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Teoria della nonviolenza (Aldo Capitini)

Tratto da "La nonviolenza è in cammino" n. 1374 (31 luglio 2006) e 1375 (1 agosto 2006)


[Riproduciamo ancora una volta la prima parte (pp. 1-15) dell'opuscolo che riporta alcuni testi di Aldo Capitini, Teoria della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1980 (richiedibile presso la redazione di "Azione nonviolenta", e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., sito: www.nonviolenti.org)]

Principi di nonviolenza

La nonviolenza risulta dall'insoddisfazione verso ciò che, nella natura, nella società, nell'umanità, si costituisce o si è costituito con la violenza; e dall'impegno a stabilire dal nostro intimo, unità amore con gli esseri umani e non umani, vicini e lontani. La manifestazione più concreta ed anche più evidente di questa unità amore è l'atto di non uccidere questi esseri e di non operare su di loro mediante l'oppressione e la tortura. Questo impegno non è che un punto di partenza (come nessuno nella poesia, nella musica, può pretendere di esaurirle), e le imperfezioni del nostro atto di unità amore non possono essere compensate che dal proposito di essere attivissimi in essa, nel tu che diciamo agli esseri nella loro singola individualità, mai dicendo che basta. La nonviolenza non è l'esecuzione di un ordine, ma è una persuasione che pervade mente, cuore ed agire, ed è un centro aperto: il che significa che ognuno prende l'iniziativa di unità amore senza aspettare che prima tutti si innamorino, e la concreta in modi particolari che egli decide con sincerità, e con dolore per ogni limite e impedimento che lo stato attuale della realtà-società-umanità ancora mette a sviluppare pienamente questa unità con tutti.
Vi sono, dunque, tanti gradi e tante espressioni della nonviolenza, ma, al punto in cui siamo, esse si concentrano in un modo fondamentale, che è di non uccidere esseri umani. Mentre si sta stabilendo, oggi più che mai, anche economicamente politicamente culturalmente, l'unità mondiale dell'umanità, l'atto di affetto all'esistenza di ogni essere umano ci porta al punto di questa unità umana. Verso gli altri esseri viventi ma non umani, come gli animali e le piante, tutto ciò che è fatto nell'affetto e rispetto alla loro esistenza, apre l'unità amore anche a loro e abitua a sentire, di riflesso, il valore del non uccidere esseri più complessi e più simili a noi, come sono gli uomini. La prassi del vegetarianesimo ha perciò grande importanza.
La nonviolenza non è soltanto contro la violenza del presente, ma anche contro quelle del passato; e perciò tende a un rinnovamento della realtà dove il pesce grande mangia il pesce piccolo, della società dove esiste l'oppressione e lo sfruttamento, dell'umanità nella sua chiusura egoistica e nelle sue abitudini conformistiche e gusto della potenza. Ma finché diamo col pensiero e con l'atto la morte, non possiamo protestare contro la realtà che dà la morte. E perché la società non torni sempre oppressiva sotto un nome od un altro, deve cambiare l'uomo e il suo modo di sentire il rapporto con gli altri: la nonviolenza è impegno alla trasformazione più profonda, dalla quale derivano tutte le altre; e perciò non si colloca nella realtà pensando che tutto resti com'è, ma sentendo che tutto può cambiare, e che com'è stata finora la realtà società umanità non era che un tentativo secondo i modi della potenza e della distruzione, e che vien dato un nuovo corso alla vita con i modi dell'unità amore e della compresenza di tutti.
La nonviolenza è in una continua lotta, con le tendenze dell'animo e del corpo e dell'istinto e la paura e la difesa, con la realtà dura, insensibile, crudele, con la società, con l'umanità nelle sue attuali abitudini psichiche: non può fare compromessi con questo mondo cosi com'è, e perciò il suo amore è profondo, ma severo; ama svegliando alla liberazione e sveglia alla liberazione amando; quindi distingue nettamente tra le persone e gli esseri tutti che unisce nell'amore, tutti avviati alla liberazione, e le loro azioni, delitti, peccati, stoltezze, assumendo il compito di aiutare questi esseri ad accorgersi del male, e, se proprio non è possibile altro, contribuendo a liberarli dando, più che è possibile, il bene. La nonviolenza è attivissima, per conoscere gli aspetti della violenza e smascherarli impavidamente; per supplire all'efficacia dei mezzi violenti col moltipllcare i mezzi nonviolenti, facendo perciò come le bestie piccole che sono più prolifiche delle grandi; per vincere l'accusa e il pericolo intimo che essa sia scelta perché meno faticosa e meno rischiosa; per dare effettivamente un contributo alla società, che ci dà, in altri modi. altri contributi. Proprio in questo tempo la nonviolenza ha il suo preciso posto nell'indicare una svolta decisiva e nell'inserire il fatto nuovo. Che non si veda un altro impero romano e un altro impero barbarico, e sempre oppressioni e rivolte, nascere e uccidere e morire, e l'uomo dolorante e illusoriamente lieto, perché ancora non ha imparato a fondo quanto dinamismo rinnovatore hanno l'interiorità, la libertà, l'amore. Proprio appassionandoci per l'esistenza degli esseri viventi, rispettandoli più che si può, e dolendoci della loro morte, noi impariamo a sentire immortali i morti e uniti all'intima presenza.
Chi è nonviolento è portato ad avere simpatia particolare con le vittime della realtà attuale, i colpiti dalle ingiustizie, dalle malattie, dalla morte, gli umiliati, gli offesi, gli storpiati, i miti e i silenziosi, e perciò tende a compensare queste persone ed esseri (anche il gatto malato e sfuggito) con maggiore attenzione e affetto, contro la falsa armonia del mondo ottenuta buttando via le vittime.
La nonviolenza è impegnata a parlare apertamente su ciò che è male, costi quello che costi, non cedendo mai su questa libertà, e rivendicandola per tutti; e a non associarsi mai a compiere ciò che ritiene il male. Contro imperialismo, tirannia, sfruttamento, invasione, il metodo della nonviolenza è di non collaborare al male; e di creare difficoltà all'esplicazione di quei modi, senza sospendere mai l'amore per le singole persone, anche autrici di quei mali, ma non esaurentisi in essi; così si riconosce di avere un alleato alla solidarietà che si stabilisce tra gli oppressi, nell'intimo stesso degli oppressori.
Chi è persuaso della nonviolenza tende alla comunità aperta, e perciò a mettere in comune il più largamente le sue iniziative di lavoro, la proprietà, non sfruttatrice, che egli possiede, la cultura (partecipando e celebrando i valori culturali con altre persone), la libertà (favorendola con altri in assemblee nonviolente per il controllo e lo sviluppo amministrativo della vita).
(Principi elaborati per il Centro di Perugia per la Nonviolenza costituito nel 1952)


La nonviolenza nella prospettiva individuale e in quella sociale

La nonviolenza è lotta
Agli uomini usciti dalle guerre, agli animi che sentono il peso di un'immensa stanchezza e il bisogno di un riposo che talvolta è perfino sogno di annullamento e più spesso è idoleggiamento di uno stato lento, comodo, col gusto di piaceri che non vengano tolti; prospettare l'idea e le conseguenze della nonviolenza produce un urto doloroso; ed essi domandano tra stizziti e allarmati: "ma è cosi difficile ricomporre una vita tranquilla, una casa, un orario giornaliero, e la fruizione dei beni della terra; e bisogna invece affrontare un problema cosi sconcertante e paradossale? Noi vogliamo la pace, l'umanità vuole, merita la pace".
Penso che questa gente abbia una sensazione esatta. È un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimoni e figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna ammaccatura nel proprio corpo.
La nonviolenza non è l'antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch'essa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata.
La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa. La nonviolenza fa bene a non promettere nulla del mondo, tranne la croce. E quegli uomini che dicevo prima non vogliono la croce: disfatti o disorientati preferirebbero ritagliarsi una parte anonima della vita, con uno stipendio immancabile, e frequenti "bicchierini" per tirare avanti. Gli uomini, la civiltà infine del "bicchierino" per reggere; e il bicchierino può essere liquore, fumo, vincita di lotteria, vita sensuale, un appoggio insomma che ci sia realmente, un qualche cosa di sensibile, che dica all'uomo attraverso un piacere: tu sei.
Questi uomini furono ingannati perfettamente dal fascismo, il quale di rado era scomodo, ma nell'insieme ordinato e piacevole; e quando divenne pieno di punte problematiche quegli uomini gli si ribellarono contro con una sincerità tale come se gli fossero stati avversi dall'inizio.
Per scoprire l'inganno del fascismo sarebbe bisognato non prendere l'ordine per cosa assoluta; e per reagire sarebbe bisognato non prendere per cosa assoluta il comodo proprio e circostante.
I regimi politici che assicurano comunque un ordine trovano sempre moltissimi che li accettano, senza badare se l'ordine esterno non è tradito potenzialmente da una mentalità sopraffattrice e avventuriera.
Si diceva durante il fascismo: "Nel '21 c'era il disordine, scioperi, i treni non partivano; il fascismo ha stabilito l'ordine, la concordia tra capitale e lavoro". E si diceva cosa insulsa; perché il fascismo non risolse i problemi del dopoguerra, quelli che generavano il "disordine"; e se delle due fazioni avesse invece trionfato la socialista, avrebbe essa stabilito il suo ordine; e allora è da discutere sull'essenza, sulla qualificazione dell'ordine: ordine fascista o ordine socialista? Che cosa fosse l'ordine fascista si poteva intrinsecamente già vedere con l'occhio alla sua sostanza morale; ma si vide nel fatto: partirono, sì, i treni, ma sono partite poi anche le stazioni.

