Pubblicato su "Notizie minime della nonviolenza in cammino", n. 507 del 5 luglio 2008, dal qutidiano "La Repubblica" del 16 giugno 2008 col titolo "I nostri indiani si chiamano zingari"
E se domani, in Italia, avvenisse qualcosa di simile a quello che si è visto l'11 giugno scorso a Ottawa? Qui da noi non se ne è parlato, ma è stata una scena emozionante a giudicare dalle fotografie comparse sulle prime pagine dei giornali canadesi. Si vedeva in piedi a sinistra il primo ministro Stephen Harper e davanti a lui seduto, il delegato dell'assemblea delle "First Nations" - quelli che noi, per l'errore di Cristoforo Colombo, continuiamo a chiamare Indiani d'America: si chiama Phil Fontaine, nel suo nome anglo-francese è iscritta la storia dei successivi padroni europei del Canada, ma il caratteristico copricapo di piume che sembra uscito da un film di John Ford rivela la sua identità di "Grande Capo" indiano.
E se domani, in Italia, avvenisse qualcosa di simile a quello che si è visto l'11 giugno scorso a Ottawa? Qui da noi non se ne è parlato, ma è stata una scena emozionante a giudicare dalle fotografie comparse sulle prime pagine dei giornali canadesi. Si vedeva in piedi a sinistra il primo ministro Stephen Harper e davanti a lui seduto, il delegato dell'assemblea delle "First Nations" - quelli che noi, per l'errore di Cristoforo Colombo, continuiamo a chiamare Indiani d'America: si chiama Phil Fontaine, nel suo nome anglo-francese è iscritta la storia dei successivi padroni europei del Canada, ma il caratteristico copricapo di piume che sembra uscito da un film di John Ford rivela la sua identità di "Grande Capo" indiano.
In una cerimonia solenne il primo ministro ha presentato le scuse del governo ai nativi per la politica di assimilazione seguita dal Canada nei loro confronti: nel corso di molti anni, dall'800 fino al 1970, più di 150.000 bambini indiani furono strappati alle loro famiglie in tenera infanzia e obbligati a frequentare le scuole cristiane di stato. Qui, diventati ostaggi di un potere incontrollato mascherato di buone intenzioni, subirono ogni genere di violenza, inclusi naturalmente gli abusi sessuali.
Tremende testimonianze di quel che subirono sono state proposte pubblicamente in quella cerimonia dell'11 giugno, davanti alla folla di membri delle "First Nations" che si stipava nelle tribune del Parlamento o seguiva la ripresa televisiva dell'evento in tutto il Canada. Il primo ministro ha detto fra l'altro: "È stato un errore separare i bambini da culture e tradizioni ricche e vibranti; questo ha creato un vuoto in molte vite e in tante comunità. Di questo chiediamo perdono". Lo ascoltava tra gli altri la più vecchia dei circa 80.000 studenti delle scuole cristiane oggi viventi, Marguerite Wabano, che ha 104 anni.
Nella sua replica Phil Fontaine ha accolto la domanda di perdono. È finito così un incubo del moderno razzismo che ha devastato molte vite, finite poi nell'alcoolismo e nella droga. Restano incancellabili le esperienze e i dolori di tante persone: ma il risarcimento morale ha la sua importanza, assai più di quello in danaro che le vittime avranno il diritto di chiedere.
Una storia lontana da noi? non tanto. ll riconoscimento di colpa canadese colpisce al cuore la cultura europea di quei missionari e di quei coloni che così gran posto hanno ancora nell'orgoglioso senso di sè degli europei. Ne esce sconfitta la convinzione di superiorità culturale che continua assurdamente a dominare nelle scuole di ogni ordine e grado e nel modo di percepire il proprio passato. Si continua a scrivere e a parlare della scoperta dell'America e della "civilizzazione" operata dai portatori della civiltà cristiana occidentale. Eppure basterebbe la testimonianza di Alexis de Tocqueville che nell'800 descrisse il degrado fisico e mentale di popoli un tempo fieri e vigorosi (Bartolomè de Las Casas li aveva paragonati agli eroi dell'antichità pagana) trasformati dall'alcool e dall'asservimento coloniale in relitti umani. Oggi i blandi tentativi di rilettura critica della storia sono frenati dall'urgenza di un clima di guerra che si è aperto sotto la sciagurata parola d'ordine dello "scontro di civiltà".
