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Baghdad, quattro anni di agonia (Giuliana Sgrena)

Tratto da “Notizie minime della nonviolenza in cammino”, Numero 63 del 18 aprile 2007 – pubblicato su "Il manifesto" dell'8 aprile 2007


"In passato avevo pregato perché qualcuno invadesse l'Iraq e ci liberasse da Saddam. Ora, chiedo a Dio di perdonarlo perché stiamo pagando le conseguenze del nostro tradimento con più morti, torture, fame e sete di quelle sofferte durante il suo regime". Marwan Hussein, 31 anni, due figli, disoccupato, vive in una scuola abbandonata alla periferia di Baghdad. Sua moglie, Abdya, lavora come domestica presso diverse famiglie. Prima di perdere il lavoro Marwan era meccanico e guadagnava abbastanza per mantenere la famiglia. "Abbiamo fatto diversi tentativi per sopravvivere in un modo dignitoso, ma ora siamo arrivati alla conclusione che l'unica strada è quella di lasciare il paese, però non abbiamo i soldi per farlo", sostiene Marwan. "Negli ultimi sette mesi ho venduto metà delle razioni mensili (distribuite dal governo per le famiglie povere, ndr) per racimolare un pò di soldi per andare in Siria". Con la vendita delle razioni Marwan riesce ad ottenere 20 dollari, Abdya ne guadagna 30, così mettono da parte 50 dollari al mese. Ne occorrono almeno 400 solo per il taxi che ti porta in Siria. Per risparmiare non manda più i figli a scuola: "con il livello di violenza che c'è la scuola non è più così importante", dice. E per vivere? Raccoglie lattine tra i rifiuti e poi le rivende. E quando c'è un'esplosione si precipita sul posto e raccoglie quel che resta di metallo tra i rottami ancora fumanti.
Marwan e Abdya ripensano a quando avevano un lavoro, una bella casa a al Dora (quartiere nella zona meridionale di Baghdad), un'auto. Tuttavia se riusciranno ad andarsene non avranno il rimpianto di lasciare la famiglia in Iraq: i genitori di Marwan sono stati uccisi durante il regime di Saddam, quelli di Abdya dalle truppe americane durante l'attacco a Najaf nel 2004.
Si calcola che circa 50.000 iracheni fuggano dall'Iraq ogni mese. La maggior parte si sono rifugiati in Siria e in Giordania (due milioni), chi non ha potuto andare all'estero si è spostato all'interno del paese, dove si calcola che gli sfollati siano 1,8 milioni. Quattro milioni di iracheni in fuga (secondo dati ufficiali dell'Unhcr) su una popolazione totale di circa 26 milioni. Il problema non è solo l'alta percentuale (circa il 15 per cento) di profughi, ma il fatto che stanno fuggendo dall'Iraq tutti i "cervelli": docenti universitari, medici, intellettuali, artisti. Fuggono per evitare di essere uccisi (i gruppi della resistenza li considerano collaborazionisti), di essere sequestrati, di veder prendere in ostaggio i propri figli o stuprare le figlie o le mogli dalle varie milizie. I medici fuggono anche dal totale degrado degli ospedali: mancano medicinali, personale, lenzuola...
Chi resta non ha vita facile. Studiare è diventata una sfida. E pensare che l'Iraq fino a qualche anno fa vantava il più alto livello di scolarizzazione del mondo arabo. Molti genitori hanno paura di mandare i figli a scuola. Anche un funzionario del ministero dell'educazione, Nabil al Mira, ammette che dopo un attentato tiene il figlio quindicenne a casa finché non torna la calma in città per almeno due giorni: si può facilmente immaginare che il ragazzo non vada spesso a scuola. Nemmeno gli esami si fanno nello stesso giorno per una classe: non tutti gli studenti sono sempre in grado di arrivare a scuola o all'università. Rafi, un docente di letteratura inglese era stato minacciato perché dava voti bassi.
Non avendo accettato il diktat del voto imposto dai gruppi armati, Rafi è stato assassinato. Ora la sua foto viene usata per minacciare i colleghi.
Non solo i docenti, ma anche gli studenti sono sotto tiro. Una ragazza di 19 anni racconta di essere stata avvicinata da un uomo, vicino a casa, che le ha detto: le donne non devono studiare, se continuerai ad andar a scuola ti uccideremo. Lei ha continuato a frequentare la scuola. Speriamo sia ancora viva.