La nonviolenza non è appoggio all'ingiustizia
Ma oltre l'equivoco della nonviolenza come pace, io vorrei chiarire e dissipare un altro equivoco, che è ancor più insinuante e pericoloso.
Nella lotta politica e sociale, necessaria in una società di ingiustizia e di privilegi, la nonviolenza fa tirare un sospiro di sollievo ai tiranni di ogni specie; e questo sospiro di sollievo è per noi oltremodo tormentoso.
Se la nonviolenza dovesse essere interpretata, o comunque risolversi in un'acquiescenza all'ingiustizia, a quella violenza di secoli cristallizzata in potere e in privilegi decorati ora di una apparente legittimità, non ci sarebbe una più tentatrice sollecitazione a metterla in dubbio ed abbandonarla.
La nonviolenza non è soltanto rifiuto della violenza attuale, ma è diffidenza contro il risultato ingiusto di una violenza passata. Di quanto più di violenza è carico un regime capitalistico o tirannico, tanto più il nonviolento entra in stato di diffidenza verso di esso.
Bisogna aver ben chiaro che la nonviolenza non colloca dalla parte dei conservatori e dei carabinieri, ma proprio dalla parte dei propagatori di una società migliore, portando qui il suo metodo e la sua realtà. Il nonviolento che si fa cortigiano è disgustoso: migliore è allora il tirannicida, Armodio, Aristogitone, Bruto. Due grandi nonviolenti come Gesù Cristo e San Francesco si collocarono dalla parte degli umiliati e degli offesi. La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata.

La nonviolenza è attiva e modesta
Perciò, e cosi chiariamo il terzo equivoco, la nonviolenza è attivissima.
La nonviolenza è prova di sovrabbondanza interiore, per cui all'uso della violenza che sarebbe ovvio, naturale, possibilissimo, viene sostituita, per ulteriore ricerca e sforzo, la nonviolenza.
Sarebbe anche qui falsificazione intendere il nonviolento come un pedante occupato esclusivamente a torcere il volto davanti ad ogni menomo atto violento, senza addentrarsi nella vita e nei suoi motivi. Tra il nonviolento inerte e il soldato che si esercita faticosamente ed arrischia, la possibilità di un valore morale è più nel secondo che nel primo.
Il nonviolento deve essere attivissimo sia per conoscere le ragioni della violenza, per individuare la violenza implicita che si ammanta di legalità e smascherarla impavidamente; sia per supplire all'efficacia dei mezzi violenti con il moltipllcarsi dei mezzi nonviolenti, facendo come le bestie piccole che sono più prolifiche (e anche sopravvivono alle specie delle bestie grandi); sia per vincere l'accusa e il pericolo intimo che la nonviolenza venga scelta perché meno faticosa e meno rischiosa: il nonviolento deve portarsi alla punta di ogni azione, di ogni causa giusta, appunto per curare il proprio sentimento che potrebbe stagnare e per farsi perdonare dalla società la propria singolarità. È noto che gli obbiettori di coscienza (cioè coloro che non hanno voluto collaborare alla coscrizione) sono stati uccisi a migliaia dai governi totalitari; e dove sono stati tollerati, hanno chiesto spesso servizi rischiosi e dolorosi, per esempio di sottoporsi agli esperimenti medici o di raccogliere i feriti nelle prime linee.
E infine sarà opportuno chiarire anche un quarto equivoco, che cioè il nonviolento pretenda essere superiore per il suo atto di nonviolenza.
Non è l'atto di nonviolenza per se stesso, ma tutto ciò che sta con esso e all'origine di esso, che può costituire un valore.
L'animo, l'intenzione, l'amore, gli sforzi fatti, quanto di proprio sacrificio ci sia stato messo: qui è il valore sia dell'atto di violenza che dell'atto di nonviolenza. È evidentissimo che tra colui che per evitare l'uccisione di un bambino si slanciasse con l'arma in mano a difenderlo a rischio di essere ucciso egli stesso, e il nonviolento che se ne stesse ben lontano e inerte, avrebbe maggior valore il primo, quando il secondo non si fosse gettato tra l'uccisore e il bambino a persuadere ed anche a offrire il suo corpo, avanti a quello del bambino, al colpo mortale.

