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In principio erano le armi di distruzione di massa. Per prevenire il terribile attacco di Saddam al resto del mondo. Poi si scoprì che le armi non c’erano, dunque non c’era nulla da prevenire. Allora si disse che bisognava colpire, a Baghdad, il più terribile alleato e foraggiatore e protettore di Al Qaeda.

Pubblichiamo la premessa alla lettera mensile che le ACLI di Cernusco inviano a iscritti e simpatizzanti.

Novembre 2008. Il manifesto pubblica la lettera di un docente dell'Università La Sapienza di Roma che contesta la decisione del rettore di invitare il papa per l'apertura dell'anno accademico. L'estensore della lettera ritiene che la presenza del pontefice connoterebbe in senso religioso un evento che tale non è. Inoltre rimprovera al rettore il fatto di aver operato questa scelta senza consultare il senato accademico.

La guerra ingaggiata dai paesi totalitari contro la libertà di informazione su internet costituisce la manifestazione ultima e spettacolare di un conflitto secolare, di una insofferenza di tutti i poteri costituiti nei confronti di chi agisce per rendere trasparente e controllabile il loro operato. È una vicenda lunga, accompagna la nascita dell'opinione pubblica moderna, che riesce a strutturarsi e a far crescere la sua influenza proprio grazie al ruolo della stampa. Qui è la radice di un processo che, insieme, dà senso alla democrazia e fa progressivamente emergere la stessa stampa come potere, il "quarto potere", al quale ne seguirà un "quinto", identificato nella televisione: poteri oggi unificati dal riferimento comune al sistema della comunicazione.

Parliamo della servitù di stampa. Alcune piccole notizie comparse sui quotidiani negli stessi giorni: a) licenziato in Cina il giornalista che ha segnalato l’assassinio da parte dei poliziotti di un giovane rinchiuso in un istituto perché diventato «dipendente» di internet; b) un giornale dell’esercito Onu afferma che in Afghanistan si schedano i giornalisti «buoni» e «cattivi»; c) la moglie (d’origini italiane) del giornalista iraniano-canadese ringrazia il governo italiano per l’interessamento nei confronti del marito, arrestato in Iran perché raccoglieva notizie sulle elezioni; d) in Borsa si guarda con attenzione agli acquisti di azioni delle Generali da parte del «più famoso costruttore italiano, il cavaliere del lavoro Francesco Gaetano Caltagirone, suocero del leader centrista Pier Ferdinando Casini e proprietario di un robusto impero editoriale». Virgolette dei mass media.

Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata.


Nelle democrazie che definiremo 'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.
Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario.
Il problema italiano non è Silvio Berlusconi.
La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità.
È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?
Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale.
Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine".
Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).
E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere.
È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa.
La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa - che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.
Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?
Già, perché farlo? Il perché è molto semplice.
Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto.
Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe.
Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento.
Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli.
Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.
Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.
Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto.

Fonte: Daniele Terzoni

Forse ci salverà l'eccellenza italiana del documentarista costretto all'esilio in Svezia, Erik Gandini, e il trailer proibito del suo Videocracy. Gandini è un cineasta illustre in tutto il mondo (solo in Italia, grazie al nostro servizio pubblico che ha portato avanti la soluzione finale contro l'immaginario creativo non si conosce). Ma credo che questa volta non solo il pianeta, ma perfino la società civile del nostro paese seppellirà con una grande risata il Golia mono-media alle prese con il Davide-trailer Fandango. Il contraddittorio e il pluralismo non si applicano a satira e documentari. Se sono tali hanno il contraddittorio e il pluralismo dentro se stessi. Ma a un trailer? Un contraddittorio per ogni spot vuol dire solo distruggere il servizio pubblico. È questo che vuole la tv commerciale e i suoi avvocati in parlamento?


