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La crisi in Medio Oriente e le prospettive della nonviolenza (Buratti Gino)

Premessa

La nuova aggressione israeliana al Libano, i ritardi dell’ONU, il fatto che Israele ed USA hanno dovuto accettare la presenza di una forza internazionale (creando un barlume di premessa per una rivisitazione di quella politica della guerra preventiva e uniltaterale che è la causa principale della instabilità del mondo), e, non ultimo per importanza, il dibattito, talvolta aspro, le contrarietà e/o le perplessità, sulla missione della forza di interposizione dell’ONU, che hanno attraversato i movimenti per la pace, possono, ancor più che dividerci, aiutarci a sviluppare una “strategia” che permetta ai movimenti nonviolenti di incidere maggiormente sulle scelte dei governi e della politica.

I numerosi documenti provenienti da movimenti pacifisti (sia quelli più disponibili verso la missione, così come quelli invece radicali nell’opposizione), in ciascuno dei quali ho colto elementi reali di valutazione, pongono in me tante domande e tanti dubbi, che nascono però dalla necessità di vedere pratiche nonviolente nelle scelte politiche che dobbiamo fare che incidano nelle contraddizioni che viviamo.

Vorrei quindi tentare, senza sottrarmi ad un confronto sul contingente della missione di interposizione militare, di sviluppare un ragionamento che ci aiuti a individuare strade da percorrere per dare gambe e riconoscibilità ad una “cultura altra”.
In questo senso mi introduco in questo dibattito con molti dubbi e poche certezze, non perché non abbia idee in merito, ma perché credo che la complessità delle relazioni internazionali, le difficoltà del condizionare come movimenti nonviolenti l’agenda politica, ci impone di muoverci con estrema cautela.

Il mio punto di vista non è neutrale: nasce nell’ambito del movimento nonviolento, e quindi non solo in quello pacifista, dove esistono anche numerose realtà che non hanno abbracciato la nonviolenza.

In quest’ottica voglio provare a ragionare insieme cercando di liberarmi un pochino da alcuni miei costrutti mentali: da nonviolento e antimilitarista, ad esempio, mi sento tranquillamente di essere contrario alla missione in Libano, però sono anche consapevole di come questo mio approccio in questo contesto possa essere “tremendamente” parziale. Israele, Palestina e crisi in Medio Oriente

Tutti gli osservatori concordano nel sostenere che la pace in Medio Oriente passa per la soluzione del conflitto israeliano palestinese con la costituzione e il rafforzamento di due stati e due popoli.
Ma per arrivare a questo non basta il “riconoscimento all’esistenza di Israele” da parte del governo palestinese (ora Hamas, ieri OLP), occorre un riconoscimento reciproco, a prescindere dai governi eletti liberamente in ciascun stato, che, inevitabilmente, deve fare i conti con l’occupazione dei territori da parte di Israele, assurdamente tollerata da parte della Comunità Internazionale.
E’ possibile parlare di Stato Palestinese solo se ripristiniamo anche un elemento di continuità territoriale in quella terra, includendo l’abbattimento del muro che Israele sta costruendo, dal momento che come forze progressiste abbiamo scelto di lottare per l’abbattimento dei tanti muri, non solo quello di Berlino, ma quello delle tante apartheid che ci sono, delle presunzioni di superiorità culturale esistenti… perché sono proprio quei muri a creare nuove e più radicali instabilità
Ma la comunità internazionale è in grado di esercitare pressioni su Israele perché ciò avvenga?
Al tempo stesso la Comunità Internazionale è in grado di spingere USA e Iran a dialogare, unica condizione per creare premesse di convivenza pacifica nel Medio Oriente, vista l’influenza che l’Iran esercita ora, usciti di scena i Talebani, in parte del mondo islamico (cfr. “La guerra ingannevole”, di Lucio Caracciolo, su “L’espresso”, n. 34 del 31 agosto 2006, pubblicato anche sul Notiziario Settimanale AAdP del 2 settembre 2006).
La stessa risoluzione n. 1071 dell’ONU, frutto di un drammatico compromesso tra le grandi potenze e gli interessi che vi sono in quell’area, rispecchia questa incapacità: si è spinto verso il cessate il fuoco, ma non si è fatto cenno al fatto che Israele ha distrutto scientificamente un paese e tutte le sue strutture civili, quasi ammettendo quella cultura, quanto mai devastante, di una “reazione legittima ma spropositata”, sorvolando poi su quelle contraddizioni il cui superamento è l’unica condizione per sperimentare in quelle terre una convivenza pacifica che non neghi l’autodeterminazione di ciascun popolo.
So bene che l’instabilità dell’area non dipende solo da Israele, tutti noi abbiamo chiare le responsabilità di certi paesi arabi e di certi settori musulmani, ma è anche vero che, per svariati motivi (culturali, storici, economici, militari e strategici) la Comunità Internazionale ha tollerato da Israele molto di più di quello che non farebbe con altri paesi
Al tempo stesso questa guerra fatta da Israele deve essere considerata non solo all’interno della crisi palestinese e più generale del Medio Oriente, ma anche come parte di quella cultura “della guerra preventiva e totale”, teorizzata e pratica dagli USA, che ha causato danni, talvolta irreparabili, tra paesi occidentali e orientali.
In tal senso non va sottovalutato il rischio che essa stessa sia stata il prologo di una guerra più ampia che coinvolga Siria e Iran, ma è proprio questo rischio che deve spingere la Comunità Internazionale a farsi carico del problema che esiste in Medio Oriente, sapendo che non si tratta solo di rafforzare i legami con Israele, ma di rendersi credibili all’interno delle popolazioni arabe, che quotidianamente vivono i soprusi occidentali, stabilendo con questi popoli nuovi ponti di comunicazione e di interscambio.
Ma proprio per questo dobbiamo essere capaci, come movimenti per la pace, di cogliere quei piccoli elementi, con la riaffermazione della politica, che vanno nella direzione opposta della guerra totale, teorizzata e concretizzata dai neoconservatori americani,