Concetti e modi della nonviolenza
Chiariti e dissolti questi equivoci, sarà bene ora prender contatto con il concetto stesso della nonviolenza.
Violenza è un concetto relativo all'oggetto sul quale si esercita una certa azione. Quanto meno io considero quell'oggetto in ciò che esso è per se stesso, tanto più mi avvio alla violenza contro di esso.
La nonviolenza è una presa di contatto col mondo circostante nella sua varietà di cose, di esseri subumani, e di esseri umani, è un destarsi di attenzione alle singole individualità di tutti questi oggetti circostanti per porsi un problema: "che cosa è questo singolo oggetto? qual è la sua caratteristica, la sua vita, la sua libertà, il suo formarsi dal di dentro?".
È la sospensione dell'attivismo che consideri tutto, senza eccezione, come mezzo, fino a quei casi tipici che sono come il lusso e il gioco di questo attivismo, come l'incendio di Roma da parte di Nerone per vederne la bellezza, o il letto su cui il brigante greco Procuste stendeva i suoi prigionieri stirandoli o stroncandoli secondo che fossero più corti o più lunghi. Sospensione di attivismo che è attivissima moltiplicazione d'attenzione, d'interesse, di affetto, potenziamento della vita interiore proprio mediante questo collegamento in atto di tutto il reale nelle sue innumerevoli individuazioni con l'intimo nostro.
Ma questo non è che un punto di partenza, perché di qui comincia un movimento, una tensione.
Ad una parte degli oggetti assegno un compito di collaborazione, prendendo interamente su di me la definizione del fine del lavoro con cui essi collaborano; e questi oggetti chiamo cose.
Nei riguardi delle "cose" io non mi pongo altro dovere che di adoperarle bene, di chiamarle a collaborare ad atti di cui assumo la responsabilità; e la malvagità sta non nell'usare l'acqua per un bagno, ma se nel bagno affogo il bambino, invece di lavarlo semplicemente, buttando l'acqua ad altro destino. Per il carbone fossile stare nell'interno della terra o muovere una locomotiva può essere indifferente, come per la pietra che sta nel monte, in un monumento o come polvere sulle strade.
Può darsi che un giorno il nostro occhio scopra altro e diventi possibile ridurre il campo delle cose, stabilendo con alcune di esse un rapporto di collaborazione meno imperioso e meno antropocentrico: è un problema questo non vano, e di un orizzonte vastissimo, schiuso proprio dal principio della nonviolenza, che è inquietudine continua, passione mai saziata di interesse per le individualità.
Vi è poi il gruppo di esseri subumani. E c'è come un gruppo di passaggio in tutti quegli esseri di minima vita, microrganismi e microbi, rispetto ai quali non possiamo fare che una valutazione di "cose" sempre però con quella speranza e quel problema, che nuove indagini e nuove intuizioni permettano una collaborazione migliore: chissà, per esempio, che non si riesca a trovare il modo di volgere a benefica l'azione malefica di molti microbi.
Ma quando incontriamo vite più sviluppate, individualità con cui è possibile stabilire un rapporto complesso, qui sentiamo la gioia di salvarci con più ragione dalla considerazione di "cose". Ciò non toglie che ci si possa interessare a cose minime, rispettarle nel loro essere; che io possa appassionarmi all'individualità di quella farfalla che ho visto nel boschetto e che vivrà oramai una settimana, di quel filo d'erba, di quel sasso. Questo prova che la nonviolenza, essendo unità-amore è espressione nostra, è collocazione e scelta volontaria, non un dogma; e ognuno può a sua ispirazione (Spiritus ubi vult spirat) dirigerla. San Francesco voleva che l'ortolano non lavorasse tutto l'orto, ma ne lasciasse una parte dove le così dette erbacce potessero crescere liberamente, perché per lui la spontaneità di quel crescere, la bellezza di quelle erbe, e che esse attestassero e lodassero Dio, era la stessa cosa. E cosi egli preferiva che l'albero si tagliasse lasciandogli la radice e la possibilità di crescere nuovamente.
Noi possiamo su tutta la scala degli esseri non umani istituire a noi stessi delle direttive, che anche se non sempre attuate, provano che in noi vive un problema, una passione, una direzione.
Preferire, per esempio, di regalare piante intere piuttosto che fiori, rinunciare alla caccia, adoperarsi per addomesticare bestie selvagge.
Il vegetarianesimo, per esempio, è una cospicua scelta che viene fatta nel campo degli esseri subumani. Si decide di rinunciare al cibo che comporti uccisione di animali; e con ciò stesso muta il nostro modo di avvicinarsi ad essi, il nostro modo di considerarli; si accetta sorridendo ma con fermezza l'apparente stranezza che galline e pecore, dopo averci dato uova e lana, "muoiano di vecchiaia": si amplia, al posto della violenza spietata alle sofferenze e all'uccisione, quel piano di collaborazione in cui consiste l'incremento della civiltà.
Questa "sospensione" introdotta nella leggerezza sterminatrice e nella freddezza utilitaria si riflette in accrescimento di valore interiore. Ma c'è di più e forse di meglio. Io debbo confessare che, pur avendo un notevole interesse all'esistenza degli animali, mi decisi al vegetarianesimo nel 1932, quando, nell'opposizione al fascismo, mi convinsi che l'esitazione ad uccidere animali, avrebbe fatto risaltare ancor meglio l'importanza del rispetto dell'esistenza umana.
Consideriamo, dunque, la nonviolenza in questi gradi anteriori come un addestramento che ha due atteggiamenti, quello di considerare ciò che è altro da noi come "cosa" ma con l'impegno a servirsene per un fine degno e alto; e l'atteggiamento di considerarlo come "esistente", rispettato e amato perciò come tale.
Due atteggiamenti, come ho detto, non rigidi, ma in dialettica, in travaglio, e appunto perciò prova della vitalità interiore di un appassionamento. Ma sia come un prologo al mondo umano. Noi sappiamo che tutte le volte che in pedagogia ci si è posti il problema del più basso, di ciò che è infimo, si è fatto un grande passo: quando si è cercata l'educazione dei deficienti, o dei molto piccoli o dei molto poveri, si sono scoperti sempre metodi che hanno dato risultati prodigiosi applicati agli altri.
E cosi in questo prologo ci siamo posti dei temi: portiamoli ora nel mondo umano, e sentiremo una risonanza grandiosa.
Riguardo ad esseri umani la nonviolenza è l'appello continuo e intenso alla comprensione, alla spontaneità, alla capacità che ha l'altro essere umano di giungere ad una decisione razionale.
Nel campo umano la dedizione a questo appello ha un fondamento più saldo che per ogni altro essere: basta che io pensi che colui che incontro, potrebbe essere mio figlio: nulla di eccezionale in questo sentimento di genitura, per la somiglianza umana che c'è tra noi.
Del resto, io penso che sempre nei riguardi di un essere umano debbo richiamarmi a un punto interno in cui io mi senta madre di lui; che debbo abituarmi a costituire costantemente questo atteggiamento nel mio intimo; che, insomma, almeno per una volta, esaurite e sfogate se si vuole, tutte le altre possibilità, io debbo domandarmi: "ma mi sono anche considerato pur per un istante madre di costui? come agirei se fossi sua madre, certo una madre non stolta, ma pronta a vedere che cosa c'è a favore di lui, a sperare per lui?".
La nonviolenza, porgendo l'appello alla razionalità altrui, è anche un potenziamento del tu, e dell'interesse a che l'altro viva, si svolga, e come un generarlo dall'intimo nostro, una gioia perché l'altro esiste, un appassionamento alla radice. Come noi potremmo avvicinarci all'infinita miseria degli esseri umani, alle loro limitazioni, curare le loro infermità, sopportarli, se non portassimo un infinito compiacimento che l'altro esiste e proprio come essere umano? In questo atto si va oltre lo stato di felicità e infelicità, e si vive il sacro per cui ogni essere che viene alla luce entra in qualche cosa di positivo, di là dalla sua miseria e dalla sua grandezza. Lo spirito lo tocca, e io posso raggiungerlo col mio atto: qui siamo nella presenza religiosa, che è più di ogni limitatezza, deformità, malattia, bruttezza. La nonviolenza mi fa risaltare l'importanza dell'atto col quale mi avvicino ad uno, atto di presenza aperta, superiore alla felicità o infelicità, a ciò che può accadermi o accadergli.
E se io voglio che l'altro sia in un certo modo, il ripudio dei mezzi violenti mi induce ad una tensione interiore perché io anzitutto viva quello che voglio dall'altro, perché io prenda su di me il compito di attuare quel meglio, di portarmi a quel grado, di purificarmi, di sacrificarmi, fino al sacrificio supremo di dare l'atto di nonviolenza al posto dell'atto di violenza, e di trasferire con atto d'amore nell'intimo dell'altro il punto a cui ero giunto. In questa nonviolenza si attua la fede nell'unità di tutti, e nell'efficacia che ciò a cui mi tendo io (o ciò per cui io prego, per dirla nei termini tradizionali) influisce su di un altro, pur lontano, quanto più di sacrificio e di purezza interiore io vi metto.
Sarebbe più agevole che con un mezzo esteriore e violento io agissi sull'altro, ma quanto perderei di interiorità, di qualità!

Attuazione della nonviolenza
Un principio che sta dentro l'atto della nonviolenza è la potente sollecitazione dell'impegno della propria persona.
La radice della nonviolenza sta nell'essere nonviolento, internamente, prima dell'atto rivolto agli altri; e anche questo conferma che la nonviolenza non è un atto puntuale, ma una disposizione, una formazione, un'educazione, un'intenzione, un insieme. Se la nonviolenza è promovimento della tua razionalità, della tua bontà, della tua spiritualità superiore, bisogna che io anzitutto mi tenda alla mansuetudine e alla ragionevolezza. Non si può insegnare la nonviolenza con l'odio e le fucilate. Se io voglio che tu agisca da persuaso interiormente, bisogna che io prima sia in tutto persuaso e non retore. Se io voglio che nel mondo ci sia qualche cosa, e in questo caso, un atto di unità-amore insistente fino anche al sacrificio, se non ci metti tu questo atto, o ancora non ce lo metti, ce lo metto io.
Quanto ai modi dell'attuazione della nonviolenza io vorrei sottrarli a quella casistica che sorge per ogni proposito di azione, e anche per questo.
Tutti quelli che hanno esperienza di questo proposito, hanno anche esperienza di una lunga discussione con se stessi e con gli altri sui casi, sui modi. Più di quindici anni di questa esperienza mi hanno confermato che è lo spirito che conta, ed è l'approfondimento di questo che fa progredire la civiltà.
C'è una scala di attuazione, una scelta, una creazione; non è un dogma e un ordine di chissà chi: la nonviolenza è una creazione che uno attua. Ci può essere un'attuazione così meticolosa da far sorridere; e non c'è nulla di male. Una civiltà che consuma tanto suo tempo in mille cose futili e fatue, può ben consumarlo in questo campo. C'è un eccesso e un ridicolo che è in funzione del sublime. Un discepolo di San Francesco aveva spinto così oltre il precetto dell'imitazione della santità, che ripeteva ogni atto che vedesse fare al Santo, perfino sputare. E San Francesco ne sorrideva. Tutti sappiamo che vi sono diverse interpretazioni e attuazioni della nonviolenza, fino a quella che non si può parlare di "violenza" quando si colpisce per diritto e a giusta ragione. Io qui esporrò l'interpretazione che risulta dalla mia esperienza.
Considererei come un grande dolore se nel momento della morte di un qualsiasi essere umano io non desiderassi con tutte le mie forze che quella morte non avvenisse.
Non posso accettare come veramente mio il mondo dove le persone cadono come oggetti, ma quello dove tutti sono soggetti, vivono, si svolgono. Se non sentissi sempre questo, se avessi fatto qualche eccezione a questo, oggi dovrei moltiplicare la mia tensione per riparare al passato.
E realmente io debbo riparare al passato, che oltre che mio, è di tutte le civiltà trascorse; e, istruito da questa insufficienza, oggi non sono tanto disposto a farmi sorprendere dall'indifferenza, e sto attento perché non perda questa passione fondamentale ad ogni momento in cui la morte si manifesta in questa realtà.
Perciò è inutile che io raccolga armi vicino a me e mi addestri ad usarle, se so già quale sarebbe la mia posizione domani. Da questo si riflette uno stimolo ad atteggiare il mio fare in modo che senta di non poter far conto su mezzi violenti, e che a mia disposizione non c'è che il prestigio dell'esempio, l'intima trasparenza, la razionalità della persuasione, la forza dell'anima. Potrò, a parte il ripudio della uccisione, ricorrere a dei mezzi che diminuiscano l'effetto della violenza dell'altro, specialmente se in uno stato di furia; ma sempre tali che non lo mettano in uno stato di tortura nè in uno stravolgimento della sua possibilità di razionalità.
L'importante è che in quel momento io mi immedesimi col problema dell'altro, e della sua formazione verso la libertà, la razionalità, la bontà; e che, assicurate queste dalla parte mia, mi rifiuti ai mezzi che la turbino nell'altro. La tortura, cioè che io provochi in te il dolore per ottenere qualche cosa da te, che senza la tortura mi rifiuteresti, non è per me giustificata da nulla, perché io non voglio mai provocare il dolore, ma riparare al dolore: essere non al punto in cui si causa il dolore (che è questa realtà e il mondo della limitatezza), ma al punto in cui si supera il dolore, che è la realtà autentica, il mondo del valore. Se questo mondo è la mia croce, ma io sono più del mondo, sono dall'infinito. Come davanti alla morte, cosi davanti alla sofferenza di un altro, ho la passione di essere non dalla parte del mondo ma del sopramondo eterno che qui si apre, non dalla materia ma dalla forma, non dall'esteriorità ma dall'interiorità, non con un Dio che batte, ma con un Dio che porta nel valore dell'amore che sempre si accresce, e che, come la libertà, non esiste, se non si fa ancora più amore, ancora più libertà.

