• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Dalla scuola di Barbiana alla scuola attuale

Pubblichiamo questo intervento stimolante di Renata Menaballi proposto durante il convegno su don Milani "il suo e il nostro tempo" - che si è realizzato a la Casa sul pozzo il 13 ottobre e che è stato promosso dalla Cisl e dalla Comunità di via Gaggio di Lecco.

Dalla presentazione di Ernesto Balducci a “La forza di amare” di Martin Luther King (pubblicato nel 1967)

Uno dei fenomeni che meglio esprimono la novità dei tempi è la presenza nel mondo di uomini singolar­mente nuovi, il cui tratto caratteristico non è, come nelle forti personalità del passato, l'ostinata fedeltà ad una ideologia, ma piuttosto l'incrollabile fermezza nel seguire la voce della coscienza al cospetto delle istituzioni. Uomini del genere non coltivano nella so­cietà la speranza di toccare le sponde della felicità terrena per mezzo di qualche taumaturgica riforma o della vittoria di un partito. Essi sono, per lo più, uo­mini fragili, diffidenti delle teorie, sicuri che il rinnova­mento del mondo non dipende da una nuova dottrina, ma dalla forza inventiva della coscienza morale. “Siamo testimoni - si legge nella Gaudium et spes (55) - di un nuovo umanesimo, in cui l'uomo si definisce anzitutto per la sua responsabilità verso i suoi fratelli e verso la storia”.

L'umanesimo della responsabilità non è certo un privilegio dei cristiani, e tuttavia esso trova nell'ambito delle Chiese cristiane il clima più adatto per nascere e prosperare. Anzi, non c'è dubbio che domani, ca­dute antiche alleanze e antichi conformismi, i cristiani saranno, nel contesto di un mondo sempre più contenuto entro le forme della laicità, il nucleo più vivo della società, l’organismo comunitario in cui il senso di responsabilità verso la storia sarà acutissimo e fecondo. La ragione è semplice: il credente in Cristo sa che il prendersi la responsabilità di una speranza umana equivale ad una risposta fattiva ai segni del tempo, come dire all’appello di Dio.

Ho voluto cominciare con queste parole per due ragioni:

-         Senza alcuna pretesa di fare un inquadramento storico, mi sembra che esse ci diano un’idea del clima e della speranza presenti in alcuni ambienti cristiani al tempo di dM e quindi di come oggi le cose stiano diversamente: questo vale naturalmente anche per la scuola

-         La logica implacabile delle parole di B. (implacabile per un credente) è, a mio giudizio, la stessa che muove dM

Non possiamo separare il pensiero di dM dal suo essere sacerdote, tuttavia il suo modo di incarnare la fede è tale da rendere esplicito quello che io chiamo il “punto di contatto”: essere credenti o non esserlo non è la stessa cosa, tuttavia c’è sicuramente un punto di contatto profondo tra alcuni credenti e alcuni non credenti che possiamo chiamare “amore per l’uomo”. Le ragioni degli uni e degli altri possono essere diverse, ma la conseguenza ha tante caratteristiche in comune: è un amore incondizionato che non si lascia scoraggiare dagli insuccessi, è fiducia nella possibilità che ogni uomo ha di cambiare e di crescere; è un amore che può rendere duri, perché se ho fiducia in chi ho davanti non ho paura di dire con chiarezza che non condivido ciò che sta facendo; è un amore che non cerca quindi di accattivarsi chi ha davanti e che gioisce del successo dell’altro, perché amare l’uomo significa gioire nel vederlo crescere, esprimersi, creare, significa amare tutto ciò che l’uomo può “produrre”: la scienza, la legge, la politica, l’arte in tutte le sue forme.