Una volta la Cia costrinse la Rai, dopo Sangue di condor di Sanjines trasmesso in prima serata, a far parlare per un'ora un funzionario dell'ambasciata Usa per spiegare che non c'era imperialismo, che non si finanziavano i colpi di stato nel cortile di casa, che non si sfruttavano i lavoratori boliviani. Quell'intervento resta negli annali cult della tv comica, come il Saturday Night Live. Ma di Sanjines si è perso memoria. Però.
È pericoloso proibire ogni ricerca di verità, ogni critica, ogni dissenso, ogni concerto di Madonna, ogni informazione «clandestina», ogni corpo «irregolare», sia rom, nero, checca, sciita o homeless. Eliminare gli artisti e i documentaristi di profondità come Gandini (Guantanamo, Che Guevara) uniformando l'offerta. Infantilizzare i cittadini o bromurizzarli con le varie leggi Mammì che insegnano perfino al marchese De Sade come si seviziano davvero i corpi (film). Cancellare dal servizio pubblico ogni documentario e ogni Report. Produrre fanatici in proporzione industriale, meglio se razzisti e «matti», come Svastichella o Insabato.
Vecchio spettro congelato in cantina il maccartismo, che riuscì a convincere il mondo bene che Franklin D. Roosevelt era comunista, perché sapeva che era molto più pericoloso) viene da decenni riesumato dalla parte peggiore dell'Impero (quello che opera ancora demodé colpi di stato in Honduras) e svenduto ai paesi da sottosviluppare per studiarne circoscritte resurrezioni e cancellare ogni cultura e ogni opposizione viva. Il dissenso, quando non è slealtà, è il sale della terra. Certo, in Italia ci sono sempre le quarte colonne, ma basterebbe intrufolarsi nei segreti delle banche svizzere.
Lentamente, lentamente, anche l'Italia del mono-media si è convinta, a forza di leggi di destra e di programmi elettorali di sinistra, che la cultura, cioé è un peso finanziario obsoleto, che la ricerca non dà profitti immediati, che è molto democratico e riformista proibire il dissenso, i fischi, lo sberleffo e le lotte (la violenza va favorita e spalleggiata solo negli stadi e nei night club, per cacciare il pubblico dagli spalti e dalla «notte», stiparlo nelle monovillette stile L'Aquila post-terremoto, e vendere i diritti tv delle partire e del sesso truccati a tutti: ma non ci riprovino gli operai...), ammanettare chi scrive sui muri (il 68-77 ancora non fa dormire i nipotini di Fini e Craxi). Ed è stata convinta a giudicare straordinariamente «noioso» o soporifero (da autorevoli pagine del Corriere della sera) il Tg3, che è l'unico tra tutti i tg pubblici o commerciali a non «parlare d'altro», ad avere una tensione emotiva, informativa e comunicativa non standardizzata né soggetta a ordini dall'alto; cacciare Santoro e probabilmente presto espellere la Littizzetto, o, come Luttazzi, confinarla nei «teatrini» che tanto presto chiuderanno, a meno che non accettino «contraddittorio». Senza Bondi niente Shakespeare?
 