La nonviolenza e la società
A questo punto, dopo aver guardato la cosa dall'individuo, bisogna guardarla dalla società; altrimenti mi si potrebbe dire che tutto quello che ho detto è "prima della nascita della società, dello Stato". L'obbiezione più formidabile è questa: "non faccio questione di me come singolo, della mia difesa, della mia esistenza, ma della società, del suo ordine, della norma che io debbo sostenere e contribuire a tener viva, per cui non è lecito che uno si serva della violenza: come potrò far questo senza l'uso della forza? come potrà avvenir questo se il cittadino manca al suo dovere di riconoscere la necessità dell'uso della forza in qualche caso? Una società non ha connessione senza l'uso parco e regolato della forza".
Qui debbo richiamare quel carattere drammatico della nonviolenza del quale ho parlato all'inizio. Ho già detto che per intendere la nonviolenza bisogna lasciar di guardare l'ordine, la compostezza, la pace: bisogna, invece, prender sù risolutamente una responsabilità, che può essere anche in mezzo all'avversione e al biasimo; è una scelta severa e tremenda. La nonviolenza non è per conservare alcuna cosa di questo mondo, sia dell'individuo o della società: non il piacere, il comodo, la casa, il letto, la roba, la vita, le cose fatte, costruite, l'ordine sociale, la regolarità dei servizi pubblici, l'esistenza dei cari, degl'innocenti. Non è un accrescimento di sicurezza che tutte queste cose permangano; anzi è una rinuncia interiore a questa sicurezza; è in potenza la morte di tutto questo. È la possibilità di perdere tutto ciò che è nel mondo, il Memento mori, non immaginazione oziosa, ma legato a un impegno, a un'azione.
Perché nello stesso tempo la nonviolenza afferma un valore; ed è dunque atto, resurrezione. La società col suo ordine, la vita con i suoi oggetti, non possono costituire quell'assoluto che si imponga indiscutibile e tolga la possibilità di un contributo, di un'iniziativa. Siamo davanti, in questo tempo, ad una società impiantata così che vorrei chiamarla "la società dei pubblici servizi", una società pratica, del tempo dell'attivismo, del tempo dei molti aspetti del vivere, delle varie cose. I pubblici servizi esigono una difesa di essi con tutti i mezzi; e questo non è la società come concetto eterno: non è che un tipo della società della vita, corrisponde a una scelta che l'uomo di oggi fa: il che non esclude che si possa fare un'altra scelta, presentare un altro tipo. Il significato religioso della nonviolenza sta proprio nel preparare un altro tipo, un'altra realtà. È evidente che se si volesse configurare la società non con la trama interna della difesa dei pubblici servizi, ma con la trama interna della celebrazione di atti di infinito tu alle persone, tutta la prospettiva muterebbe. La società romana aveva per trama la tutela dei diritti del civis, la società cristiana aveva per trama la fruizione dei carismi divini.
La società non è un qualche cosa di staccato da me. E perciò come io, in quanto individuo, ho il dovere di interiorizzarla e di rendermi conto delle sue ragioni, ho anche il diritto di andare eventualmente oltre di essa. Non quando io fossi ribelle, disordinato, ex lege, per natura; ma se seguo le leggi che ritengo giuste, se attuo ciò che è ordine, se continuamente utilizzo l'esperienza tradizionale della società, posso bene, quando sia in gioco un valore, quando nel resto della mia vita sia solito a stare in guardia contro il gusto personale e l'originalità di proposito, innovare, prendere un'iniziativa, dare un contributo, e in questo caso sentire, vivere, e far vivere, che la vera società è oltre quella dell'ordine sociale, della difesa dei diritti, del mantenimento dei pubblici servizi; ma è oltre, nel regno degli spiriti, cioè dei soggetti, cioè dell'amore da instaurare subito a costo di sacrifici. Accanto ad una società che usa la guerra come via alla pace, la violenza come via all'amore, la dittatura come via alla libertà, la religione mi porta ad anticipare di colpo il fine nel mezzo; e ad attuare comunque, qui e subito, pace, amore, libertà. La religione è impazienza dell'attendere il fine; e oggi che l'universo, il tempo, lo spazio, non sono sentiti in dualismo stabile con l'infinito e l'eterno, porremo noi questo dualismo nella società tra il mezzo e il fine?

