Una possibile risposta alla crisi del sistema economico che oggi domina il pianeta?
I “Gelsi” sono una antica stirpe di pastori delle Apuane, una famiglia atavica, tanto che io preferisco parlare di un clan, così più esplicito è il rimando ad una società primordiale, ancora senza altre divisioni e formalizzazioni istituzionali.
Studio la pastorizia da circa 30 anni, con l’ambizione di farne un libro, o meglio il libro, almeno il mio (tanto articolato che non sono ancora riuscito a terminarlo, tanto profondo da temere oramai di non riuscirci più), e so che la pastorizia ha segnato la vita dell’uomo sulla terra per almeno 10 mila anni.
Il mio studio è fatto di libri, di documenti, di ricerca, di visite e controlli sul territorio, ma anche di interviste con pastori, o figli di pastori, o eredi di famiglie e/o appunto di clan di pastori. Da queste ultime ricavo le notizie più importanti, o meglio per me più affascinanti, perché più relative (o che più si avvicinano) all’essenza di una attività economica e di un sistema di vita che giocoforza ha segnato il DNA dell’uomo.
Per esempio i pastori mi hanno fatto capire che, in diecimila anni, la loro economia mai ha trasformato il territorio, mentre quella industriale in solo 200 anni di attività rischia di distruggerlo. Se i pastori avessero agito con logica proprietaria la morfologia stessa del terreno di attività sarebbe stata da tempo trasformata. Ma sugli alpeggi mai fecero insediamenti perenni che arrivarono solo quando, alla fine del Settecento, anche i terreni comuni furono considerati fonti di reddito e quindi si trasformarono in privati, i loro percorsi non divennero strade ma rimasero concessioni di transito, le fonti ed i pascoli furono sempre beni di tutti. Insomma, un po’ come per gli indiani d’America, la terra non fu incisa, non fu segnata, non fu ferita, era una ricchezza da utilizzare ma non era loro, andava conservata anche per il futuro. E questo concetto dominò soprattutto l’alpeggio, il pascolo d’altura, quasi inteso come terreno sacro per le comunità.
Più in particolare un pastore mi spiegò che ad un certo punto della stagione le pecore non si riescono a tenere perché vogliono raggiungere gli alpeggi, non resistendo al calore del piano e per godere del refrigerio e dell’erba fresca delle alture. Ciò è la causa naturale e fisica che ha dato origine alla transumanza, per cui nella nostra regione da sempre le greggi, con le famiglie di pastori al seguito, si sono spostate nelle stagioni tra le Apuane e l’Appennino pistoiese, e quelle che venivano genericamente indicate come “le maremme pisane”. Io, naturalmente, davanti a tale informazione, mi sono immaginato le greggi di pecore, quando ancora non erano addomesticate, che come le mandrie dei bisonti nelle praterie americane, si spostavano in base alla temperatura (un po’ come le cicale che si dice, ad un certo grado di calore, smettano di cantare all’unisono) dalle maremme agli alpeggi, creando dei tratturi, dei solchi nel territorio che rappresentarono poi le prime vie di comunicazioni anche per gli uomini. Tempi in cui la terra non era degli uomini, ma degli animali! Vengono in mente infatti di nuovo le poesie degli indiani d’america.
