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Intervento di Buratti Gino, a nome dell'Accademia Apuana della Pace, alla "Giornata interreligiosa di preghiera per la pace"

Nel ringraziare per avere promosso questo incontro, vorrei fare, a nome dell'Accademia Apuana della Pace, alcune considerazioni generali e altre specifiche per quanto riguarda il conflitto israeliano – palestinese.

Premessa, indispensabile all'analisi che andrò facendo, è la condanna senza se e senza ma sia dell'azione terroristica di Hamas, che ha causato più di 1.200 morti, ma anche della reazione di Israele, che ad oggi, quando l'azione di terra non è ancora iniziata, ne ha causati più di 5000.

Se provassimo, abitando il dubbio con un minimo di senso critico, a rileggere i conflitti di questi ultimi 50 anni potremmo trarne alcune indicazioni.

La prima riguarda la complessità, nel senso che ogni conflitto non nasce mai all'improvviso, ha un ieri, un oggi e un domani.

Non possiamo comprendere il conflitto di oggi, se non siamo capaci di immergerci anche in quello che è accaduto ieri e, non da meno, se non proviamo ad immaginare quale sarà il domani che vogliamo disegnare con le nostre valutazione e le scelte che andiamo ad operare.

Sicuramente questa modalità di stare nel problema, accogliendo anche la sfida di abitare il dubbio, di frequentare le diverse prospettive e punti di vista, partendo prima di tutto dal riconoscimento dell'altro, anche quando questo è il nemico, è faticosa, ma al tempo stesso è l'unica che ci permette di comprendere e valutare un fenomeno (che non significa giustificarlo) e che ci rende persone veramente libere, animate dal senso critico e capaci di accogliere il dubbio.

Ed invece tutto si limita - negli spazi culturali, nella politica, nelle relazioni internazionali, ma anche in quelle personali - al gioco di schierarsi, in un susseguirsi di atteggiamenti più o meno aggressivi nei confronti di chi invita a cogliere la complessità delle situazioni e cercare di riconoscere anche nel nemico una persona umana.

Il secondo aspetto che una rilettura di questi ultimi 50 anni di scelte militari ci può suggerire che tutti i conflitti nascono sempre e si sviluppano, assumendo contorni sempre più ampi e devastanti, sulla base del principio di azione e reazione, in un vortice progressivo che può anche non finire mai. Ma non possiamo dimenticare che anche l'azione e reazione di oggi ha un ieri e disegna un domani, che può essere più o meno funesto a seconda se saremo capaci di rompere questo circolo vizioso.

E che, sopratutto, dietro ad ogni conflitto, stanno interessi più o meno legittimi e l'idea di una diversa distribuzione dei poteri internazionali.

La storia di questi ultimi 50 anni ci dice chiaramente che l'opzione militare per risolvere le controversie internazionali (che la nostra costituzione “ripudia”, verbo forte!) non crea condizioni di maggiore convivenza pacifica, ma anzi crea situazioni in cui i conflitti si rigenerano e si facilita la radicalizzazione delle posizioni (radicalizzazione guardate bene che non riguarda solo il mondo medio orientale, ma anche quello occidentale).

Pensiamo semplicemente all'azione – reazione conseguente all'attacco alle Torri Gemelle (guerre in Iraq e Afghanistan) o alla stessa più recente invasione Russa in Ucraina.

Non diversa è la realtà israeliana – palestinese di questi ultimi 70 anni, affrontata esclusivamente in chiave militare (pensiamo solo all'affossamento degli accordi di Oslo) che ha semplicemente costruito distanze abissali tra il mondo palestinese e quello israeliano, grazie anche alle politiche di Israele che, in continuo stato di guerra, ha difeso i suoi confini costruendo muri, assediando Gaza, negando parità di diritti ai palestinesi e, sopratutto, occupando il territorio assegnato dalle Nazioni Unite ai palestinesi con i coloni (favorendo così una radicalizzazione).

La logica “dell'occhio per occhio” rende il mondo solo un po' più cieco, creando una situazione crescente di instabilità ed un vortice di ulteriore violenza.

E' necessario assolutamente interrompere questa spirale e per farlo è necessario che la comunità internazionale tutta faccia pressioni sui contendenti per un cessate il fuoco immediato, ma anche per l'apertura di un negoziato che tenga conto delle ragioni di entrambe le parti, senza negare i torti commessi dai contendenti.

La comunità internazionale non è chiamata a schierarsi alimentando un conflitto, magari con invio di armi e aiuti economici, ma è chiamata a svolgere ruolo di mediazione e di pressione affinché entrambe le parti inizino un confronto, che si basi però sull'ascolto delle ragioni dell'altro.

Di fronte al fallimento delle politiche militari, la strada da percorre rimane quella della nonviolenza come processo per risolvere le controversie internazionali, accompagnando le parti in causa in un processo di reciproco riconoscimento; facendo scelte politiche che sappiano leggere quello che è successo oggi alla luce dei fatti di ieri, senza però rimanere ancorati a quelli, e pensando a quale domani di relazioni internazionali vogliamo costruire.

Ma affinché un processo del genere diventi strutturale, è necessario adottare politiche e comportamenti, individuali e istituzionali, che favoriscano la costruzione di un tessuto culturale, sociale e politico in tale senso.

La polarizzazione e la richiesta pressante di schierarsi per l'uno o l'altro contendente, accompagnata dalla demonizzazione di chi invita a leggere la complessità dei fenomeni, non aiuta certo a costruire forme di dialogo.

L'incremento delle spese militari e lo sviluppo dell'industria bellica, accompagnato da un'azione di propaganda nelle scuole delle strutture militari, non va certo nella direzione di formare persone capaci di costruire ponti e non muri...

Perché noi abbiamo bisogno di costruire ponti, che permettano di riconoscere l'altro, e non di muri, che separano e ci chiudono in fortini vulnerabili nonostante le tecnologie: questo nelle relazioni internazionali, nei rapporti interpersonali, nell'agire politico.

Il conflitto e lo scontro, anche duro, devono servire a fare passi in avanti nel riconoscimento reciproco.

Nel conflitto palestinese se è vero che l'opzione più logica sia quella dei due stati, dobbiamo essere consapevoli che i due stati vanno costruiti riconoscendo i diritti e i doveri dei palestinesi e degli israeliani: diritto affinché lo stato dei Palestinesi abbia continuità territoriale e rispecchi le convenzioni ONU (ma ciò significa però che Israele deve rinunciare all'occupazione illegale fatta di territori palestinesi) e diritto di Israele di sentirsi sicuro nei propri confini (ciò significa riconoscimento da Parte dei Palestinesi del diritto di esistere di Israele, processo che con i trattati di Oslo si stava avviando): ed è la comunità internazionale che deve premere in tale ottica, riconoscendo diritti e torti fatti da entrambi i contendenti.

Siamo capaci di fare questo? Siamo capaci di essere umani e non di sacrificare tutto in nome di equilibri che in realtà creano ulteriori disequilibri e insicurezza?

Crediamo però che non ci sia alternativa a questa scelta nonviolenta, pena precipitare nel baratro di un conflitto permanente; la terza guerra mondiale, che a pezzi è già in atto, come da tempo sostiene papa Francesco.

Gino Buratti, a nome di AAdP

Massa, 27 ottobre 2023