Il limite del realismo
Se si ostenta la natura umana nel suo fondo utilitario e violento, nelle sue forze brute, che vanno continuamente represse e indirizzate, ma che sono insopprimibili, la persuasione della nonviolenza non nega senz'altro questo, non chiude gli occhi come lo struzzo per non vedere il nemico; e riconosce che la situazione è drammatica, quasi sempre drammatica, e ne accetta le conseguenze. Però porta con sè una fede, che ha tanta conferma nella attuale concezione della realtà fisica; la fede che tutto ciò che è un dato non è un continuum senza interruzione, ma è come a respiri con intervalli, nei quali è possibile inserire altro. Con quale certezza possiamo noi dire che quella cosa è sempre cosi? Questa sospensione della continuità si può applicare alla politica, per cui viene a risultare insufficiente e quasi ingenuo, quel certo realismo di tipo machiavellico che non tiene conto degli intervalli in cui è possibile far agire forze d'altra provenienza: quel realismo è una specie di imitazione della natura in ritardo. E così per quella natura che è la psiche, alla quale si vorrebbe applicare solidità e costanza invece di un ritmo di respiri e di tentativi con intervalli e possibilità di inserzione di temi e forze e prospettive diverse. La nonviolenza è fede in questa possibilità di intromissione miracolosa e rinnovatrice, per lo meno a suggerire e far rivivere una certa realtà diversa.
Accettiamo che la civiltà culmini nel culto attivo dei valori, e che le forme della civiltà siano insufficienti quando sono principalmente amministrative, giuridiche, diffonditrici più che produttrici di valori. Ma se la nonviolenza è nella sua radice, nella sua intenzione, nella zolla che la sostiene, un valore, ha ben il diritto di chiedere che la civiltà attuale si allarghi a comprenderlo. Quando si segue un valore si scopre sempre qualche cosa, una realtà anche maggiore della cercata, come Colombo che ritrovò non le Indie, ma scoprì un nuovo continente. Lo so, si può perdere tutto; ma si può approfondire la conferma che la vita da un punto di vista religioso è eterna presenza aperta nel mondo, quanto più vivendo dall'intimo i valori e la loro pace, tanto più incontrando asprezze, disagi nelle cose e nel corpo, colpi simili alla morte. Non per pochi aspetti la civiltà attuale sembra perdere il senso della distinzione tra il valore, che è fine, e il resto, che è mezzo; e conquista e difende quelli che sarebbero semplici mezzi come se essi fossero valori. Si mette, certe volte, tutto nella conquista e nella difesa, e si tratta anche di cose fatue; tanto più è importante stabilire una prospettiva, e mostrare che si è capaci, per un valore, di perdere tutto il resto.
Mostrare, ho detto intendendo: non soltanto agli altri, ma a se stessi, perché anzitutto la nonviolenza ha un carattere di edificazione interiore.
Ciò non è contro il principio dell'estensione della razionalità. Si può e si deve accettare che la razionalità nell'uomo e nella società si estenda sempre, e che l'uomo si faccia sempre più autonomo, e la società sempre più democratica. Ma ad un tratto potrebbe avvenire, e avviene, che si sospende la razionalità e la democrazia con un atto di violenza. Il metodo religioso, invece, contrappone l'atto e l'esempio di nonviolenza, aggiunto ad arricchire la razionalità e la democrazia. Rendiamo la società sempre più democratica promovendo la razionalità, l'autogoverno, lo scambio razionale, il controllo e lo sviluppo etico, civile, economico di tutti; e in questa società aggiungiamo persone o gruppi che costituiscano centri religiosi.
Tutti quelli che hanno parlato di nonviolenza nella esperienza etico-religiosa di millenni hanno sentito più o meno consapevolmente che la vita offre difficoltà e fatiche, che ogni giorno ha la sua pena, e che se ci si vive dentro semplicemente lottando, ma divisi l'uno dall'altro, non basta; che se invece si attua anche una intima e superiore unità, di apertura sincera, di aiuto incondizionato, di sostituzione, tra noi, del bene al posto del male, allora la realtà della lotta con le asprezze può essere sostenuta, integrata, superata. E alle reazioni moderne alla nonviolenza, reazioni, per esempio, del Marx e del Sorel in nome dello sviluppo sociale, noi diciamo: ebbene, permetteteci di vedere questo flusso storico da un intimo, di aggiungere questa presenza.
(Da Il problema religioso attuale, 1948)