Un altro pastore, dei “Gelsi”, o meglio un figlio di tale clan, che ormai abita nelle maremme e che non esercita più, ma che ha l’età (70 anni) per ricordare di quando ancora nell’ultimo dopoguerra portava le pecore, o meglio le accompagnava (perché appunto loro è la volontà, loro il bisogno), al Cormeneto, nel canal Fondone, sotto il Monte Grondilice, sulle Apuane, mi ha narrato che la famiglia aveva un paiolo da centinaia e centinaia di anni che rappresentava tutto il bene, tutta la ricchezza della sua casa, con il quale si faceva il formaggio e si cucinava. La poca abbondanza delle proprietà è confermata da una denuncia di furto del Settecento che elencava i seguenti beni rubati per cui la casa di un pastore era stata totalmente spogliata: un paiolo, un pennato, la lana di sette agnelli tosati. Centinaia di anni equivale ad indicazione biblica, a sette volte sette, cioè da sempre; fosse stato un pastore vero ancora, e non un erede, sarebbe stato anche un poeta e avrebbe detto “dall’alba dei tempi”, e se fosse un pastore acculturato dell’Ottocento (quelli che sapevano il vangelo in latino e la Commedia a memoria) avrebbe detto “ab illo tempore”, o addirittura “ab initio” (io ne ho ascoltati di capaci ad usare tali frasi), ma ci si può accontentare anche di quel “centinaia e centinaia di anni”, in sé poderoso nel suo rimando ancestrale. Poeta non lo è più, ma filosofo ancora sicuramente, tanto che mi ha spiegato poi che quel paiolo rappresentava tutta la storia della sua famiglia, o meglio che la sapeva, nel senso che la poteva raccontare, ed al mio stupore, mi ha detto che il paiolo (come tutte le cose) ha un’anima. Poi a mo’ di sfida mi ha anche proposto: “Vuoi venire con me al Cormeneto? So ancora trovarlo, è nascosto in un anfratto, sotterrato, se portiamo un po’ di farina, la impastiamo con acqua corrente, io raccolgo due radici (so riconoscere quelle buone) e ci mangiamo una bella ministra alla moda dei pastori di un tempo”. D’acchito, nella mia assoluta ignoranza, quella che deride le favole, stavo per chiedergli: “Di quale tempo?”, Ma per fortuna mi son morso la lingua, un barlume di lucidità mi ha permesso infatti di capire che ovviamente si riferiva al tempo infinito della storia del mondo!
È chiaro che un paiolo che ha vissuto da sempre con un clan ne sa vita e miracoli, e sa narrarne nella sua lingua, che potrebbe aver contribuito a creare, se non forse addirittura avergliela insegnata lui!
L’anima (ed anche di rimando il linguaggio) è appunto una cosa che si crea nel tempo. Una cosa che sta poco con te non può di certo conoscerti a fondo, così come (viene da dire a costo di apparire blasfemo) un embrione non può avere un’anima completa, può averla in nuce, accennata, ma deve farsi, deve completarsi in anni e anni, almeno in un certo numero, per rendersi cosciente, e quindi capace di parlare!
Cosa possono dirci di noi, a noi e agli altri, le cose del nostro mondo, parlo del mondo corrente, che stanno con noi così poco tempo, perché sono solo oggetti di consumo, e non sono per niente beni nostri, delle nostre famiglie, dei nostri clan, cioè non costruiscono la nostra storia? Un’auto ci porta in giro per pochi anni, poi la cambiamo, una TV c’ha quasi già impressa una scadenza per portarla in discarica, così frigoriferi e lavatrici, per non parlare di computer e telefonini (che addirittura una voce ce l’hanno già di per sé) e che siamo soliti prendere e cambiare uno dopo l’altro senza nemmeno approfondire del tutto le istruzioni. Cosa mai potranno dirci tali cose di noi, se così poco stanno con noi, che giudizio e che anima potranno farsi?
Io non voglio rivendicare la bellezza del poco, o tornare indietro nel tempo ad una mitica età naturale, o rinunciare a beni che rappresentano la nostra vita, o proporre una povertà che non saremmo più capaci di sostenere. Non penso sia questa la soluzione ai mali di un sistema economico che si sta rilevando capace di distruggere il mondo.
Faccio un discorso in verità più semplice, ma più ambizioso, che forse tale soluzione comprende. Affermo in effetti solo la necessità di cambiare codice
Non importa quante cose l’uomo possiede, ma il modo di rapportarsi ad esse e capire che le cose possedute (una, o tante o troppe) hanno un’anima e il dono della parola, come il “paiolo dei Gelsi”.
Allora la soluzione generale della crisi del sistema sarà davvero a portata di mano: il dare rispetto e importanza alle cose, e di rimando alle anime, e quindi agli uomini.
Come al solito l’unica rivoluzione che può davvero cambiare la vita, o, se si vuole dir meglio, che può interpretare in maniera diversa le cose e quindi il mondo, può avvenire solo dentro di noi.
Massimo Michelucci