Ma non affrettiamoci troppo a sfumare le responsabilità europee ed italiane nella lontananza di colpe secolari e di eventi di un altro continente. Anche nella casa Europa è accaduto qualcosa di simile alla vicenda canadese. I nostri indiani si chiamano zingari. Ci oppone la stessa barriera culturale tra stanziali e nomadi che oppose in America il popolo delle praterie ai costruttori di città. Quella barriera non ha operato solo nel portare al genocidio degli zingari nei Lager nazisti, di cui comunque non si parla abbastanza. Ci vorrebbe troppo spazio per tentare un elenco anche sommario degli orrori dell'eugenetica europea e dello stillicidio quotidiano di volgari pregiudizi. Un romanzo di Mario Cavatore, Il seminatore, e un articolo di "Le Monde diplomatique" ripreso dal "Manifesto" hanno ricordato di recente in Italia quello che nella civile Svizzera del '900 è stato fatto dall'Opera di soccorso "Enfants de la grande route", creata nel 1926 sotto l'egida della istituzione svizzera Pro-Juventute. Con una vera caccia al nomade centinaia di bambini furono strappati ai genitori e messi in orfanotrofi o affidati a famiglie svizzere per finire per lo più in ospedali psichiatrici e in prigioni. Si voleva "sradicare il male del nomadismo" e invece si realizzò quello che l'allora consigliera federale Ruth Dreyfuss bollò nel 1998 come "un tragico esempio di discriminazione e persecuzione di una minoranza che non condivide il modello di vita di una maggioranza".
In Italia la forza del pregiudizio alimenta oggi una violenza quotidiana che ha nei bambini rom e sinti le vittime predestinate. Le radici storiche di questa violenza sono remote. Profondamente radicato e sordo a ogni evidenza è il pregiudizio che accusa gli zingari di rubare i bambini "nostri".
Intanto ogni giorno si hanno nuovi esempi di come noi rubiamo agli zingari i bambini "loro" per trasferirli in istituti e di come la nostra società impedisca a quei bambini la possibilità di una vita normale. Le prigioni italiane ospitano - per così dire - un numero molto alto di zingari e chi le volesse visitare vedrebbe scene di giovanissime madri che allattano i loro piccoli o li tengono con sè. Bambini che nascono prigionieri. Altri preferiscono soluzioni più spicce. È difficile dimenticare l'episodio di cui fu protagonista quel nostro concittadino che anni fa regalò una bambola esplosiva a una bambina che chiedeva l'elemosina. La bambina non morì. Ma il suo corpo restò segnato per sempre da quella versione italiana dello "scontro di civiltà": perse un occhio e parte della mano destra. Il delinquente era l'esecutore armato dai sentimenti di una collettività concorde e omertosa. Ciò gli permise di restare anonimo e di non pagare per l'infamia senza nome che aveva commesso. Oggi l'opinione dominante degli italiani chiede che tutti gli zingari siano messi in galera o vengano espulsi dall'Italia. Sono in prima fila tra i clandestini. E tra loro c'è anche quel bambino nato pochi giorni fa in un ospedale fiorentino da una madre zingara: clandestina la madre, clandestino fin dalla nascita il figlio. La prigione dove forse finiranno è la risposta di un paese che non si cela dietro l'eugenetica e che non ha nè i mezzi nè l'ipocrisia della beneficenza svizzera. Il governo in carica ha raccolto una investitura popolare anche su questo punto e ha dato segno di volerla tradurre in misure concrete: parole che vogliono suonare rassicuranti - carcere, tolleranza zero, condanne esemplari - alimentano ogni giorno la crescente sindrome di paura e di odio di un paese spaventato.
E se domani... se domani, in Italia, il primo ministro canadese trovasse qualcuno disposto a imitarlo, se qualcuno dicesse alto e forte che la differenza culturale è un valore?
Tremende testimonianze di quel che subirono sono state proposte pubblicamente in quella cerimonia dell'11 giugno, davanti alla folla di membri delle "First Nations" che si stipava nelle tribune del Parlamento o seguiva la ripresa televisiva dell'evento in tutto il Canada. Il primo ministro ha detto fra l'altro: "È stato un errore separare i bambini da culture e tradizioni ricche e vibranti; questo ha creato un vuoto in molte vite e in tante comunità. Di questo chiediamo perdono". Lo ascoltava tra gli altri la più vecchia dei circa 80.000 studenti delle scuole cristiane oggi viventi, Marguerite Wabano, che ha 104 anni.
Nella sua replica Phil Fontaine ha accolto la domanda di perdono. È finito così un incubo del moderno razzismo che ha devastato molte vite, finite poi nell'alcoolismo e nella droga. Restano incancellabili le esperienze e i dolori di tante persone: ma il risarcimento morale ha la sua importanza, assai più di quello in danaro che le vittime avranno il diritto di chiedere.