La Rai censura il trailer di Videocracy. «Un film sulla cultura televisiva in Italia, non scindibile da Berlusconi», dice il regista. Per viale Mazzini «non viene rispettato il pluralismo». I consiglieri del Pd: «C'è un disegno, intervenga il cda»
Videocrazia in onda
Micaela Bongi
Eccola qui, la videocrazia nell'era di Silvio. La Rai non ha nessun problema a confermarlo, anzi. Il trailer del film di Erik Gandini Videocracy, appunto, già rifiutato da Mediaset (protagonista della pellicola), perché «lesivo delle prerogative della tv commerciale», non potrà andare in onda nemmeno sugli schermi della tv pubblica. Il film sarà a Venezia, non nella selezione ufficiale ma nella Settimana della critica, e uscirà nelle sale il 4 settembre. Però l'ufficio legale di viale Mazzini, non nuovo a cercare improbabili cavilli per giustificare iniziative censorie dietro input berlusconiano, soprattutto nel lungo periodo in cui è stato diretto da Rubens Esposito, esagerando al massimo uno zelo già eccessivo ha deciso di oscurarlo. Motivo: il trailer non è «informato al principio del contraddittorio» che deve essere rispettato «anche in periodo non elettorale».
Argomentazione ridicola, che viale Mazzini cerca di avvalorare richiamandosi agli indirizzi della commissione di vigilanza, a quelli dell'Authority per le comunicazioni, al contratto di servizio e pure al Codice etico aziendale. Nella nota diffusa ieri dalla direzione generale della Rai (il dg Mauro Masi in privato sostiene di aver appreso della decisione da Repubblica , eppure facendosi scudo con l'ufficio legale la conferma), si arriva a ricordare che i citati testi sacri impongono che «i messaggi pubblicitari siano leali, onesti, corretti e non contengano elementi atti ad offendere le convinzioni morali, civili e politiche dei cittadini e la dignità della persona umana», nientemeno. E dire che, per evitare di offendere chissà chi (uno solo: Silvio), la Rai aveva fatto una bella proposta alla Fandango, che distribuisce il film, «nel massimo spirito di collaborazione»: sì alla trasmissione del trailer, ma solo «nell'ipotesi in cui la società produttrice avesse assicurato il rispetto dei principi essenziali del contraddittorio e del pluralismo informativo». Forse la Fandango avrebbe dovuto aggiungere il commento di Sandro Bondi alle immagini di veline e tronisti, a quelle di Lele Mora o di Silvio Berlusconi sugli spalti delle celebrazioni per il 2 giugno che compaiono nel montaggio. E invece «nessuna adesione allo stato attuale è pervenuta dalla società che quindi non ha messo la Rai nella condizione di poter trasmettere lo spot».
Insomma, tutta colpa di Domenico Procacci, al quale l'azienda ha spiegato che il trailer «veicola un inequivolcabile messaggio di critica al governo» e ripropone la questione del conflitto di interessi. Non solo: poiché mostra «immagini di donne prive di abiti» richiama «le problematiche all'ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso» (sempre Silvio), facendo magari pensare che già in passato, quando era solo un imprenditore televisivo, il premier avesse «tali caratteristiche personali». Sembra satira, anche perché di fatto la Rai conferma che «tali caratteristiche» Sua emittenza almeno attualmente le possiede.
A questo punto i consiglieri d'amministrazione del Pd, Nino Rizzo Nervo e Giorgio van Straten, intendono portare la vicenda al primo cda dopo la pausa estiva, il 9 settembre. Secondo Rizzo Nervo «sostenere il dovere di pluralismo negli spot è giuridicamente abnorme oltre che ridicolo». E questa censura «dimostra con chiarezza che sulla Rai vi è un preciso disegno di controllo e di annullamento delle libertà editoriali», cercando di «normalizzare» anche la terza rete. E Van Straten riferisce di aver parlato del caso anche con il presidente Rai Paolo Garimberti, che però è all'estero e ufficialmente non commenta.
Protestano invece a gran voce contro la «vergognosa decisione» la Federazione nazionale della stampa, il cui segretario Roberto Natale rilancia la proposta di una mobilitazione nazionale, e l'Usigrai. Il segretario del Pd Franceschini incalza: «Bisogna reagire all'assuefazione» e al tentativo di «imbavagliare Raitre», e mette il trailer di Videocracy sul suo sito. Mentre Pierluigi Bersani domanda: «Per Ombre rosse chiesero la replica agli indiani?». E Ignazio Marino insiste: il Pd non partecipi alla lottizzazione.

Fonte: Newsletter Mailing List Nazionale

Ho iniziato ad occuparmi di guerre più o meno dieci anni fa, prima col grande inganno televisivo del Golfo, e nel ’92 con la tragedia bosniaca. Da allora non ho più smesso. Dieci anni di guerre dopo, nello stesso spirito di questa iniziativa giornalistica, ho sentito il bisogno di ragionare attorno alla guerra e alla informazione. “La televisione va alla guerra”, ho proposto in un libro, ma la riflessione credo possa valere per tutti i frammenti del comunicare.
Rilancio qui alcune di quelle considerazioni. Ho scoperto, ad esempio, che la guerra praticamente non ha famiglia, nasce orfana e muore senza figli. La guerra non ha mai un’origine che valesse la pena di raccontare prima. La guerra in televisione e sui giornali, dura fin che durano le immagini e le emozioni utilizzate per raccontarla. Le guerre invisibili non si raccontano, quindi non esistono. Quando muore, la guerra non lascia orfani, strascichi, conseguenze che valga la pena di raccontare successivamente, così che ogni guerra, anche se scaturisce sempre da una precedente, appare nuova di zecca, bella e pronta per essere proposta come una novita’ attorno a cui raccogliere le nostre attenzioni e a stupirci. E’ la cultura della “non memoria”, che ha il suo veicolo di comunicazione affine nella televisione, e come supporto complice, l’informazione scritta, sempre piu’ spesso ridotta al ruolo di fureria della trincea televisiva.

