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È possibile trasformare le istituzioni, ma ciò "non può rappresentare una riforma dello Stato sotto mentite spoglie", realizzata cancellando -in nome di un presunto taglio dei costi della politica- meccanismi di controllo della legittimità di atti e procedure.

L’Italia ha appena commemorato la festa del Lavoro in un contesto economico e sociale pesantissimo, nel sesto anno consecutivo di recessione e con i tassi di disoccupazione ai massimi da 36 anni. I tradizionali momenti celebrativi del Primo Maggio non sono riusciti a nascondere la profonda crisi di rappresentanza che, al di là dell’alto numero di tesserati, i sindacati stanno sperimentando; una crisi causata dai mutamenti sociali, economici e culturali che hanno investito il mondo del lavoro e rispetto ai quali il sindacato non è stato capace di rinnovarsi. L’incapacità di snellire le pletoriche burocrazie o la partecipazione a operazioni ambigue come i fondi pensioni hanno piuttosto reso ancor più problematico il rapporto tra organizzazioni e lavoratori.

In attesa delle “grandi riforme” mai meglio specificate ma che il paese attende con ansia (o almeno così dicono politici e giornalisti), in attesa di sapere se taglieranno “auto blu” o “auto grigie” (quelle delle Asl) e come questo andrà davvero ad incidere sul debito, leggo che l’obiettivo della revisione della spesa pubblica in Italia punta ad un risparmio di 32 miliardi in tre anni.

L’assemblea tematica dedicata a “Abitare la città” ha visto circa 90 partecipanti e ha raccolto 68 interventi volti ad analizzare tanto il contesto in cui le famiglie si trovano a vivere, quanto le necessità della famiglia rispetto alla convivenza e al rapporto con il territorio e con le istituzioni.

Ci troviamo in una fase storica di profonde trasformazioni, in cui i destini delle città sono talvolta decisi al di fuori delle sedi istituzionali e le regole pubbliche non sono sempre considerate “beni comuni”.