Carattere della nonviolenza
Della nonviolenza si può dare una definizione molto semplice: essa è la scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani.
Perché questa scelta? Per amore: ecco, vediamo subito che si tratta di una cosa positiva, appassionata. Ma è l'amore che non si ferma a due, tre esseri, dieci, mille (i propri genitori, i figli, il cane di casa, i concittadini, ecc.); è amore aperto, cioè pronto ad amare altri e nuovi esseri, o ad amare meglio e più profondamente gli esseri già conosciuti. E qui si capisce uno dei caratteri essenziali della nonviolenza bene intesa: essa non è mai perfetta e non finisce mai, appunto perché è una cosa dell'anima; è un valore, è come la musica, la poesia, e si può sempre fare nuova musica, nuova poesia; e la vecchia musica, la vecchia poesia, possono essere vissute più profondamente.
Il paragone con la musica ci fa comprendere anche un'altra cosa: come nessuno può desiderare di ascoltare e comporre la "musica ", tutta la Musica; ma desidera ascoltare e comporre "delle musiche particolari e concrete"; cosi nessuno abbraccia l'astratta "Nonviolenza", ma compie atti particolari di nonviolenza, in situazioni concrete. La nonviolenza è, dunque, dire un tu ad un essere concreto e individuato; è avere interessamento, attenzione, rispetto, affetto per lui; è avere gioia che esso esista, che sia nato, e se non fosse nato, noi gli daremmo la nascita: assumiamo su di noi l'atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come madri.
Nell'agire secondo la nonviolenza ha grande rilievo non uccidere, non dare la morte. Si potrebbe obbiettare: quella persona morrà ugualmente, prima o poi. Rispondiamo che anzitutto c'è una grande differenza; e noi stiamo parlando con serietà, per cui l'atto nostro ha il suo valore non nel fatto, ma nel proposito. È ben diverso che io uccida mia madre e che essa muoia assistita amorevolmente da me. Sono non solo due modi di vivere diversi, ma due mondi. Inoltre: chi ci dice che la morte sia un fatto costante, ineliminabile? Abbiamo tentato di non dare la morte nè col pensiero nè con l'atto, per vedere se la realtà ci seguisse? Che ragione abbiamo noi di rimproverare la realtà che dà dolore e morte, se diamo dolore e morte? Sicché chi non dà la morte, produce due cose: in sè, tanto è l'appassionamento all'esistenza delle persone, il senso della loro presenza anche se muoiono; e nella realtà introduce un'iniziativa che la può trasformare.
Proprio l'amore per le persone, fino al rispetto della loro esistenza e fin sull'orlo della morte, prende su di sè la presenza di quelle persone, quando è amore non per uno, due, dieci, ma aperto a tutti. Il nostro agire innocente sente che quelle persone, se muoiono, restano unite all'intima presenza; mentre l'omicida, soltanto se si pente amorevolmente, ritrova in sè la presenza della persona uccisa; altrimenti sente il vuoto intorno a sè.
Con la nonviolenza, dunque, s'impara concretamente che i modi di manifestarsi attuali della realtà (tra cui la separazione, il dolore, la morte) non sono permanenti, ma possono trasformarsi in meglio; è una prova che vale la pena di tentare, e perciò la nonviolenza è appello al mondo per una grande mobilitazione dell'unità amore, con la fede nella trasformazione della realtà stessa.
È perciò un errore credere che la nonviolenza si collochi nel mondo lasciandolo com'è; più si pensa alla nonviolenza e si cerca di attuarla, più si vede che essa ha un dinamismo tale che non può accettare il mondo com'è, ma essa porta tutto verso una trasformazione: l'umanità, la società, la realtà. Come strumento di conservazione del mondo, la nonviolenza è discutibile; come strumento di trasformazione in meglio, essa ha un valore inesauribile, appunto perché non fa modificazioni e spostamenti in superficie, ma va nel profondo, al punto centrale.
E un altro e simile errore è credere che la nonviolenza sia contro le violenze attuali, ma accetti quelle passate, dell'umanità, della società, della realtà. Se fosse così la nonviolenza sarebbe conservatrice e accetterebbe il fatto compiuto, le prepotenze avvenute, le oppressioni, le monarchie, gli sfruttamenti. La vera nonviolenza non accetta nemmeno le violenze passate, e perciò non approva l'umanità, la società, la realtà, come sono ora. Non accetta la realtà dove il pesce grande mangia il pesce piccolo; e perciò cerca di stabilire unità amore anche verso gli animali, appunto per iniziare il bene; non accetta che i viventi prendano il posto dei morti, e perciò tende a soccorrere i deboli, gli stroncati; non accetta il potere e la ricchezza privata, e perciò tende a costituire forme di federalismo nonviolento dal basso e forme di aiuto e reciprocità sociale e fruizione comune di beni sempre più larghe. Essa ha come guida instancabile la presenza di tutti, e il principio che ogni singolo essere è insostituibile.
Perciò essa tende a ridurre ed eliminare gli schemi generici e impersonali.
Noi viviamo troppo di questi schemi, e molte volte non ci curiamo d'altro; ma non esistono gli schemi (gli amici, i nemici, i malati, gl'italiani, i religiosi, gli autisti, ecc.); esistono i singoli individui, e la vita fondamentale è quella che li considera nella loro singolarità insostituibile. Noi usiamo lo schema, per esempio se cerchiamo un autista, e poi un altro autista, un librario ecc. Ma il progresso è proprio nel ridurre questo uso di schemi. La guerra invece è il mostro più immane di questo uso di schemi, che divora le singole individualità: non ci sono che i nostri e i nemici; è perciò sommamente diseducatrice.
Ci avviciniamo cosi ad alcuni punti problematici della nonviolenza. Che cosa succede nella società così com'è ora costituita? La risposta deve richiamare a quello che già si è detto: la nonviolenza non può mettersi nel mondo com'è, e lasciarlo tale e quale; la nonviolenza è lotta (contro se stessi, le proprie tendenze. i propri sogni di quiete), è dramma tormentoso, è spinta a scegliere ciò a cui uno tiene di più, a fare una prospettiva; e se uno continua a vedere la vita come la vedono tutti, trova assurda la nonviolenza; poi vengono le disgrazie e la morte, e uno non ci capisce nulla. Invece la nonviolenza fa una prospettiva che dà una preparazione religiosa per tutte le disgrazie e la morte: l'unità amore con le persone, come singole e come eternamente presenti, l'unità amore che si perde di sentirla se noi compiamo atti di violenza e di distruzione delle persone. Tenuto fermo questo senso di eterno, esso si allarga a comprendere tutto ciò che di bello, di buono viene creato, ed uno si sente in un mondo più vero di quello apparente nel tempo e transeunte. Ora, in una società se io sto inerte, sono colpevole. Ma se io, pur essendo per la nonviolenza, sono attivissimo, e con quella scelta e quella fede la vivo e la concreto e la diffondo con il mio costume, sono a posto verso la società. Nella quale perciò saranno due gruppi di persone: quelle che useranno eventualmente la violenza, e quelle che non la useranno, ma esplicheranno una intensa attività.
Ci siamo cosi preparati per affrontare una delle obbiezioni più insistenti; se usiamo la nonviolenza, trionfano i cattivi. Rispondiamo che, anzitutto, l'uso della violenza non ci dà sufficiente garanzia che trionfino i buoni, perché l'uso della violenza con efficacia richiede che si facciano tanti compromessi e tanti addestramenti che si perde una parte di quella bontà, di quella elevatezza; e questo si vede dopo le guerre, quando c'è un diffuso trionfo di violenti, e ci vuole l'azione di nuclei puri per cercare di guarire (ecco la fortuna di idee religiose in ogni dopoguerra). Ora, gli uomini non hanno bisogno soltanto di ordine nella società, ma che ci siano vette alte e pure. Se per tener testa ai cattivi, bisogna prendere tanti dei loro modi, all'ultimo è realmente la cattiveria che vince. La cosa è più evidente se i cattivi posseggono armi potentissime, e noi per avere armi più potenti ancora, mettiamo tutta la nostra forza: alla fine scompare la differenza tra noi e loro, e c'è bisogno che sorga una differenza netta tra chi usa le armi potenti, e chi usa altri modi, con fede che essi trasformano il mondo.
Già queste poche considerazioni mostrano quali modi spirituali più ricchi scaturiscono dalla nonviolenza. E anche in questo essa ha un grande ufficio nel mondo d'oggi, nel quale sembra che tutto si risolva nell'organizzazione sociale. C'è il pericolo di restringere l'orizzonte dello spirito.
L'organizzazione sociale non è che un aspetto, e se noi piegassimo tutto ad essa, perderemmo cose anche più importanti. È certo che Gesù Cristo portò scompiglio, divisioni, altri modi nell'organizzazione sociale; eppure siamo convinti che egli era ben degno di nascere. Forse col Settecento si è accentuata questa tendenza politico-sociologica; ma non bisogna dimenticare che la civiltà vuol dire essenzialmente non ripetizione, ma creazione. Per di più lo sviluppo tecnico ha portato il beneficio di tali comodi e servizi, che uno si è affezionato troppo ad essi; e allora la civiltà perde in serietà confrontata con civiltà passate, che saranno state devote a miti, ma erano più evolute. Bisogna quindi tornare ad una gerarchla o prospettiva di valori; e allora si vedrà che i valori che si difendono o acquistano con la violenza sono inferiori a quelli che si difendono o acquistano con l'attività nonviolenta.
Insieme con questa prospettiva, che si diffonderà a poco a poco negli uomini, specialmente se dovranno subire una nuova guerra, c'è un fatto che appare nuovo. Fino ad ora chi ha attuato la nonviolenza in una parte, per esempio in India, non si è sentito perfettamente unito a chi ha usato la nonviolenza in un'altra parte, perché uno diceva di farlo per una ragione, uno per un'altra; e ci rientravano miti, dogmi diversi. Oggi c'è un'unificazione e noi lavoriamo per questo. E l'unificazione delle ragioni della nonviolenza porta, tra l'altro, che consideriamo violenza e nonviolenza non come un fatto privato e personale, ma internazionale. E perciò puntiamo prima di tutto sul fatto guerra, ci opponiamo alla violenza internazionale.
Una volta c'è stato un pacifismo molto blando, tanto è vero che davanti alla prima guerra mondiale e alla seconda vacillò. Esso credeva di arrivare alla pace molto facilmente attraverso la cultura, la scienza, l'interesse al benessere, il cosmopolitismo delle classi dirigenti. Si è visto poi che non bastavano, e si capisce perché. Non era stato affrontato il lato religioso del rifiuto della violenza, che cioè la violenza si rifiuta in nome dell'amore (e non dello star bene), di una realtà liberata dagli attuali limiti (e non della continuazione di una realtà insufficiente), e con una disposizione al sacrificio, ad essere come il seme del Vangelo che muore per far sorgere la nuova pianta. Il vecchio pacifismo era ottimista e di corta vista, il nuovo è drammatico e di fede nella liberazione dell'uomo-società-realtà dagli attuali limiti.
Perciò anche a proposito dell'attuale mondialismo la nonviolenza dà un'ottima guida. Non si oppone, sia perché c'è tanta gente che in quella forma esprime per ora quello che vuole la nonviolenza, sia perché c'è sempre qualche cosa di educativo in questo dirsi "cittadini del mondo", tanto più in presenza a tanti persistenti nazionalismi, e alquanto torbidi: una prima purificazione può esser quella di dire, "conveniamo insieme tutti nel mondo", vediamo di intenderci, ascoltiamo e parliamo. Là dove la nonviolenza interviene è nei primato da dare; il mondialismo dice: facciamo un'assemblea mondiale e un governo, e un codice, e una polizia mondiale; la nonviolenza dice: persuadiamoci dell'interna ragione dell'unità umana attraverso l'impegno nonviolento, poi vedremo le forme sociali che ne conseguono. Il mondialismo sembra più concreto, ma corre il rischio di mantenere la violenza e di appoggiarsi a un impero vincente, e tutto resta quasi come prima; diminuirà qualche guerra, perché il diritto di farla rimane al centro dell'impero, ma è grave l'inconveniente che se questo governo mondiale fa ingiustizie, non c'è scampo (mentre ora, almeno, si può mutare Stato). Il mondialismo sembra troppo facile accettarlo (e questa facilità dovrebbe rendere attenti). La nonviolenza pone impegni precisi, chiede fede; è difficile, ma va in profondo, si occupa della radice: ha fiducia di trarre da sè e dalla trasformazione che porta nuovi modi anche sociali, diversi dai vecchi del codice, dello Stato, della polizia, della distruzione repressiva.
La nonviolenza, per quello che vede finora, considera ogni rapporto non in senso di autorità, potere, repressione, ma in senso federativo, orizzontale, aperto. Per questo nella società circostante porta un modo diverso che agisce sia direttamente per le persone che coltivano in sè questo senso orizzontale, fraterno (e che ne sono trasformate), sia indirettamente per le persone che ricevono questo nuovo agire nonviolento, purché costante e convinto. Bisogna tener presente questa trasformazione dell'uomo, e allora se si dice che la nonviolenza tende ad un "federalismo nonviolento dal basso", si capisce che non si tratta di un federalismo in cui ognuno resta tale e quale, ma di un federalismo nel quale opera un elemento dinamico, che è la nonviolenza intesa in quel senso aperto.
Da quello che si è detto risulta chiaramente che la nonviolenza tende anche a trasformare le strutture delle comunità, e stabilire rapporti diversi da quelli repressivi. Tuttavia si può osservare che l'azione dell'organo di "polizia" in una comunità è lontana da quegli eccessi di distruzione e di eccitazione psichica e di impersonalità che ci sono per gli eserciti e le guerre: quell'azione è circoscritta, diretta specificamente contro chi porta violenza e con lo scopo più di distogliere dalla tentazione che altro. Naturalmente il nonviolento tende ad altro, e a smobilitare polizie e prigioni, ed ha fiducia che questo sia possibile, perché crede alla superabilità del male e alla attuabilità di migliori rapporti umani; e per intanto compie un'opera instancabile perché la repressione sia umana, non torturatrice, educatrice, non vendicatrice, ma cooperante al bene anche del criminale stesso. Ma si rende anche conto che quello della polizia e della coercizione giudiziaria è l'ultimo strumento a cui una comunità rinuncia, e solo quando ci sia un ampio sviluppo di modi nonviolenti di convivenza. Il nonviolento si dedica a questo, specialmente con l'apertura verso il probabile violento, rimovendo le cause, rafforzando l'unità sociale già nell'intimo.
(Da La nonviolenza, oggi, 1962)

