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DallAfghanistan al Libano (Enrico Peyretti)

Pubblicato sul n. 1390 della “nonviolenza è in cammino” del 17 agosto 2006


Sono uno che, andando contro se stesso, il mese scorso, insieme ad altri sinceri persuasi della nonviolenza ha ritenuto in coscienza necessario e doveroso, per ottenere il minor male possibile nelle strette costrittive della realtà politica, non condannare il rinnovo temporaneo e calante della spedizione militare italiana in Afghanistan.
Ora, nuove preoccupazioni e rischi mostrano la già nota qualità di guerra e non di vera pace di quella spedizione. Ciò impegna tutti ad accelerare il ritiro dei mezzi militari italiani, in vista della scadenza semestrale di dicembre, per sostituirli completamente con forme di solidarietà e aiuto civile alla popolazione stremata da guerre e violenze.
Era evidente, a me e a chi conosce il movimento e la cultura nonviolenta di cui intendo essere seguace, che quello non era approvare o vedere un bene nel metodo militare di affrontare i conflitti. Ho anch'io tante volte, fino alla noia, distinto come diversi per essenza e non a parole, la forza e la violenza, la polizia e la guerra, spesso volutamente confuse dai prepotenti.
Una polizia davvero internazionale, non faziosa, è necessaria alla comunità dei popoli. Al punto attuale dell'evoluzione umana (lenta e tarda sul piano morale), le società non possono fare a meno della forza limitata, regolata, e non distruttiva della polizia, come riconosceva anche Gandhi. Ma la guerra - l'azione offensiva e distruttiva della violenza - è ogni giorno più chiaro che deve essere progressivamente e totalmente abolita, espulsa dai mezzi della politica. Anche la difesa mediante la guerra è diventata una falsa difesa, perché sempre di più le armi si ritorcono su chi le usa, accomunano nel danno aggressori e difensori, creano un mare di odio che assicura insicurezza e infelicità a tutti per molte generazioni.
Bisogna affermare sempre più decisamente e pacatamente queste verità evidenti, anche e proprio quando la guerra ritorna feroce e stolta, alluvione di vendetta, a uccidere persone e a distruggere le condizioni minime di vita delle popolazioni.
Ora, sospesa nella tregua la guerra tra Israele e Libano (ma non quella tra Israele e Palestina), la comunità internazionale pensa e prepara una interposizione militare, senza escludere l'uso delle armi per mantenere...
la sospensione della guerra. Anche l'Italia vi parteciperà, sembra, al momento, con un consenso politico generale.
Il timore grande è che, nella cronica deficienza di cultura pacifica del conflitto nella classe politica (quasi tutta, da destra a sinistra), non si sappia distinguere, nel principio e nei fatti, l'azione di polizia dall'azione di guerra.
Inoltre, l'esercito che va a fare interposizione ha cultura e struttura e strumentazione di guerra e non di polizia.
La stessa polizia, anche negli stati democratici, ha in genere scarsa educazione democratica e cultura dei diritti umani, che qualifichi il suo dovere di imporre ai riottosi il rispetto degli altri.
Bisogna dire anche in questa occasione, nonostante il grave ritardo della politica corrente, che l'interposizione veramente di pace deve essere pensata, organizzata, finanziata, addestrata, voluta e realizzata come forza umana disarmata nonviolenta, educata all'esercizio della forza nonviolenta, istruita nell'arte della mediazione tra avversari, disinteressata e libera da calcoli di potere e di influenza.
Nulla è facile e comodo. L'interposizione nonviolenta non esclude vittime e costi, ma, a differenza dell'interposizione militare, assicura la dignità umana a tutte le parti implicate e costa infinitamente meno in risorse umane e materiali, e in danni morali lunghi nel tempo.
La presenza italiana tra Libano e Israele sarà solo quella che la cultura politica corrente sa concepire. Ma la cultura nonviolenta la discute, ne critica i limiti, e fa conoscere le esperienze alternative di Corpi Civili di Pace che oggi, in mancanza di forme istituzionali, si svolgono in modo volontario e anticipatore per iniziativa tutta meritoria di singoli e associazioni. Queste esperienze si affiancano alle associazioni costruttive di pace, formate insieme tra le popolazioni in conflitto, come le simili associazioni miste israelo-palestinesi.
Le intermediazioni nonviolente hanno anche i loro martiri, testimoni della consapevole dedizione senza condizioni profusa da tanti senza alcun clamore.
Essi sono la vera promessa della politica internazionale di pace. Conosciamo queste figure umili e serie, libere dalla retorica ufficiale, tanto umanamente superiori al soldato ucciso mentre va per uccidere, celebrato da morto da chi lo ha usato da vivo.
Queste esperienze tagliano muri e confini, costruiscono ponti, sono l'esatto contrario della guerra, e non una sua tregua, creano quel clima umano nel quale può svolgersi la fatica del dialogo e la ricerca razionale e inventiva di soluzioni e mediazioni, nel conveniente riconoscimento reciproco.
La cultura di pace dovrà andare oltre la protesta e la denuncia, anche nel prossimo incontro nazionale di Assisi il 26 agosto, e diventare sempre più politica, proposta e volontà di mezzi nonviolenti costruttivi e di progetti concreti, come la proposta di Galtung per il Medio Oriente sul modello dell'Unione Europea.