La guerra senza immagini rischia di non esistere. L’intervento militare della Nato contro la Jugoslavia di Milosevic, ha avuto bisogno delle immagini ripetute del dramma dei profughi dal Kosovo per ottenere il consenso politico e popolare alle sue motivazioni. Le poche immagini sugli effetti di quei bombardamenti, hanno ridotto la discussione sull’opportunità’ e le conseguenze dell’intervento, ad una pura questione ideologica fra partiti e schieramenti. Chi era contro e chi era a favore, senza documenti e testimonianze che potessero provocare ripensamenti. Lo scannatoio della Bosnia, con le sue 250 mila vittime ed i suoi milioni di profughi è stato certamente il dramma europeo più cruento dopo la seconda guerra mondiale. Eppure, quel massacro è marcito per quattro anni prima di produrre lo sdegno necessario ad interromperlo. Guerra poco televisiva quella di Bosnia, inquadrature strette di mille piccole tragedie, e poco spazio per le immagini simbolo. Quando la guerra ha già l’immagine che la motiva e la circonda di consenso, come nel caso delle Torri gemelle di New York, il resto giornalistico può essere di troppo, addirittura sgradito.

La guerra nella comunicazione, è come un verbo irregolare che deve essere declinato con regole sue. La guerra ha soltanto l’indicativo presente. Non c’è passato prossimo o remoto, e non c’è il tempo futuro. Anche il condizionale è sconsigliato, soprattutto quando parli di ragioni e di torti, di conseguenze e di vittime. La guerra ha bisogno di Buoni e di Cattivi, senza toni di grigio a suscitare dubbi. La guerra è certezza. La guerra pesa sul genere femminile, ma è sempre maschia. La guerra è sempre voluta dal Cattivo ed è subita dal Buono. La guerra non è mai una scelta, ma un dovere imposto dalla storia. La guerra, per chi la combatte, è sempre patriottica, o idealistica o umanitaria. La guerra è lo spettacolo televisivo di maggiore ascolto e la prima pagina di maggior tiratura, i cui costi principali sono sopportati da altri.

Ci sono dei silenzi più rumorosi delle bombe. Troppo fragore di esplosioni e raffiche di commenti quando la guerra è in corso, e troppo silenzio quando l'evento bellico lascia il posto alla difficile pacificazione. Finito il tempo della "prova di forza", della "sfida necessaria" e via esaltando, diventerebbe inevitabile confrontarsi con le conseguenze delle scelte precedenti, ed in genere questo non è comodo per nessuno. Non è utile alla politica, che preferisce in genere mettere la sordina a quanto rimane in sospeso o non è facilmente risolvibile con slogan accattivanti o con apparenze di decisionismo di governo. Non è gradito al mondo dell'informazione, che dovrebbe rimettere in discussione gran parte delle affermazioni dei propri editorialisti, molte volte “volontari della prima ora” alla chiamata generale alle armi. Finita la guerra, scatta in genere l'ordine di consegna nelle caserme redazionali per tutti quanti, cronisti e opinionisti, ad evitare che il confronto fra le parole del prima, ed i fatti del dopo, possa creare eccessivi imbarazzi.

Come spesso accade, le contraddizioni nascono dal troppo o dal troppo poco. Troppi avvenimenti uno dopo l'altro da elencare nella fase bellica, e troppo poco tempo, sensibilità e voglia, per offrire i precedenti, le cause, ed altri spunti di analisi. Quando il conflitto cede nuovamente la parola alla diplomazia parlata, sconti l'overdose di attenzione precedente, e pure avendo lo spazio per riflettere e verificare, il "mercato della notizia" impone di passare ad altro. Comodo e molto ipocrita. Fra battute redazionali ed analisi semi serie, c'è chi ha provato persino a raccogliere in "teoremi giornalistici" alcuni di questi processi.

La prima legge che regola il processo di rapido annullamento della guerra a battaglia finita, potremmo chiamarla, "della dissolvenza". Tanto più un fatto è stato clamoroso, imposto a lungo in copertina, tanto più velocemente scivolerà via, si diluirà nelle pagine interne e delle edizioni minori, sino a dissolversi. Ci sono situazioni di conflitto rappezzate alla meno peggio con l'invio di acclamati contingenti militari internazionali: "Soldati di Pace" è lo slogan che li accompagna alla partenza, salvo dimenticarceli dove li abbiamo mandati. Basta qualche mese perché le sole righe scritte su quella missione, siano quelle sul bilancio statale, alla voce "uscite". Ieri è stato l'Afghanistan a concentrare tutte le nostre attenzioni mediatiche, ma il prossimo fronte della guerra al terrorismo che deciderà George W. Bush, cancellerà definitivamente i nostri "mujaheddin" dal telegiornale, lasciando quella terra martoriata alle esclusive cure del "reporter al seguito", cui ha diritto anche l'ultimo sottosegretario in visita di Stato.

