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Premessa

La nuova aggressione israeliana al Libano, i ritardi dell’ONU, il fatto che Israele ed USA hanno dovuto accettare la presenza di una forza internazionale (creando un barlume di premessa per una rivisitazione di quella politica della guerra preventiva e uniltaterale che è la causa principale della instabilità del mondo), e, non ultimo per importanza, il dibattito, talvolta aspro, le contrarietà e/o le perplessità, sulla missione della forza di interposizione dell’ONU, che hanno attraversato i movimenti per la pace, possono, ancor più che dividerci, aiutarci a sviluppare una “strategia” che permetta ai movimenti nonviolenti di incidere maggiormente sulle scelte dei governi e della politica.

I numerosi documenti provenienti da movimenti pacifisti (sia quelli più disponibili verso la missione, così come quelli invece radicali nell’opposizione), in ciascuno dei quali ho colto elementi reali di valutazione, pongono in me tante domande e tanti dubbi, che nascono però dalla necessità di vedere pratiche nonviolente nelle scelte politiche che dobbiamo fare che incidano nelle contraddizioni che viviamo.

Vorrei quindi tentare, senza sottrarmi ad un confronto sul contingente della missione di interposizione militare, di sviluppare un ragionamento che ci aiuti a individuare strade da percorrere per dare gambe e riconoscibilità ad una “cultura altra”.
In questo senso mi introduco in questo dibattito con molti dubbi e poche certezze, non perché non abbia idee in merito, ma perché credo che la complessità delle relazioni internazionali, le difficoltà del condizionare come movimenti nonviolenti l’agenda politica, ci impone di muoverci con estrema cautela.

Il mio punto di vista non è neutrale: nasce nell’ambito del movimento nonviolento, e quindi non solo in quello pacifista, dove esistono anche numerose realtà che non hanno abbracciato la nonviolenza.

In quest’ottica voglio provare a ragionare insieme cercando di liberarmi un pochino da alcuni miei costrutti mentali: da nonviolento e antimilitarista, ad esempio, mi sento tranquillamente di essere contrario alla missione in Libano, però sono anche consapevole di come questo mio approccio in questo contesto possa essere “tremendamente” parziale.

[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo la seguente intervista apparsa sul quotidiano "L'Unità" del 22 settembre 2006, tratta da "La nonviolenza è in cammino", n. 1441 del 7 ottobre 2006]
Clara Sereni, nata a Roma nel 1946, scrittrice tra le maggiori degli ultimi decenni ed intellettuale di forte impegno civile.
Manuela Dviri Vitali Norsa, nata a Padova nel 1949, dopo il matrimonio si è trasferita in Israele dedicandosi all'insegnamento; giornalista e scrittrice, è impegnata nel movimento pacifista israeliano; "Dal giorno della morte in territorio libanese del figlio ventenne nel 1998, Jonathan, durante il servizio di leva, Manuela Dviri è diventata una importante esponente del movimento pacifista israeliano e tra i sostenitori del dialogo e la collaborazione tra la società israeliana e palestinese, e animatrice del progetto "Saving children", gestito dal Centro Peres per la pace, ha salvato più di tremila vite palestinesi bambine.

Pubblicato sul n. 1480 del 15 novembre 1006 di "La nonviolenza è in cammino" e tratto dal quotidiano "Il manifesto" del 12 novembre 2006


Aumenta il numero quotidiano di morti. La deduzione più immediata è pensare a un'impennata dell'estremismo. In Palestina c'è un governo di Hamas che non deflette dalle sue rigidità e che prende spunto dalle incursioni dei tank con la stella di Davide, e relativi orrori o errori, per interrompere le trattative in vista della formazione di un governo di unità nazionale. In Israele il primo ministro Olmert, a corto di idee, coopta nel governo Avigdor Lieberman, un oltranzista che porta in dote un piano per disfarsi degli arabi. Decisi a non cedere al ricatto, i benpensanti richiamano tutti alla "moderazione". La soluzione è il ritorno al processo di pace. Il massimo sarebbe tirar fuori dai cassetti la road map.
Invece della retorica autoreferenziale che mischia deprecazioni e pii desideri - di cui la recente puntata dell'"Infedele" di Lerner su Israele è stata un ottimo esemplare - sono maturi i tempi per prendere atto che alla base della questione Israele-Palestina c'è una realtà che non è considerata dalle pur sensate analisi correnti. Processo di pace potrebbe non essere neanche la definizione più appropriata di una fattispecie che ha come obiettivo quello di sancire l'affermazione di un diritto di tipo nazionale o statale sovvertendo un ordine in cui allo stato attuale esiste un'unica potestà riconosciuta ed esercitata. È necessario tornare con la mente e il cuore alla guerra dei sei giorni, allo straripamento di Israele nella sfera di sovranità, più o meno legittima, di tre dei suoi vicini.