La nonviolenza nei casi personali
Nei rapporti personali (che è il campo dei "casi" e delle critiche nelle discussioni sulla nonviolenza) la persuasione della nonviolenza si manifesta come tendenza generale, come una direttiva che va applicata pazientemente, e con la buona volontà di cercare di evitare l'uso della violenza, e con la lealtà di correggersi se si devia, e di affrontare il dolore conseguente.
Chi si mette su questa linea può errare mille volte, ma fa uno sforzo, apre una via, incide nella realtà abituale e fuga l'inerzia: non merita il rimprovero di chi sta inerte a non tentare nulla. Sì, è vero, è difficile essere nonviolenti integralmente: è più facile rifiutarsi agli eserciti e alle guerre; ma nell'ambito personale e immediato è più difficile purificare dalla violenza i nostri atti, e ci possiamo trovare in situazioni nelle quali spingiamo la difesa fino alla violenza. L'importante è non stancarsi di tendere ad attuarla, vivendola nelle sue profonde ragioni; che cosa fa il musicista, se non tendere a realizzare musica meglio che può? eppure può riuscirgli anche musica non sempre di valore, pura, alta.
Se uno mi assale per colpirmi, che cosa debbo fare? È chiaro che dal punto di vista della nonviolenza io debbo evitare di colpirlo, e tanto più se il mio colpo sarebbe per lui la morte. Se sono capace di tenerlo nella incapacità di colpirmi, cercherò: lo farò con il dolore di esser tirato ad un contrasto con una persona ma posso tentare di farlo, e sappiamo che sono costruibili arnesi con i quali si può senza uccidere e senza ferire, impedire ad uno di colpire. È probabile anche che io possa fare dei tentativi di parlare e di distogliere l'avversario. Certo è che, nel punto estremo, nel quale o muore lui o muoio io, la nonviolenza mi dice quale è la scelta da fare. E tuttavia le circostanze, le ragioni, significano molto se io decidessi diversamente; e con molto dolore dopo, per la tristezza del caso.
Cosi è nelle altre ipotesi tormentose. Per esempio: se uno volesse uccidere un bambino? È molto probabile che vi siano mezzi per immobilizzare chi vuoi compiere quell'atto, e che sia alquanto raro il caso che egli lo possa compiere senza che lo si cerchi di tener fermo e disarmato. In ogni modo, nel caso estremo, si può arrischiare anche la propria vita davanti a quella del bambino. Sarà stimabile chi, in omaggio alla nonviolenza e per tutto ciò che essa significa e produce, non compie la violenza di uccidere l'aggressore. Sarà stimabile anche chi compia questa violenza, con il puro scopo di difesa del bambino. Sarebbe un'impostazione errata del problema dire che non c'è che un modo d'agire; e ogni altro è delittuoso e traditore. L'atto vale per tutta la sua sostanza, e la sostanza della nonviolenza è rispettabile tanto quanto quella della difesa, purché siano entrambe serie e profonde. Del resto, non è detto che tutte le volte che si opera con violenza si riesca ad impedire il misfatto; mentre se ci si desse a diffondere un'educazione alla nonviolenza si agirebbe anche sul sorgere di atti di violenza dove che siano, perché nell'intimo siamo tutti un'unità.
Del resto, la nonviolenza oggi si presenta con un accento straordinario.
Appunto perché la violenza, in atto o potenziale, è salita a un culmine straordinario, la nonviolenza interviene per coordinare i tentativi di decongestione, e la cosa vale bene il sacrificio di qualcuno di noi se sarà offeso ed egli non reagirà con la violenza. Non che il sacrificio di noi, di altri o di cose, sia cercato di proposito; ma il fatto è che si sta non salvando la bianchezza delle proprie mani, ma intervenendo perché l'umanità-società-realtà prendano un nuovo corso, si trasformino. E la trasformazione essenziale, da cui mille altre, è quella di aprirsi ai singoli esseri, elevandoli coralmente, infinitamente, eternamente, ai valori puri. Il non usare violenza verso singole persone è, insieme, simbolo e realtà: volere che i singoli siano presenti e partecipi in eterno; iniziare la realizzazione paradisiaca in terra, che richiede (naturalmente) iniziativa e sacrificio. Quest'aria eccezionale di ora religiosa, di fine di una realtà e di inizio di una realtà migliore, questa luce festiva tocca i sacrifici che la nonviolenza richiede.
Viene talvolta obbiettato che è bene arrestare il violento con altrettanta violenza, proprio per il suo bene, per amore di lui, perché conosca ciò che è giusto, e trovi, fuori di sè, un aiuto di forza per costringere la propria bestialità e cattiveria. Rispondiamo che se fosse sempre cosi, sarebbe realmente già miglior cosa della violenza che trascura la situazione della persona che la riceve. Tuttavia è da notare che l'efficacia di un tal metodo per migliorare gli altri è ben discutibile, e nella realtà il violento si vede vinto da una violenza maggiore, e non impara a trasferirsi su un altro piano. Anzi vede che non c'è che il piano della forza, e che vince chi ne ha di più. È molto male che agli uomini non si porga l'esempio, l'ipotesi, l'insegnamento di tutto un altro modo di comportarsi. E fanno male i sacerdoti ad abdicare, quando abdicano, su questo punto. Inoltre chi usa questa "violenza pedagogico-giuridica", si cristallizza in essa: i romani la usarono, risparmiando i sottomessi e debellando i superbi; ma solo il cristianesimo portò libertà e autentica cittadinanza mondiale, e al posto dell'intenzione pedagogico-giuridica, mise la costruttiva e reale apertura dell'anima. In quel modo, opponendo violenza al violento, si ottiene, se mai, un risultato nel momento; mentre opponendo la nonviolenza e i suoi modi si otterrà un risultato più lontano, ma veramente di qualità migliore.
Non si può sperare che poco dalla persuasione! viene obbiettato.
Ammettiamolo, ma rispondendo: che se non si tenta, non si può dire, e bisogna dunque tentare con cuore intrepido; e poi, il valore della nonviolenza non sta nel persuadere subito di colpo: essa afferma se stessa e stabilisce unità amore, apre una migiore realtà; questo atto viene deposto nell'unità che lega tutti gli esseri; prima o poi darà il suo effetto, anzi esso ha cominciato già a darlo se c'è stato chi ha iniziato.
Ma voi persuaderete i buoni, i già persuasi; mentre i cattivi non vi daranno ascolto; ci vien detto. Noi non crediamo, invece, che le persone siano divisibili in due gruppi netti, ma se, col parlare di nonviolenza, si riuscisse a ritagliare un gruppo di persuasi, meglio cosi, che non, tacendo sulla nonviolenza, avere tutte persone violente. E poi: tante volte si parla di cattivi, e dei peggiori, che si volgono energicamente al bene; ed è vero che spesso i fortemente buoni sono dei mancati briganti: che vuol dir questo? che non dobbiamo guardare a nature fisse, precostituite, predeterminate; ma piuttosto a impulsi, esempi, forze spirituali pure che entrano nel campo della vita delle persone; ed è qui che la nonviolenza può fare più che può.
(Da La nonviolenza, oggi, 1962)

Ragioni della nonviolenza

1. La nonviolenza prende in considerazione il nostro rapporto con gli altri esseri viventi, con la fiducia di renderlo sempre più reciprocamente amichevole, comprensivo, soccorrente, lieto, malgrado le difficoltà che gli altri stessi possono metterci. Questa fiducia non cessa di colpo al confine degli esseri umani e spera anche per gli esseri viventi non umani; ma si rende conto che la storia con la sua spinta vitale ha separato da noi finora questi esseri (animali e piante) in forme di più difficile educazione, trasformazione, liberazione.

2. La nonviolenza è aperta all'esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere. Quando nel Settecento sono stati banditi i principi di libertà, eguaglianza, fratellanza, non è stato fatto tutto. La libertà era più la libertà propria come diritto che la libertà degli altri come dovere; l'eguaglianza era un bel principio, ma si fermava a metà perché restavano i miseri e gli sfruttati; la fratellanza era più quella generica con i lontani che quella difficile, nonviolenta e perdonante verso i vicini.

3. La bellezza della nonviolenza è che essa preferisce non di distruggere gli avversari, ma di lottare con loro in modo nobile e dignitoso, con il metodo nonviolento, che fa bene, prima o poi, a chi lo applica e a chi lo riceve. In fondo è più coraggioso volere vivi e ragionanti gli avversar!, che farli a pezzi.