La potenza informativa in guerra, vede di solito schierati massicciamente gli eserciti giornalistici dei Paesi ricchi, una sorta d’Alleanza Televisiva Atlantica. Fra le strutture giornalistiche in guerra trovi tutto e il suo contrario. C’e’ lo spreco delle testate ricche o comunque motivate ad occuparsi di politica estera e d’interessi globali, e c’e’ la lesina dei network che esprimono interessi nazionali e commerciali di piccolo cabotaggio. Nel modello militare della Nato, per un soldato combattente, in prima linea ci sono alle sue spalle, altri quattro che garantiscono il coordinamento, la copertura, le comunicazioni e la logistica. Nell’esercito italiano dell’informazione di guerra, può capitare di trovarti in trincea e di scoprire di non avere alle spalle, non soltanto la copertura logistica, ma neppure un esercito.

Semplice problema di punti di vista, alla fin fine. Qual è la vera prima linea informativa? Il fronte di Piazza Montecitorio (di Capitol Hill, di Westminster, dell’Eliseo), o quell’Afghano, Irakeno o Macedone? E’ più pericolosa un’interpellanza parlamentare o un tiro di cecchino? Una convocazione di fronte alla commissione parlamentare di vigilanza, o l’esplosione di una granata di mortaio? Dalle risposte che i diversi gruppi editoriali danno a queste domande, nascono le diverse attenzioni giornalistiche su quanto accade all’estero, e le risorse che ad esso vengono dedicate. Forse è per questo che nelle guerre in cui hai la possibilità di raccontare stando sulla linea di fuoco, da italiano hai l’impressione di essere chiamato a correre un rally da brivido avendo alle spalle, al massimo, l’assistenza commerciale Fiat.

Nel dispiegamento in guerra dell’informazione, esistono gli eserciti professionali e quelli di marmittoni. Complessivamente l’Europa continentale si classifica, giornalisticamente parlando, fra gli eserciti nazional popolari della leva di fronte all’efficientismo dei soldati di professione. In quest’ultima categoria ci sono innanzi tutto i ricchi marines statunitensi. Per una Christiane Amanpour in prima linea, la Cnn muove l’aviazione privata, containers d’attrezzature, squadre logistiche di coordinatori, organizzatori, interpreti e producers, fitness pret a porter, e Coca cola. Un po’ d’anni fa a Bagdad, trasmettendo dalla postazione televisiva vicina a quella di Christiana, fra la montagna di materiale Cnn, vidi anche una poderosa cassaforte da diversi quintali giunta via aerea dagli Stati uniti poco prima delle loro bombe.

So più di televisione che di informazione scritta, ma da alcuni riscontri fatti con i colleghi che le notizie le stampano, la situazione editoriale sembra essere proporzionalmente la stessa. Continuo dunque sul mio terreno televisivo sperando di dire cose di interesse generale. Cifre e forze immaginabili quelle messe in campo dalla solita Cnn sui grandi avvenimenti internazionali. Gli ultimi dati complessivi disponibili riguardano la guerra del Kosovo. Il network di Turner, per seguire quel conflitto, aveva preventivato un investimento di 150 mila dollari il giorno, l’uso delle tecnologie di trasmissione più sofisticate e costose, e la mobilitazione di 60 persone. Sessanta fra giornalisti e tecnici targati Cnn, implicano a loro volta centinaia di collaboratori locali occasionali. Un esercito rimasto in quell’occasione, quasi impotente ai margini del campo di battaglia, mancando il colpo irakeno della “esclusiva”. In Afghanistan e’ stata la televisione araba Al-Jazeera ad intaccare il monopolio informativo statunitense. Il solo tentativo in corso di mettere in discussione il ruolo del potente network americano, come occhio universale della nuova Era dell’informazione.

