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Tratto dal sito del Centro studi Sereno Regis (www.cssr-pas.org) riprendiamo il seguente intervento di Enrico Peyretti sul tema "Nonviolenza: passato, presente, futuro", svolto al seminario del 12 aprile 2007 di preparazione al convegno annuale del Centro medesimo e pubblicato sul n. 68 di “Voci e volti della nonviolenza” del 25 giugno 2007

Gli appunti seguenti sono un tentativo di riflessione attorno al tema della prima sezione, "Tra passato e futuro", del progettato convegno dell'8-9 dicembre 2007, "La pace è nonviolenza", in occasione del XXV anno del Centro Studi Sereno Regis, di Torino. Sullo stesso tema stanno lavorando altri collaboratori del Centro Studi (e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., sito: www.cssr-pas.org).

Riguardo a violenza e nonviolenza nella storia umana, abbiamo parlato di "una storia di offese e di attese". Probabilmente è impossibile un bilancio generale del passato umano, una filosofia della storia sotto questo profilo.
Ma si possono avvicinare dei frammenti.
È nota l'espressione di Hegel, ripetuta più volte anche da Bobbio: la storia come "grande mattatoio". All'opposto, Gandhi non dice solo che la nonviolenza è "antica come le colline", ma, interrogato sulla violenza nella storia, ritiene di poter dire che c'è più bene che male, più collaborazione che violenza. Questa è per lui come degli strappi nel tessuto, ma il tessuto della convivenza umana c'è. Potremmo dire lo stesso osservando la nostra vita quotidiana, per quanto siano gravi i problemi. Se la violenza fosse la legge della storia, dice Gandhi, l'umanità si sarebbe già distrutta (1). Se oggi stiamo mettendo le premesse di questo esito catastrofico, e se non lo eviteremo, avrà ragione Hegel.
Sembra, finora, di poter dire che la storia dunque è una storia di offese ai diritti umani, ma non è solo questo, a questo non si riduce. Inoltre, l'offesa non annulla, ma semmai evidenzia la dignità umana: nel colpirla la fa risaltare. L'offesa è offesa, è male e dolore, è una realtà negativa, proprio perché c'è una dignità, un valore che non deve essere offeso, e che, pur offeso, non è distrutto, ma grida la sua ragione, anche nel silenzio dell'ucciso, e reagisce spesso positivamente.
Una storia di offese e di attese, dicevamo. Davanti ai limiti dell'esistenza e alle violenze, non sono mai mancati miti, profezie, speranze, promesse, testimonianze, esperienze di una realtà umana emancipata dalle offese all'umanità e dignità di ciascuna persona.

Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Quando la 'culturà e la 'tradizionè giustificano la violenza sulle donne, fatta di delitti e umiliazioni", pubblicato su “Voci e Volti della nonviolenza”, n. 70 del 27 giugno 2007.

Generalmente, siamo abituate/i a guardare alle culture come al prodotto di gruppi di persone sostanzialmente eguali che vivono in una data regione geografica. In realtà ogni gruppo contiene grandi differenze che concernono i livelli di potere, il benessere, la possibilità di esprimere i propri bisogni e i propri interessi. Le istanze relative al potere vedono spesso le donne in una posizione ambigua o svantaggiata. Le qualità, i comportamenti e le identità di uomini e donne sono determinati ovunque dal processo di socializzazione: poiché i ruoli e le responsabilità sono specificatamente culturali essi cambiano nel tempo. I ruoli di genere sono infatti influenzati da fattori storici, religiosi, economici ed etnici. Essere consapevoli della relazione di genere all'interno dei gruppi, il proprio e gli altri, mostra che le comunità non sono un armonioso insieme di individui con interessi e priorità comuni; le divisioni si disegnano ovunque lungo le linee dell'età, della religione, della classe e del genere. Questi differenziali di potere ovviamente ostacolano alcune "categorie" di persone qualora esse decidano di dar voce ad opinioni che contraddicono la visione generale o la mettono in discussione, in particolar modo se si tratta di donne.

