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Pubblichiamo volentieri il pirmo di alcuni contirbuti sul dramma che sta vivendo la sua terra, scritti dall'amico libanese Imad... ovviamente saremmo felici di ospitare anche le riflessioni di altre persone...

Illusione, è stata la ricostruzione.
Illusione è la pace.
E' la storia che si ripete.
Il dramma libanese ormai fa parte integrante nell'antropologia sociale e politico nel paese dei cedri.
A livello politico è un enigma, basta sapere che il Libano confina a Sud con Israele e a Nord ed Est con la Siria, un punto strategico per il medio oriente.
Un campo da calcio con giocatori ignoti ed invisibili...
Chiamo mia madre in Libano quasi tutti i giorni e spontaneamente racconta - oggi ho comprato un piccola cisterna d'acqua, costa 50 dollari, ma non è potabile ... - poi si interrompe la linea
Sarà andata via l'elettricità, penso.
Per loro tutto questo è la normalità; così sono cresciuto anch'io.

Continuiamo la pubblicazione della testimonianza dell'amico Imad El Rayes sul Libano
Mia madre, donna straordinaria e forte, ci ha cresciuto durante la guerra civile, da sola.
Avevo dodici anni e tante difficoltà.
Chiamo in Libano lunedì 25 giugno 2007 e immediatamente mia madre mi dice – meno male che hai chiamato, ho delle nuove notizie. Proprio ieri è stato celebrato il matrimonio di tuo cugino, la sposa era bellissima, è stata una bella festa, l’auguro anche a te –.
Poi il tono di voce cambia – che hai - dico io – purtroppo – prosegue mia madre – è morto Walid (un tenente dell’esercito libanese, parente nostro) durante le battaglie di Naher Bared, il campo profughi, dove è nata, o meglio, dove si sono infiltrati i sostenitori di Fateh al islam. Tanti morti in nome di Dio -.
Continua mia madre – mi dispiace per Walid trentadue anni, difendeva il Libano, un nazionalista convinto. Ma questi di Fateh al islam non si sa da dove arrivano e a quale gruppo appartengano. Sono ben organizzati e ben armati, chissà da quanti anni si stanno preparando. Perché non vanno via tutti, e ci lasciano il Libano tranquillo? -.

Tratto da "Nonviolenza. Femminile plurale", n. 66 del 1 giugno 2006

La dignità di un popolo si coglie nei piccoli gesti. Come quando, al termine di una visita all'Hisham's palace, le rovine del palazzo dedicato al califfo Omayyade a Jerico, la guida che ci illustra con dovizie di particolari il sito archeologico e che non prende lo stipendio da almeno due mesi rifiuta persino un piccolo contributo per il suo prezioso lavoro. Di fronte al boicottaggio internazionale, la frustrazione maggiore dei palestinesi è quella di dover dipendere sostanzialmente dagli aiuti esterni.
"Dobbiamo trovare il modo di renderci indipendenti, solo così ci potremo sentire veramente liberi", sostiene Fatemah Botmeh, incaricata della formazione presso il ministero delle donne. La sua aspirazione è condivisa da molti palestinesi. Ma la sua realizzazione non è semplice. "Non ci sarà uno sviluppo in Palestina finché ci sarà l'occupazione", sostiene Suad Amiry, scrittrice e architetta che dirige l'ong Riwaq impegnata nel recupero e la salvaguardia dei beni architettonici palestinesi. "Con tutta la produzione di ortaggi e frutta che abbiamo, quando vado al mercato a fare la spesa trovo solo prodotti israeliani e non è facile boicottarli e sostituirli con quelli palestinesi. Che peraltro non possono essere esportati perché devono passare attraverso Israele, così come le importazioni. Siamo tutti rinchiusi in un grande campo profughi", conclude Suad Amiry. Del resto, è l'israeliano Benvenisti a sostenere che "Israele ha bisogno di occupare i territori palestinesi per continuare a confiscare le terre", conclude Suad.


[Pubblicato sul n. 1324 dell’11 giugno 2006 della “nonviolenza in cammino”, tratto dal quotidiano "Il manifesto" del 4 giugno 2006]

Abbiamo incontrato Zohar Shapira sul lungomare di Tel Aviv durante una pausa del suo lavoro di insegnante. 36 anni, sposato con una bambina di poco più di un anno, che deve andare a recuperare all'asilo appena finita l'intervista, è uno dei fondatori - israeliani - del gruppo "Combattenti per la pace". La composizione del gruppo - 120 refusnik israeliani e 120 ex-prigionieri politici palestinesi, di cui 24 donne - costituisce senza dubbio una novità sullo sfondo del sempre più bloccato conflitto israelo-palestinese. L'organizzazione, che oltre al nucleo centrale - volutamente limitato - gode di molti sostenitori sia israeliani che palestinesi, è nata l'anno scorso dopo anni di incubazione e riflessione ma è apparsa ufficialmente sulla scena politica solo da qualche mese.
Zohar Shapira, per quindici anni nell'esercito, comandante di una unità d'elite incaricata delle missioni speciali (le più sporche) nei territori palestinesi, come è arrivato alla decisione di lasciare l'esercito e di rifiutarsi di tornare in servizio nei territori occupati? "Dopo l'inizio della seconda intifada - racconta - nel 2002, ero impegnato nell'operazione Shield of defence e dopo l'attacco a Jenin ho deciso che non potevo più continuare a fare quello che facevo, era immorale, soprattutto dopo aver sparato sopra la testa di una bambina sbucata improvvisamente da dietro una casa. Entravamo nelle abitazioni dei palestinesi e quando uscivamo portando via qualcuno di loro sospettato di essere un terrorista vedevo gli occhi dei bambini che ci guardavano e capivo che ci avrebbero odiato per tutta la vita. Eravamo noi a seminare l'odio".