Fra le televisioni dell’era globale, il mondo di Liliput, è complessivamente quello europeo rispetto al gigante americano. Secondo l’Istituto di Economia dei Media, un network statunitense dei primi anni ’90 spendeva per la copertura estera, mediamente 50 milioni di dollari ogni anno. Cifre da diritti sul calcio, in Italia. La caduta del muro di Berlino e la concorrenza della neonata Cnn (1980), abbassano le attenzioni e gli investimenti. Nel 1992, per il Foreing Bureau, la redazione esteri, l’ABC ha speso un milione e 37 mila dollari, la CBS 736 mila dollari, la NBC 749 mila dollari. Per la Foreing Policy Coverage, la copertura della politica estera e per le corrispondenze, l’ABC spese allora 612 mila dollari, la CBS 509 mila, il NBS 585 mila. Anno di disattenzione nei confronti del mondo quel 1992 per l’America del dopo Muro: solo quattro milioni e 228 dollari fra i tre principali network generalisti, rispetto ai cinque mila 200 del solo 1988, quando ancora occorreva fronteggiare il comunismo.

“Il sogno dei generali è quello di non avere stampa attorno”, denuncia oggi Peter Arnett, il narratore della Guerra del Golfo, di fronte agli episodi di censura nel conflitto “anti terrorismo” in corso. Ogni guerra pone il problema della censura. Non c’è una volta che i militari non l’abbiamo chiesta, sempre per obiettivi nobili e patriottici. Interessi divergenti fra democrazia e sicurezza, ammettono i generali quando hanno il tempo per fare i democratici. In guerra no, non ne hanno il tempo, e per fare bene il loro mestiere, pretenderebbero di decidere cosa i cittadini possano o non possano sapere o vedere. La versione italiana al problema, in altri tempi fu, “Taci, il nemico ti ascolta”. Oggi, tempi di democrazia sbandierata, non si parla più di censura, ma di “senso di responsabilità”. La Casa Bianca ha chiesto l’oscuramento televisivo sui comunicati e le video cassette di Bin Laden. “Il nostro non è un ordine, è un appello”, ha precisato il portavoce di Bush, Ari Fleisher. “Un richiamo al senso di responsabilità di voi che lavorate nel mondo dell’informazione”. “Censura umanitaria”, l’ha chiamata Curzio Maltese, su Repubblica, esercitata col “guanto di velluto”, piena di buone intenzioni, ma sempre censura.

Sulla rilevanza strategica dell’informazione (e del suo controllo) in situazione di conflitto, sono stati scritti decine di volumi, manuali operativi distribuiti a tutte le forze armate di ogni esercito del mondo, studio Geo-strategici da accademie, ed ordini operativi segretissimi. Non c’e’ ufficiale superiore che alla Scuola di guerra non sia stato costretto ad imparare questo nuovo vocabolario: propaganda, guerra psicologica, pubbliche relazioni, evento, opinione pubblica, target, immagine, persuasione, formazione del consenso.

Collin Powell, l’attuale Segretario di Stato Usa, già dai tempi della Guerra del Golfo, quando ancora faceva il generale, spiegò come all’interno delle forze armate, i sistemi informativi non dovessero piu’ essere considerati un servizio, ma “una vera e propria arma”. Per il Capo di stato maggiore dell’US Army, il generale Sullivan, “L’informazione è l’equivalente della vittoria, sul campo di battaglia”. Sempre un generale americano, Fogleman, capo di stato maggiore dell’aeronautica, già nel 1995 ci spiegava che le guerre hanno ormai cinque diverse dimensioni. Le classiche “terra”, “mare”, “cielo”, la più recente dimensione “spaziale”, con satelliti spia ed aerei radar Awacs ed infine la quinta e decisiva dimensione delle “operazioni sulle informazioni”. “Il dominio delle informazioni -viene precisato- è il fattore critico per il successo militare nel futuro” e per non lasciare spazio a dubbi, il generale cita addirittura Churchill, nel suo noto paradosso su come in guerra, la verità è tanto preziosa da dover sempre essere tutelata da una buona scorta di bugie.