(traduzione di “The Drum Major Instinct”, sermone pronunciato nella chiesa battista di Ebenezer, Atlanta, il 4 febbraio 1968)

Pubblicato su “Voci e volti della nonviolenza”, n. 76 del 6 luglio 2007


Ogni tanto, immagino, tutti noi pensiamo in modo realistico al giorno in cui resteremo vittime di quello che è il definitivo comune denominatore della vita: quella cosa che chiamiamo morte. Tutti noi ci pensiamo. E di tanto in tanto io penso alla mia morte, e penso al mio funerale. Non ci penso in maniera morbosa. Di tanto in tanto mi domando: "Che cosa vorrei che dicessero?". E stamani lascio a voi la parola.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di dedicare la vita a servire gli altri.
Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di amare qualcuno.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho cercato di essere giusto sulla questione della guerra.
Quel giorno vorrei che poteste dire che ho davvero cercato di dar da mangiare agli affamati.
E vorrei che poteste dire, quel giorno, che nella mia vita ho davvero cercato di vestire gli ignudi.
Vorrei che diceste, quel giorno, che ho davvero cercato, nella mia vita, di visitare i carcerati.
Vorrei che diceste che ho cercato di amare e servire l'umanità.

da "La nonviolenza è in cammino", n. 1299 del 18 maggio 2006

Contro il riduzionismo, la preziosa ricchezza della molteplicità.
Sono d'accordo con chi ha detto che dobbiamo applicare il metodo del consenso per prendere le decisioni, ma questo non per raggiungere unità forzate o sintesi omologatrici: io sono contrarissima a questi termini, che in ambito sociale e politico recano una pretesa per così dire "monoteista", ed impongono una uniformizzazione da cui io resto sempre fuori.
Naturalmente anche un generico pluralismo è un'altra trappola: perché non è assolutamente detto, ad esempio, che un paese dove ci sono otto partiti sia più democratica di uno dove ce ne sono quattro. Il problema sta nel fatto di stabilire nel partito l'unica forma della politica, mentre invece bisogna avere a cuore una molteplicità di forme.
Ad esempio i movimenti non sono, come dice qualcuno, "pre-politica": bensì sono altre forme della politica.
In una società complessa come la nostra non è più possibile avere una sola forma che interpreta la società, ed è necessario che i soggetti si organizzino secondo le proprie caratteristiche; la sfida, a mio parere, è quella di riuscire a gestire la molteplicità lasciandola molteplice, e non cedere al riduzionismo.

Breve un elogio della buona lentezza
Io sento molto forte l'urgenza di fare qualcosa per cambiare le cose per come stanno andando, ma al tempo stesso so che quando c'è un'urgenza bisogna essere lenti.
Ciò di cui avremmo più bisogno sarebbe distendere in un tempo ristretto un ragionamento calmo. Per esempio, noi donne elette in parlamento, che siamo riunite in un comitato, siamo state già sorpassate dalle decisioni che sono state prese rapidamente da quelli che si sono subito insediati perché sono attaccati al loro potere.
Per non parlare della possibilità di portare in parlamento le rivendicazioni come quelle ad esempio venute fuori in una giornata come quella di oggi. Arriva sempre tutto troppo tardi. E ci ritroviamo a fare i giochi di risulta.

(Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1318 del 6 giugno 2006)

Mi sono avvicinato alla nonviolenza dal 1972, quando, a 25 anni, ho cominciato a capire, durante un convegno nazionale semi-clandestino di Lotta Continua a Rimini, il suicidio umano e culturale della prospettiva della "guerra di popolo", tipo Irlanda del Nord (Ira) o Paesi Baschi (Eta), che veniva proposta con sempre maggior insistenza da una buona parte del gruppo dirigente, forzando in senso insurrezionalista la lettura delle lotte di quegli anni (dai cortei della Fiat del '69, alle barricate delle imprese d'appalto di Marghera del '70, alle lotte dei carcerati e dei soldati, fino ai moti per Reggio Calabria capoluogo di regione). Così Lotta Continua tendeva ad assumere (ma per fortuna si è sciolta prima) i connotati di un partitino leninista, gerarchizzato, con un "servizio d'ordine" numeroso ed aggressivo, tradendo l'ispirazione anti-autoritaria e spontaneista (alla Rosa Luxemburg) con cui l'avevamo costruita anche a Venezia e Marghera nell'autunno del 1969.

Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1317 del 5 giugno 2006
Carissima Nella,
sono venuta volentieri alla manifestazione del 2 giugno a Roma e mi pare che sia anche abbastanza riuscita. Però mi preoccupo del carattere sempre più "interno" delle espressioni del movimento e anche mi spiace un pò di essere "convocata" come parlamentare su una piattaforma che non ho minimamente cooperato a costruire.
La mia intenzione era ed è di proporre altre modalità per la festa della repubblica, ragionando sulla sua "ragione sociale", che è quella di "repubblica democratica fondata sul lavoro". Il lavoro viene celebrato il primo maggio e propongo che - se i sindacati sono d'accordo - il 1 maggio sia solenne come il 2 giugno, ma per l'appunto celebrato senza niente di militare, per ricordare la storia nonviolenta del movimento operaio.
Il 2 giugno non può essere "usurpato" dalle Forze armate che hanno già la loro festa il 4 novembre (che peraltro dovrebbe essere piuttosto giorno di lutto: ricordando l'"inutile strage" della prima guerra mondiale); ricevere l'invito alla sfilata militare dal ministro della Difesa, che il 2 giugno è dunque il più potente personaggio dello stato che "convoca" presidente della Repubblica, del Senato, della Camera e del Governo, cioè la prima seconda terza e quarta autorità dello stato, è uno sbrego dell'etichetta e del simbolico che rasenta la rappresentazione di un colpo di stato, e ha un aspetto tanto poco egualitario da essere insopportabile, il trionfo della gerarchia! una cosa da monarchia, non da repubblica...

(Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1317 del 5 giugno 2006)

Ci sono due desideri collettivi che caratterizzano questi anni: la voglia di impero e la voglia di comunità.
Della prima ci parla l'inizio veramente folgorante del libro di Fabio Mini (La guerra dopo la guerra). La voglia di impero, o si potrebbe dire la smania di impero, è il fenomeno che caratterizza quest'avvio del terzo millennio. Sembra quasi che l'esperimento della democrazia popolare dopo meno di un secolo stia scivolando all'indietro verso un nuovo sistema imperiale.
Almeno parallela cresce un'altra voglia, quasi una smania, di comunità, la nostalgia di una comunità che non abbiamo in verità mai conosciuto. Scrive Zigmunt Bauman (Voglia di Comunità,): La comunità ci manca perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice che il mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci e sempre più riluttante a promettere.
Ma la comunità resta pervicacemente assente, ci sfugge costantemente di mano o continua a disintegrarsi, perché la direzione in cui questo mondo ci sospinge nel tentativo di realizzare il nostro sogno di una vita sicura non ci avvicina affatto a tale meta...
La voglia di sentirsi in quella comunione profonda diventa ricerca di un legame collettivo, potremmo quasi dire un legame "purché sia", anche inventato. Il che sarebbe in sé abbastanza ridicolo se non avesse elementi preoccupanti, che emergono in luoghi non poi così lontani da noi, con esiti cruenti. È la ricerca di un'appartenenza che ci sorregga nella distinzione da chi è diverso da noi perché sta oltre un certo confine, definito per stile di vita, gruppo etnico o religioso, o semplicemente una distinzione funzionale a rivendicare il nostro privilegio.
La smania di impero e di comunità sono entrambi modi di rifiutare la politica, la democrazia, la ricerca faticosa della costruzione di una convivenza, che non è regalata.