Limiti e ambiguità dell’ONU

Credo che, al di là del fatto che alla fine l’ONU si è smarcato dalla logica di potere anglo-americana, rimane tuttavia il fatto che è proprio l’ONU a mostrare in occasione di queste crisi tutta la sua debolezza e fragilità, ed al tempo stesso proprio in queste crisi emerge con forza la necessità di una Istituzione Internazionale che sia credibile, riconosciuta tale da tutti i paesi, fondata su una democrazia reale, e non solo sul potere dei PIL dei paesi più forti.
Il problema è come riformare questo organismo per renderlo non solo all’altezza delle sfide, ma anche espressione di una democrazia reale che lo renda credibile.
Per fare questo è necessario qualche passo indietro delle grandi potenze ed una affermazione della politica sull’economia e sulle lobby del petrolio e delle armi.
Siamo in grado di fare questo?
Ma gli USA, che in questi ultimi anni hanno praticato tutte le politiche possibili per delegittimare l’ONU, sono disposti a misurare la possibilità di una convivenza internazionale fondata sul diritto internazionale e sul riconoscimento di autorità superiore agli stati?
Sicuramente è una esigenza, poiché la guerra totale porterà solo alla distruzione del pianeta. Ma il fatto che ciò si renda necessario non è detto che sia sufficiente a cercare dei percorsi politici per evitare l’ecatocombe.
La stessa sfida di un dialogo tra USA e Iran, come prerequisito per una convivenza pacifica nell’area medio-orientale, impone un cambio radicale di rotta nella politica americana, dopo l’avvio devastante della guerra totale e preventiva.
Dobbiamo iniziare a sperimentare una nuova credibilità, tragicamente persa, delle Istituzioni Internazionali, capaci di misurarsi con conflitti, ma anche con le ingiustizie troppo spesso tollerate.
Dobbiamo essere in grado, dopo le devastazioni di questi decenni, di riaffermare, nella coscienza di ciascuno di noi, la centralità della politica anche nella ricerca della sicurezza, consapevoli di come questa non possa essere relegata puramente ad un problema di ordine pubblico, ma investa l’ambiente nel quale viviamo, l’economia, l’istruzione, la sanità, l’estensione dei diritti…), e che anche la stessa lotta al terrorismo (sicuramente speculare alla cultura della guerra preventiva e totale) debba essere ricollocata nell’ambito della politica e della polizia internazionale non militarizzata.
Non siamo credibili nel momento in cui chiediamo all’Iran il rispetto del “trattato di non proliferazione nucleare”, accettare la presenza di testate nucleari in altri paesi (Israele, Turchia, Pakistan, India, Cina, Russia, USA…), né stipulare accordi per la messa al bando di armi di distruzione di massa e non convenzionali, ed al tempo stesso tollerare che paesi come gli USA e Israele (per certi versi citati come modelli della occidentalità) usino armi non convenzionali (cfr. guerra in Iraq e quest’ultimo conflitto Israeliano-Libanese).