Non ho ancora parlato esplicitamente di scuola, ma implicitamente mi sembra di aver detto molto di ciò che sta al cuore del fare scuola: non c’è trasmissione di sapere se non c’è amore per l’uomo. Non vorrei essere fraintesa: è chiaro che il rapporto di affetto esistente tra dM e i suoi ragazzi di Barbiana non è pensabile in una scuola superiore di oggi, ma non è questo il punto. La mia piccola esperienza di docente mi suggerisce che la strada del ricercare in primis un rapporto di amicizia e affetto con i propri alunni non è saggia; il compito dell’insegnante non è rendersi simpatico e ricercare consensi, ma far crescere. Del resto, come avrò modo dire più avanti, dM è ben lontano dalla figura del docente che cerca consensi. Tuttavia anche se la struttura scolastica e il grado di istruzione in cui un docente è chiamato a lavorare può variare di molto il tipo di rapporto umano e di conoscenza che avrà dei propri alunni, resta un punto fermo: poco o nulla potrà essere realmente trasmesso senza amore per l’uomo, ovvero amore e stupore per ciò che si insegna in quanto produzione dell’uomo e per ciò che i giovani uomini che come docenti abbiamo davanti potranno fare di bello e di nuovo in futuro.

Ancora una premessa per chiarire un aspetto importante: leggere della scuola di Barbiana è, almeno per un insegnante, affascinante e commovente, nel senso più nobile del termine; tuttavia la prima cosa da sottolineare è che, come ha detto più volte lo stesso dM, non ha senso pensare a un trasferimento del metodo pedagogico di Barbiana.

Negli ultimi tempi Lorenzo Milani andava disfacendo la scuola: cercava di sistemare altrove certi ragazzi, rispondeva con un “no” reciso ai casi nuovi che gli prospettavano. “La scuola non deve andare avanti”, disse esplicitamente quando ebbe il dubbio che qualcuno intendesse continuarla.

Non si era mai sognato, lui, di suggerire didattiche, metodi di insegnamento. “Anche in Lettera a una professoressa” spiega Agostino Ammannati, “non dà dei metodi. I metodi ce li dobbiamo creare noi con quello spirito lì” (da “Dalla parte dell’ultimo” di Neera Fallaci, Bur, pag 631)

 

O come dice lo stesso dM in una lettera del 1960 all’amica Elena Brambilla Pirelli (sorella dell’industriale Leopoldo Pirelli) che, madre di numerosi figli, gli aveva chiesto notizie sul sistema pedagogico di Barbiana:

 

I miei eroici piccoli monaci che sopportano senza un lamento e senza pretese 12 ore quotidiane feriali e festive di insopportabile scuola e ci vengono felici non sono affatto eroi, ma piuttosto dei piccoli svogliati scansafatiche che hanno valutato (e ben a ragione) che 14 o anche 16 ore nel bosco a badar pecore son peggio che 12 a Barbiana a prendere pedate e voci da me. Ecco il grande segreto pedagogico del miracolo di Barbiana. Ognuno vede che non ciò merito alcuno e che il segreto di Barbiana non è esportabile né a Milano né a Firenze. Non vi resta dunque che spararvi.

 

Ciò nonostante l’esperienza di Barbiana e, più in generale, le parole di dM possono dire molto anche alla scuola di oggi. Vorrei articolare la mia riflessione in proposito in quattro parti che prendono spunto da aspetti che, a titolo personale, ritengo stimolanti in relazione all’esperienza che sto vivendo.

La parola può rendere liberi

La scuola di dM consisteva soprattutto nell’insegnar la lingua italiana ai poveri. Il principio su cui si basava era questo: una grande massa di uomini non hanno mai avuto voce nella società, proprio perché non sono stati messi in condizione di esprimersi, di avere la padronanza del linguaggio.

Don Lorenzo faceva una scenata incredibile quando si accorgeva che qualcuno l’aveva fatto proseguire senza chiedere una spiegazione (di un vocabolo non capito) “Ogni parola che non conosci è una fregatura in più, è una pedata in più che avrai nella vita” gridava.

(“Dalla parte dell’ultimo” di Neera Fallaci, pag. 420 e 440)

 

dM non ha dubbi: la scuola ha come primo obiettivo quello di fornire gli strumenti per diventare liberi, per diventare cittadini, per capire e decidere, per diventare uomini.

A questo proposito ci sono pagine davvero toccanti in Lettera a una professoressa (Libreria Editrice Fiorentina):

 

A giugno del terzo anno di Barbiana mi presentai alla licenza media come privatista.