Rileggi alcune vecchie regole del giornalismo, l’elenco delle tecniche classiche di manipolazione delle notizie, e ti sembra di avere per le mani il manuale delle Giovani Marmotte. “Distorsione dei fatti, opinioni camuffate da notizie, omissione o focalizzazione selettiva, decontestualizzazione, sbilanciamento delle notizie, ecc…”. Ti guardi attorno e scopri che siamo arrivati ormai alla “disinfotainment”, la disinformazione attraverso l’intrattenimento, la rappresentazione romanzata della realtà. Scopri che esistono istruzioni su come spacciare notizie false, su come far diventare le notizie l’evento stesso, e su come trasformare la notizia in fonte. Scopri che accanto ai manuali di guerra informativa, esistono quelli di “contro guerriglia” informativa. “L’informazione, come la guerra si fonda sull’inganno”, è il confortante presupposto, che ci sta conducendo (o forse già ci siamo), ad una guerra basata sul “predominio dell’intelligence, della tecnologia e della simulazione”. Alle scuole di giornalismo spieghiamo ancora oggi la regola delle “cinque W”, who, what, when, where, why, per confezionare correttamente una notizia. Il giornalismo si affatica a mandare a memoria le sue antiche tabelline, mentre nelle accademie militari, oggi studiano la “information warfare”, la “cyber war”, e la “netwar”.

I generali sembrano i soli ad avere delle idee abbastanza chiare sul ruolo dell’informazione in guerra. “L’informazione è potenza, ed è un fattore che sta modificando la politica, la strategia, e l’economia”, spiega il generale Carlo Jean, facendo riferimento al famoso “fattore Cnn”. Secondo quella regola, le pressioni dei media a favore dell’intervento militare, prima interferiscono sull’estensione del conflitto e sugli obiettivi da colpire, ed altrettanto rapidamente, al primo insuccesso parziale o alle prime perdite, si trasformano in critiche e richieste di ritiro. Gli insuccessi sul campo li puoi anche nascondere, i morti No. Dal “fattore Cnn”, nasce dunque l’obbligo militare attuale, della “opzione zero”, zero morti fra i nostro soldati, e la scelta dei massicci bombardamenti da alta quota adottata dalla Nato in Jugoslavia e dagli americani in Afghanistan, anche a costo di fare molte più vittime fra i civili delle file avversarie. Il “fattore Cnn” si determina, ovviamente, soltanto per i morti di casa.

La guerra della comunicazione, e la comunicazione come forma di guerra, svelano oggi gli alti comandi militari. Portando avanti il paradosso, se la comunicazione e’ guerra, la guerra diventa uno strumento per comunicare, una forma di dialogo. “Ogni bomba è un messaggio con duplice significato. Da un lato contiene un invito a trattare o accettare le condizioni che si vogliono imporre, dall’altro lato è una minaccia di bombardamento successivo”. Spregiudicato ma chiaro il generale Jean, che aggiunge, “L’uso della forza rappresenta solo uno strumento di natura comunicativa”. In questo “dialogo” a colpi di cannone e di missili, si aggiunge la comunicazione nei confronti delle opinioni pubbliche, quella di casa cui chiedi il consenso necessario all’iniziativa militare, e quella dell’avversario che devi riuscire ad influenzare in senso opposto. In generale Jean ha in gran considerazione il potere dell’informazione e della televisione in particolare, al punto da attribuirle la possibilità di interferire “sulle decisioni sia politiche, sia strategiche”. “Spesso le opinioni pubbliche sono informate di un avvenimento prima dei governi (…). Politici e militari si trovano spesso costretti a reagire in tempi rapidissimi, sotto la pressione dei media (…) quasi nelle condizioni di chirurghi obbligati ad operare in sale piene dei parenti emozionati e vocianti, ciascuno dei quali ha il proprio suggerimento da dare”.

Se l’informazione è in grado di condizionare la conduzione politica e strategica di una guerra, è obbligo istituzionale di chi dirige politicamente e strategicamente un conflitto di condizionare a sua volta l’informazione, di ingannare, di manipolare, di subordinare all’interesse che lui ritiene primario (la guerra), l’interesse ed il diritto del cittadino ad essere informato. Ed eccoci da capo al “conflitto di interessi” chiave della nostra Era dell’informazione, il conflitto fra il diritto alla democrazia ed il diritto alla sicurezza. Quanta democrazia mi chiedete in cambio della sicurezza, e quale sicurezza ci proponete, rispetto a quali minacce? Il contratto sarà rescindibile? Chi e’ chiamato a fare da arbitro? Chi ne ha il diritto e soprattutto il potere?