4. Ma sarebbe errore credere che la nonviolenza consista nel non far nulla, nell'incassare i colpi, le cattiverie e le stupidaggini degli altri. La nonviolenza è sveglia e attiva, e protesta apertamente, anzi cerca i modi non solo per convincere gli autori delle ingiustizie, ma per informare l'opinione pubblica, di cui ha la massima considerazione: la nonviolenza per nessuna ragione crede che si possa sospendere la libertà e la possibilità abbondante di informazione e di critica per tutti, fino all'ultimo essere umano. Anche qui la nonviolenza attua al massimo un principio del Settecento, che la borghesia ha poi alterato a proprio vantaggio: la formazione libera dell'opinione pubblica, comprendente tutti.

5. La nonviolenza può rinnovare veramente la vita interna di un paese, perché nell'insieme di un'opinione pubblica, tutta sveglia e obbiettivamente informata, porta eventuali piani di non collaborazione e perfino, in casi estremi, di disobbedienza civile, che servono a bloccare iniziative autoritarie dall'alto. In Italia un popolo privo di esatta informazione e critica responsabilità fu portato ad uccidere e a morire, e poi al popolo privo del metodo di opposizione nonviolenta fu imposta una dittatura. L'uso del metodo nonviolento avrebbe salvato e trasformato l'Europa, a cominciare dall'Italia e dalla Germania.

6. Trasformare la situazione interna dei paesi vuoi dire anche avere un continuo promovimento di campagne giuste e rinnovatrici, in cose piccole e in cose grandi, e senza portare il terrorismo della guerra civile nelle strade e nelle case. È un metodo nuovo, il tenere attiva una società con il metodo nonviolento, controllando e smascherando, protestando e agitando, sacrificandosi e cosi educando i giovanissimi a cercare coraggiosamente di migliorare le società dal di dentro. Anche qui la nonviolenza salva i giovani, occupandoli bene (rivoluzione permanente).

7. La nonviolenza è strettamente congiunta col punto a cui è giunta la guerra, con la sua attrezzatura tecnica e le armi nucleari. L'esasperazione della ferocia e della vastità distruttiva della guerra, specialmente dopo Hiroshima, ha posto il problema di arrivare a un altro modo di condurre le lotte e la stessa difesa. Come ci si difende alle frontiere da missili che varcano i continenti e in pochi minuti distruggono città, specialmente le industrie, i civili? Si può arrischiare una tale strage e un tale avvelenamento dell'educazione delle generazioni? Dietro e dopo le soluzioni provvisorie dell'equilibrio del terrore, mentre è enorme nel mondo la fabbricazione di armi di tutte le specie e la loro distribuzione anche ai popoli sottosviluppati, la nonviolenza prepara la svolta storica del possesso in tutto il mondo di un metodo di lotta che esclude la distruzione dei nemici, attraverso la non collaborazione con il male, la solidarietà aperta dei giusti. Questo metodo non ha bisogno di armi e perciò di appoggiarsi ad una nazione con industrie capaci di darle, come sono costretti a fare i guerriglieri violenti, che usano anche i vecchi modi del terrorismo tra gli avversari e della tortura dei prigionieri.

8. Il metodo nonviolento esige prima di tutto qualità di coraggio, tenacia, sacrificio, e di non perdere mai l'amore; poi esige un addestramento fisico e psicologico, ma possibile anche per persone di forze modeste. Un metodo in cui un cieco può essere più utile di un gigante. Cosi il metodo nonviolento si rivela come la possibilità di partecipazione attiva, appassionata ed eroica, di persone che non hanno altro che il loro animo e le loro giuste esigenze: la nonviolenza le valorizza, illumina, e rende presenti anche moltitudini di donne, di giovinetti, folle del Terzo Mondo, che entrano nel meglio della civiltà, che è l'apertura amorevole alla liberazione di tutti. E allora perché essere così esclusivi (razzisti) verso altre genti? Oramai non è meglio insegnare, sì, l'affetto per la terra dove si nasce, ma anche tener pronte strutture e mezzi per accogliere fraternamente altri, se si presenta questo fatto? La nonviolenza è un'altra atmosfera per tutte le cose e un'altra attenzione per le persone, e per ciò che possono diventare.

9. Davanti a questa svolta storica in anni e decenni, il prevalere di gruppi violenti per un certo periodo rimane un episodio. L'unica forza che scava loro il terreno è la nonviolenza, ma ci può volere pazienza, tempo, costanza. È vero che un atto di violenza può fronteggiare un altro atto di violenza, ma poi? Nel quadro generale è meglio attuare un altro metodo. Si possono conservare ancora forze coercitive per piccoli fatti, di ordine quotidiano, ma nel più e nell'insieme è il metodo del rapporto nonviolento che va risolto e articolato sempre più. In esso, nel fatto che esso è amorevolezza, approfondimento dell'unità, festa della vicinanza, inizio di una storia nuova con nuovi modi di realizzarsi, sta il compenso per i sacrifici della lotta nonviolenta e per il ritardo delle vittorie.

10. La nonviolenza è la porta da aprire per non sentirsi soli. La nonviolenza cerca sempre di essere con gli altri. E questo è molto importante oggi, perché sta dilagando il bisogno di una democrazia diretta, dal basso, con il controllo di tutti su tutto. Contro i poteri imperiali dei capi degli eserciti e delle industrie che li servono (private o statali), la democrazia diretta costituirà i suoi strumenti con la continua guida della nonviolenza, per smontare la varia violenza dei potenti (violenza burocratica, giudiziaria, nella scuola, nel lavoro, negli enti di assistenza, nella stampa e nella radio), non con assalti sanguinari che non trasformerebbero, ma con la preparazione al controllo serio e aperto.

11. Dire nonviolenza è come dire apertura in tutti i campi, occuparsi degli esseri viventi in modo concreto e aiutarli (che è anche un modo per avere forza in se stessi); tenersi pronti per sostenere cause giuste e meritare il nome di essere perfettamente leale; riconoscere che negli errori degli altri c'è sempre una qualche responsabilità e possibilità attiva per noi; perdonare facilmente al passato nella serietà di impegni migliori per il futuro; invidiare Dio che può conoscere più da vicino tutti gli esseri e aiutarli infinitamente; tendere a costituire comunità di vita con più persone e famiglie in modo che ci sia uno scambio più attivo e un'educazione comune dei piccoli; essere più sensibili ad ogni altro valore pratico e contemplativo (l'onestà, l'umiltà, la musica, ecc.); essere più fermi nella serietà e severità quando occorra (per esempio contro le ingiuste e molli raccomandazioni); cercare di estendere il rispetto della vita quando è possibile (per esempio col vegetarianesimo, ma facendolo bene perché non sia dannoso) e assecondare dalla fanciullezza la zoofilia; utilizzare l'appassionamento universale per la massima valorizzazione degli esseri per arricchire l'attenzione nel tu rivolto a un singolo essere, perché non sia isolato e stagnante; attuare quotidianamente la gentilezza costante, senza ipocrisia e con franchezza; portare in ogni situazione un'aggiunta di ragionevolezza umana e di comprensione reciproca; garantire una riserva di serenità per il fatto che la nonviolenza è qualche cosa di più rispetto alla semplice amministrazione della vita.

12. La nonviolenza non sta in un individuo astratto, ma è da individui a individui in situazioni, strutture, grandi problematiche e urgenti realizzazioni. Un modo in cui si fa presente è, come abbiamo visto, quello del pacifismo integrale. Il che vuol dire non solo il rifiuto di collaborare alla guerra e guerriglia, e a ciò che inevitabilmente le accompagna, il terrorismo contro i civili e la tortura sui prigionieri; ma anche la scelta del disarmo unilaterale, unito all'addestramento all'azione del metodo nonviolento. Perciò la nonviolenza indica il pericolo dell'equilibrio del terrore, durante il quale eserciti e industria alimentano di armi tutto il mondo, da cui conflitti grandi e piccoli; indica gli spegnimenti della democrazia che vengono fatti per allinearsi in grandi blocchi politico-militari; mostra l'immenso consumo di denari nelle spese militari invece che nello sviluppo civile. Le Nazioni Unite, come insieme di sforzi per dominare razionalmente le situazioni difficili e per provocare continuamente la cooperazione, sono sostenibili, anche perché tutte le trasformazioni rivoluzionarie che la nonviolenza porta, sono sempre il fondamento e l'integrazione di quelle decisioni razionali e giuridiche che gli uomini prendono, quando esse