Il tema fu “Parlano le carrozze ferroviarie”.

A Barbiana avevo imparato che le regole dello scrivere sono: aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo.

Ma davanti a quel tema che me ne facevo delle regole umili e sane dell’arte di tutti i tempi?

Mi provai dunque a scrivere come volete voi. Posso ben credere che non ci riuscii. Certo scorrevano meglio gli scritti dei vostri signorini esperti nel friggere aria e nel rifrigger luoghi comuni. (pag.20)

 

Perché il sogno dell’uguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme.

I – Non bocciare

II – A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno

III – Agli svogliati basta dargli uno scopo (pag 80)

 

Le mode gli hanno detto (al giovane) che i 12-21 anni sono l’età dei giochi sportivi e sessuali, dell’odio per lo studio.

Gli hanno nascosto che i 12-15 anni sono l’età adatta per impadronirsi della parola. I 15-21 per usarla nei sindacati e nei partiti.

Gli hanno nascosto che non c’è tempo da perdere. (pag 66)

Certo parliamo di un testo  (Lettera a una professoressa) che più di altri risente del periodo storico e del luogo, in particolare in riferimento alle statistiche e alle denunce precise che contiene; ma tra le righe trasmette un messaggio molto forte anche oggi:

-         Prima di tutto sono parole che vanno dritte al cuore di un docente che sappia minimamente mettersi in discussione, perché contengono un fondo di verità che un insegnante non deve dimenticare mai, specie quando dopo anni di esperienza lavorativa tende a “rassegnarsi” di fronte allo stato delle cose

-         In secondo luogo il problema degli ultimi che la scuola non aiuta è presente anche oggi più che mai (basti pensare alle difficoltà che incontra un ragazzo extracomunitario alle superiori)

-          Infine, e di questo ho esperienza diretta, se pensiamo a cos’è oggi l’informazione, alla tentazione continua di chiudersi in un piccolo mondo fatto di telefilm, reality show e scarpe nuove, non possiamo non vedere quanto i giovani (e non solo) abbiano bisogno di strumenti per diventare liberi e pensanti.

Questo la scuola lo può e lo deve fare, o almeno deve cercare di farlo. Ci stiamo muovendo in questo senso?

“Non bocciare” significa “promuovere” e questo deve fare la scuola; promuovere nel senso più ampio e profondo del termine, lasciarsi guidare non dalla necessità di misurare rendimenti, ma piuttosto dalla continua ricerca di strumenti per far crescere, per valorizzare le risorse, per stimolare ad apprendere.

“A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno” e “Agli svogliati basta dargli uno scopo”

Mi chiedo: sono queste le linee guida della riforma o non è piuttosto un procedere a tentoni per risparmiare risorse? Sono queste le motivazioni delle proteste alla riforma o non corriamo il rischio di scadere nelle sole rivendicazioni sindacali (pure importanti)?

Ho molta fiducia nel valore e nel potere che hanno la conoscenza e la cultura per determinare la crescita di una persona e della sua capacità critica. Inizio sempre le mie lezioni di fisica dicendo che guardare il mondo che ci circonda possedendo qualche nozione di fisica, significa guardarlo con occhi nuovi; si può vivere anche senza conoscere la fisica, ma sicuramente ci si perde qualcosa di bello…

Certo durante l’anno il rischio è quello di perdersi negli aspetti “burocratici”. Non dobbiamo però stancarci o dimenticare di tornare a pensare all’obiettivo iniziale.

 

Una scuola monarchica assolutista

Don Lorenzo diceva “Voi credete che la scuola debba essere democratica. E’ qui il vostro errore! La scuola deve essere monarchica assolutista, se vuol creare gli strumenti della democrazia.

E’ democratica solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia”

(“Dalla parte dell’ultimo” pag 429 e 430)

 

In questo periodo si sente parlare molto di un ritorno alla disciplina, ma preferirei parlare di educazione al rispetto della persona e di senso civico. Senza entrare più di tanto nel merito, stiamo attenti a non fermarci alle banalità (vedi voto di condotta o grembiule).