Un campus per cecchini L'università Mustansiriya, che si trova tra Sadr city (roccaforte sciita) e il quartiere sunnita di Adhamiya, è spesso obiettivo di attacchi sia dei fondamentalisti sciiti che dei gruppi armati sunniti. Nel campus sono rimaste quasi esclusivamente studentesse, i maschi, che corrono i maggiori rischi, sono fuggiti. Ma anche le ragazze non vengono risparmiate: le milizie di Muqtada al Sadr usano i dormitori per piazzare i loro cecchini e per meglio nascondersi hanno tagliato l'elettricità (che non c'è quasi mai), e minacciano le ragazze che non portano il velo. I gruppi della resistenza vorrebbero invece allontanare tutti gli studenti, mentre le forze di sicurezza controllano le strade di accesso all'ateneo, senza molto successo: in gennaio due autobombe contro l'università hanno provocato 70 morti e 170 feriti.
"Non c'è giorno senza terrore", sostiene Zala Ghefori, 31 anni, che prepara un dottorato in letteratura araba. Tuttavia continua a vivere nel campus e non si arrende. Fatima Selami, 29 anni, si sta invece specializzando in matematica. Nonostante il velo e gli abiti rigorosamente islamici teme di diventare un target. Il relatore della sua tesi è già stato ucciso da guerriglieri. Il docente che l'ha sostituito è stato invece minacciato dalle milizie sciite. È stato così costretto a ridurre le lezioni e a non annunciarne l'orario. Quando Fatima lo deve incontrare per la tesi, lui la chiama e le dà un appuntamento per strada, fuori dall'università, non scende nemmeno dalla macchina, si limita a passarle velocemente il testo della tesi corretto mentre lei consegna il nuovo lavoro.

I cadaveri di Haifa street Faek, studente di farmacia, riesce ormai raramente ad andare all'università. Vive, con la sorella Lina e i suoi due figli, in una delle zone più pericolose di Baghdad, Haifa street, dove gli scontri tra le forze Usa e i gruppi della resistenza sono quasi quotidiani. Trovandosi in una zona calda, la casa viene continuamente perquisita e i soldati americani, che non vanno tanto per il sottile, hanno distrutto tutti i mobili e le suppellettili. "Non abbiamo più nemmeno piatti e bicchieri", si lamenta Lina. Il fratello si prende cura dei suoi due figli quando lei va al lavoro, dieci ore al giorno in un laboratorio farmaceutico, più due per il trasporto. È lei a mantenere la famiglia perché il marito è stato ucciso da un soldato americano durante l'invasione nel 2003. Spesso la sera, quando torna dal lavoro, la strada verso casa è chiusa alle macchine. Dopo gli scontri la strada viene bloccata e Lina è costretta a passare tra i cadaveri ancora disseminati sul selciato (e il governo si vanta del successo: in marzo le vittime della violenza sono state solo 1.861 contro una media di oltre 3.000 nei mesi scorsi, ma più dei 1.645 del mese di febbraio).
Tutti i negozi di Haifa street sono chiusi, mentre una fabbrica di abbigliamento, che dava lavoro a domicilio a molte donne, è stata bombardata. I suoi figli sono terrorizzati, non riescono a dormire e quando ce la fanno si svegliano urlando. Faek è stato portato via durante una delle solite retate e tenuto in carcere per una settimana, dove è stato anche torturato. Nessuna accusa, solo la colpa di essere giovane. Lina non ha tuttavia nessuna intenzione di abbandonare Baghdad e comunque non se lo potrebbe permettere.
Gli iracheni che lasciano il paese cercano lavoro nei paesi vicini (Siria e Giordania). "Gli iracheni laureati trovano facilmente lavoro al nero ma sono malpagati, sfruttati, costretti a lavorare più ore senza un compenso adeguato", sostiene Mustafa Abdelkader, portavoce dell'Associazione degli iracheni in Giordania. "Accettano queste condizioni per mantenere le loro famiglie ed evitare la deportazione", aggiunge. Ma la presenza irachena non è ben vista dai giordani non solo per la concorrenza nel mondo del lavoro, ma anche per l'aumento dei prezzi degli affitti provocato dalla forte richiesta. Il governo giordano ha reagito introducendo nuove restrizioni alle regole di immigrazione. Lo stesso ha fatto la Siria.

