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Una marcia della pace che sia impegno di lotta (Buratti Gino)

Il prossimo 11 settembre saremo presenti alla marcia Perugia – Assisi, i cui punti, sebbene forse troppo generici, sono fondamentali per costruire un mondo partendo dalla pace e dalla giustizia: il governo mondiale, come luogo democratico e credibile nel quale avviare un processo di risoluzione dei conflitti, delle situazioni di ingiustizia e delle terribili disuguaglianze, sulle quali si fonda la miseria e il sottosviluppo, e la lotta alla povertà. Temi fondamentali, ma ho la sensazione molto generici, di qui la convinzione che stia ai movimenti riempire questi temi di contenuti, di prospettive, partendo, tuttavia, da una necessaria premessa. Questa marcia, come tutte le altre, deve essere uno dei momenti di lotta nonviolenta per la trasformazione di questo sistema sociale. Non può ridursi ad un appuntamento a cadenza, un po’ retorico e rituale: deve essere un passaggio di lotta, che ne precede e ne anticipa altri… a livello generale ma anche nelle nostre comunità locali. Ritengo che sia importante affermare la scelta della pace e della giustizia, l’esigenza di un governo mondiale democratico, denunciare gli squilibri e la miseria che ne consegue non possono essere semplici enunciazioni o la declinazioni di aspirazioni, devono diventare obiettivi di lotte, impegni quotidiani dei movimenti, proposte di governo che nascano dal basso. Se la marcia è un momento di lotta questa deve avere obiettivi precisi, all’interno di un quadro di riferimento, dentro ad un orizzonte… anche se spesso abbiamo dimenticato gli orizzonti verso i quali muoverci. La riforma dell’ONU non può non passare per l’assunzione della condanna della guerra e per l’affermazione della necessità di un governo mondiale che, costruito su basi democratiche, affronti le disuguaglianze, l’uso squilibrato delle risorse e tutti i conflitti che ne conseguono. Ma tutto ciò non può essere solo un obiettivo generico: affermare la necessità di un governo democratico, credibile e condiviso (autorevole quindi e non autoritario), significa porsi realmente degli obiettivi di lotta e di analisi della realtà esistente. Viviamo l’assurdo paradosso di paesi che si sentono investiti della missione di portare la democrazia, con blindati e bombe, e al tempo stesso questi paesi ha ingessato l’ONU in una sorta di direttorio, chiamato semplicemente ad avvallare le mire egemoniche dell’unica potenza militare rimasta. Affrontare il problema della democrazia del governo mondiale, ci impone una rottura culturale e politica con la cultura della guerra, sia questa chiamata umanitaria o, peggio ancora, preventiva (come strumento finalizzato a rafforzare il potere, alimentando sempre nuovi terrorismi, la cui esistenza diventa l’unica giustificazione formale possibile), ma anche con tutte quelle politiche (ambientali, economiche e culturali) che sono finalizzate al solo rafforzamento dei poteri forti e degli stati ricchi e potenti. Tutto ciò però richiede la mobilitazione dei popoli, assumendosi il ruolo di dare voce a quei popoli il cui grido rimane afono o soffocato dai rumori del nostro benessere… ciò comporta farsi carico sia degli spazi di democrazia, ma anche dei processi in cui sviluppare il protagonismo sociale e la partecipazione, in un contesto nel quale siamo spinti più a chiuderci in casa, nel quale la partecipazione è diventato solo un optional. Così come parlare di miseria, significa dare nome e voce a quei morti quotidiani che non sono estranei al nostro modo di vita e alle nostre sicurezze. Non basta scandalizzarci della miseria e della loro morte. E’ necessario comprendere come essa è quasi una situazione inevitabile se non modifichiamo qualcosa nel nostro sistema di vita e di economia, visto che le risorse non sono illimitate, e possono essere suddivise in maniera più o meno equilibrata. Così come significa comprendere sia come questo squilibrio non ha motivazioni genetiche, ma è frutto delle scelte fatte da noi paesi ricchi, sia come quelle morti e quelle povertà non sono elementi disgiunti e separabili dalla guerra, ma anzi ne sono il frutto e la causa. La marcia dell’11 settembre, come momento di popolo, come momento simbolico, deve essere un anello di queste lotte, non può essere semplicemente un’affermazione di un’aspirazione, o il sentirsi parte di un movimento solo perché in quella occasione marciamo insieme. E la lotta si articola ai vari livelli, primo fra tutti creando le condizioni per alimentare quel senso critico, quella capacità di indignarsi, quella disponibilità a non dare mai niente per scontato che sta venendo meno, che si sta disgregando in questo moto permanente di consumismo e di affermazione di poteri forti che hanno bisogno di uomini distratti, e non di persone capaci di lottare in un orizzonte di ideali e di valori. Domenica è necessario urlare la nostra indignazione, ma anche far si che quell’urlo non si spenga, come invece spesso accade, al ritorno nelle nostre città, nelle nostre case, nei luoghi di lavoro, nelle chiese, nei luoghi di sofferenza… ma che si traduca in azioni concrete nelle periferie e nel governo di queste… bisogna fare in modo che questo passo sia un momento in cui si alimenta questa voglia di essere persone attive e protagoniste del cambiamento, che investe sia le strutture che le scelte personali. Non possiamo ridurre tutto ciò ad una ricorrenza, ad una semplice aspirazione, o peggio ancora a semplici riti, magari vissuti da chi in fin dei conti rischia poco, che non modifica il nostro modo d’essere, di pensare e di lottare… Quindi un impegno che ha una sua ricaduta anche nelle nostre vite quotidiane, fatte di relazioni, di impegni, di azioni politiche… di iniziative che modificano il modo di vivere nelle nostre città e che attaccano le situazioni di ingiustizia con le quali ci confrontiamo quotidianamente per tutti i restanti 364 giorni. Per questo ritengo che stia a ciascuno di noi riempire di contenuti gli slogan della marcia della pace, affinché non rimangano semplici parole, ma impegni concreti di lotta.