Come sempre le riflessioni che dM ci suggerisce sono ben più profonde. Vi espongo le mie:

-         E’ necessario rivalutare la figura del docente, che, permettetemi di difendere la categoria, in questi anni è stata sistematicamente smontata nell’opinione pubblica. Talvolta i primi a non credere in se stessi sono gli insegnanti. Invece è solo se l’alunno ha stima del proprio insegnante che si possono mettere le basi per un rapporto positivo e produttivo.

-         dM ci ricorda che il rapporto docente-alunno non è alla pari: lo è in quanto a rispetto e a dignità della persona, ma i ruoli sono ben distinti (anche se entrambi imparano l’uno dall’altro). I nostri ragazzi cercano riferimenti e sanno “percepire” la verità; vogliono un insegnante, non un compagno di studi, e se stimano chi hanno davanti, sanno comprendere anche gli errori che, inevitabilmente, possono essere commessi.

-         Per come era fatta la scuola di Barbiana, non esisteva un aspetto della scuola attuale che ritengo molto importante: la collegialità. Si tratta di un valore  e di una ricchezza della nostra scuola che non ho lo spazio di approfondire, ma che sicuramente va salvaguardato. Un gruppo di docenti che lavora insieme permette uno sguardo più completo sui ragazzi e il più delle volte rende più efficace l’azione didattica e formativa.

Il primato della coscienza

Una riflessione a partire dalla Lettera ai giudici (in “L’obbedienza non è più una virtù”). Si tratta dell’argomentazione che dM fa della propria difesa in occasione del processo in cui è coinvolto come imputato, pertanto è strutturata in modo rigoroso e consequenziale. A mio giudizio deve essere letta per intero per poterne cogliere il valore.

Di per sé è un ottimo esempio di “modalità di reazione o protesta” di fronte a qualcosa che non condividiamo:

-         documentarsi e approfondire, cogliere la complessità del reale (non ci sono risposte a tutto)

-         esprimere con libertà il proprio pensiero e agire di conseguenza

-         essere sempre corretti con gli “avversari”

e in tutto questo la scuola è coinvolta in pieno: insegna il valore del documentarsi, stimola la coscienza critica, educa alla correttezza nella relazione.

E’ una lotta senza speranze in un mondo che va tutto al contrario? Quello che vediamo sono parole pronunciate con autorevolezza da chi in realtà non conosce, adeguamento passivo al pensiero comune, abitudine a gridare più forte per farsi valere.

Ma non voglio fermarmi a questo perché nella Lettera ai giudici c’è di più. Quello che emerge con forza è un’immagine autentica e piena di speranza del “maestro” e della “scuola”.

-         Il maestro (la scuola) è uno che conosce

-         Il maestro (la scuola) è uno che ama la legge, la storia, il sapere

-         Il maestro (la scuola) è uno che ama a tal punto la legge, la storia,il sapere che li vuole cambiare e migliorare

-         Il maestro è uno che ha fiducia nei propri alunni e sa che lo supereranno e faranno più di quanto lui abbia fatto

 

A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola.

La scuola è diversa dall'aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita.
La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi.
E' l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall'altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione).

E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i "segni dei tempi", indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso.

In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla.

(da “L’obbedienza non è più una virtù”, Libreria Editrice Fiorentina, pag. 36)

 

Fare scuola è un’arte

Mi permetto una breve osservazione conclusiva sul temperamento di dM, temperamento che si respira nelle sue lettere e nelle testimonianze di chi l’ha conosciuto:  le osservazioni pungenti, le espressioni colorite, le uscite ad effetto fanno parte del suo essere maestro e ci lasciano un altro messaggio importante.

Chi insegna deve sapersi inventare il mestiere, deve saper fare un po’ di “spettacolo”, devo trovare il gusto per la provocazione non fine a se stessa ma stimolante per l’apprendere.

Anche in questo senso fare scuola è un’arte.

 

Intervento fatto a la Casa sul pozzo il 13 ottobre 2010 durante il convegno su don Milani – il suo e il nostro tempo – promosso da Cisl e Comunità di via Gaggio

Fonte: Angelo Cupini