Amore impossibile Nayla e Sami, lei sunnita e lui sciita, si erano incontrati a Baghdad nel 2004 ed era stato amore a prima vista. La diversa appartenenza religiosa non era un problema nè per loro nè per i loro genitori. Del resto non lo era mai stata prima in Iraq, ma dopo l'occupazione questo consenso rappresenta un'eccezione alla regola. Sami stava mettendo da parte i soldi per il matrimonio quando il padre di Nayla, ex impiegato governativo, nel 2006, in seguito a minacce decideva di lasciare il paese. Con i pochi risparmi messi da parte la famiglia di Nayla fuggiva ad Amman. Nayla parte e Sami promette di raggiungerla appena possibile. Il mese scorso, Sami decide di fare una sorpresa alla ragazza, approfittando di qualche giorno di ferie. Parte da Baghdad con un taxi, dopo undici ore è alla frontiera, altre quattro ore di coda ed eccolo al controllo passaporti. L'impiegato guarda il documento e risponde inflessibile: "Accesso negato. Solo i passaporti rilasciati nel 2006 sono validi, quelli della serie M non valgono più. Disposizioni governative...". Sami non riesce a crederci, deluso, non si dà per vinto.
Torna a Baghdad e tenta la strada della Siria, questa volta funziona e arriva fino a Damasco. Sarà Nayla a raggiungerlo. La stessa scena: ore di taxi, ore di coda alla frontiera e questa volta è la ragazza ad avere l'accesso negato dai siriani. Perché? "Il suo passaporto non è più valido, è stato rilasciato nel 2004". Anche l'Unione Europea e gli Usa non riconoscono più la serie S, rilasciata subito dopo la caduta del rais.
Ottenere un passaporto in Iraq ai tempi di Saddam era un privilegio per pochi. Dopo la caduta del regime molti iracheni hanno cominciato ad affollare gli uffici passaporti. Ogni giorno ci sono centinaia di persone in fila per ottenere l'agognato lasciapassare che di per sè non conta molto, ma almeno è il primo passo per chiedere un visto che forse non arriverà mai. Ogni giorno l'apertura degli uffici è riservata a un quartiere di Baghdad (scelto a rotazione) e vengono distribuiti solo cento moduli al giorno. "Sono dovuto andare quattro volte all'ufficio di Rasafa, ci racconta Mohammed, solo per ottenere il modulo, e poi aspettare altri due mesi per avere il passaporto". Che arriva solo dopo aver contribuito ad oliare la burocrazia con una mazzetta. Dalla consistenza della mazzetta può dipendere anche la serie del documento, la G è la più ambita, si tratta del passaporto digitale. Ma anche questo non basta per realizzare il "sogno" di esiliato. Neanche a Mohammed che sogna di raggiungere alcuni parenti in Australia.

Alcune informazioni sono tratte dai siti: BBC News, Electronic Iraq, Irin news, Osservatorio Iraq, Uruknet