Una storia lontana da noi? non tanto. ll riconoscimento di colpa canadese colpisce al cuore la cultura europea di quei missionari e di quei coloni che così gran posto hanno ancora nell'orgoglioso senso di sè degli europei. Ne esce sconfitta la convinzione di superiorità culturale che continua assurdamente a dominare nelle scuole di ogni ordine e grado e nel modo di percepire il proprio passato. Si continua a scrivere e a parlare della scoperta dell'America e della "civilizzazione" operata dai portatori della civiltà cristiana occidentale. Eppure basterebbe la testimonianza di Alexis de Tocqueville che nell'800 descrisse il degrado fisico e mentale di popoli un tempo fieri e vigorosi (Bartolomè de Las Casas li aveva paragonati agli eroi dell'antichità pagana) trasformati dall'alcool e dall'asservimento coloniale in relitti umani. Oggi i blandi tentativi di rilettura critica della storia sono frenati dall'urgenza di un clima di guerra che si è aperto sotto la sciagurata parola d'ordine dello "scontro di civiltà".
Ma non affrettiamoci troppo a sfumare le responsabilità europee ed italiane nella lontananza di colpe secolari e di eventi di un altro continente. Anche nella casa Europa è accaduto qualcosa di simile alla vicenda canadese. I nostri indiani si chiamano zingari. Ci oppone la stessa barriera culturale tra stanziali e nomadi che oppose in America il popolo delle praterie ai costruttori di città. Quella barriera non ha operato solo nel portare al genocidio degli zingari nei Lager nazisti, di cui comunque non si parla abbastanza. Ci vorrebbe troppo spazio per tentare un elenco anche sommario degli orrori dell'eugenetica europea e dello stillicidio quotidiano di volgari pregiudizi. Un romanzo di Mario Cavatore, Il seminatore, e un articolo di "Le Monde diplomatique" ripreso dal "Manifesto" hanno ricordato di recente in Italia quello che nella civile Svizzera del '900 è stato fatto dall'Opera di soccorso "Enfants de la grande route", creata nel 1926 sotto l'egida della istituzione svizzera Pro-Juventute. Con una vera caccia al nomade centinaia di bambini furono strappati ai genitori e messi in orfanotrofi o affidati a famiglie svizzere per finire per lo più in ospedali psichiatrici e in prigioni. Si voleva "sradicare il male del nomadismo" e invece si realizzò quello che l'allora consigliera federale Ruth Dreyfuss bollò nel 1998 come "un tragico esempio di discriminazione e persecuzione di una minoranza che non condivide il modello di vita di una maggioranza".
In Italia la forza del pregiudizio alimenta oggi una violenza quotidiana che ha nei bambini rom e sinti le vittime predestinate. Le radici storiche di questa violenza sono remote. Profondamente radicato e sordo a ogni evidenza è il pregiudizio che accusa gli zingari di rubare i bambini "nostri".
Intanto ogni giorno si hanno nuovi esempi di come noi rubiamo agli zingari i bambini "loro" per trasferirli in istituti e di come la nostra società impedisca a quei bambini la possibilità di una vita normale. Le prigioni italiane ospitano - per così dire - un numero molto alto di zingari e chi le volesse visitare vedrebbe scene di giovanissime madri che allattano i loro piccoli o li tengono con sè. Bambini che nascono prigionieri. Altri preferiscono soluzioni più spicce. È difficile dimenticare l'episodio di cui fu protagonista quel nostro concittadino che anni fa regalò una bambola esplosiva a una bambina che chiedeva l'elemosina. La bambina non morì. Ma il suo corpo restò segnato per sempre da quella versione italiana dello "scontro di civiltà": perse un occhio e parte della mano destra. Il delinquente era l'esecutore armato dai sentimenti di una collettività concorde e omertosa. Ciò gli permise di restare anonimo e di non pagare per l'infamia senza nome che aveva commesso. Oggi l'opinione dominante degli italiani chiede che tutti gli zingari siano messi in galera o vengano espulsi dall'Italia. Sono in prima fila tra i clandestini. E tra loro c'è anche quel bambino nato pochi giorni fa in un ospedale fiorentino da una madre zingara: clandestina la madre, clandestino fin dalla nascita il figlio. La prigione dove forse finiranno è la risposta di un paese che non si cela dietro l'eugenetica e che non ha nè i mezzi nè l'ipocrisia della beneficenza svizzera. Il governo in carica ha raccolto una investitura popolare anche su questo punto e ha dato segno di volerla tradurre in misure concrete: parole che vogliono suonare rassicuranti - carcere, tolleranza zero, condanne esemplari - alimentano ogni giorno la crescente sindrome di paura e di odio di un paese spaventato.
E se domani... se domani, in Italia, il primo ministro canadese trovasse qualcuno disposto a imitarlo, se qualcuno dicesse alto e forte che la differenza culturale è un valore?