videro la prima notte, poi il motore si ruppe e senza orientamento si persero nel mare. Senza cibo e senza acqua, esaurita nei primi tre giorni, i ventisette disperati incominciarono a gettare a mare chi tra loro, sotto il sole cocente di giorno e il freddo della notte, non riuscì a reggere per tutti i venti giorni in cui erano in balia delle onde, senza neppure più la forza di sperare. "Anche per morire paghiamo" ha dichiarato Hammed, 22 anni, eritreo, uno dei sopravvissuti. "Lo sapevamo che con quei 1.500 dollari pagavamo il biglietto per la nostra morte, ma c'era anche la speranza che qualcuno di noi ce l'avrebbe fatta. E allora abbiamo tentato. Èstato come una scommessa dove in palio c'era la vita o la morte".
Se la barca costava quarantamila dollari non si poteva essere meno di ventisette. Il che vuole dire 30 centimetri a persona, acqua e viveri al minimo per ragioni di spazio, bisogni corporali davanti a tutti come gli animali, neppure lo spazio per sdraiarsi se uno sta male. E poi i morti e la puzza dei loro corpi che cancella la pietà.