Ma per affrontare una riforma dell’ONU occorre anche avere chiara la crisi degli Stati e delle democrazie (cfr. in “ Note sul rapporto tra crisi degli Stati e crisi internazionali”, del prof. Alessandro Volpi), consapevoli che non esiste più (ma forse non è mai esistito) un modello unico di stato e di democrazia, ma esistono una pluralità di esperienze che devono avere tutte diritto di cittadinanza (l’unico requisito è il rispetto dei diritti umani, definiti però in maniera coerente e credibile), così come non è pensabile di imporre un modello unico di economia (il WTO e la Banca Mondiale devono diventare strumenti della politica (solidale) e non dei grossi poteri economici).
Ovviamente si rende necessario la capacità di organizzare un movimento plurale capace di avviare una lotta di trasformazione, partendo da strade alternative a quelle scelte con la guerra totale e preventiva.


La forza di interposizione

Dinanzi alla risoluzione ONU n. 1071 il mio approccio nonviolento è stato, per un verso di soddisfazione per il cessate il fuoco stabilito (anche se in maniera assolutamente precaria), ma anche di estrema perplessità, per i contenuti della risoluzione (nessun cenno alla crisi palestinese e alle responsabilità di Israele, né tanto meno al fatto che questo paese ha scientificamente distrutto molte delle strutture civili del Libano (questi sono crimini di guerra, come li ha definiti Amnesty International) e per lo strumento adottato: una forza di interposizione tutta all’interno di una logica militare, che necessariamente usa culture, categorie analitiche e strumentazioni “di guerra”.
Per me una forza di interposizione deve essere veramente di pace e praticare mezzi nonviolenti: “l’interposizione nonviolenta, pur non escludendo vittime e costi, assicura, a differenza dell’interposizione militare, la dignità umana a tutte le parti implicate” (Enrico Peyretti).

Il concetto di interposizione non armata è centrale nella storia della nonviolenza, ed è previsto anche da molte indicazioni sia dell’ONU (cfr “An agenda for peace” del 1992, “Supplement to an agenda for peace” del 1994, “Commissione Brahimi” del 2000) e della Unione Europea (cfr. risoluzione “A5-0394/2001” del 1999, “Comunicazione sulla prevenzione dei conflitti” del 2001 e qualche cenno sulle missioni Petersberg nel Trattato di Nizza e nella Bozza di Costituzione Europea).

Se da un lato quindi non ho nessuna esitazione a dire che io opto per una forza di interposizione non armata e nonviolenta, dall’altra avverto limiti nella sua realizzazione, dovuti non tanto alla ricerca fatta dai movimenti non governativi (non ultimo la sperimentazione dei Caschi Bianchi ad opera di alcune associazioni), quanto al fatto che le belle affermazioni dell’ONU, della Comunità Europea e anche del Parlamento Italiano non si sono tradotte in scelte politiche, in risorse (prelevate dal bilancio della difesa armata) destinate alla ricerca, alla conoscenza, al creare sapere e all’organizzare corpi di difesa non armata.

In tal senso il dramma libanese pone interrogativi su cosa fare per fermare l’aggressione militare israeliana in Libano e per intervenire in quella che si consuma quotidianamente da decenni in Palestina, ma in generale su come fermare le aggressioni di stati o etnie nei confronti di altri stati o popoli.

Sono sufficienti le condanne generiche e gli appelli?

Dobbiamo tollerare una risposta (per me scellerata) quale quella messa in atto in Kossovo di guerra umanitaria (in questo caso magari accettando che paesi islamici intervengano contro Israele per porre fine alle aggressioni e alle ingiustizie perpetuate anche con l’assoluta libertà di ignorare le risoluzioni dell’ONU)?

E possibile schierare subito una forza di interposizione non armata e nonviolenta, fuori dal controllo dei comandi militari, capace di reggere una presenza per lungo tempo e in un’area difficile quale quella del Medio Oriente?

Allora mi domando, senza nessuna retorica, ma con lo sforzo veramente di chi vuole dare alla nonviolenza una dimensione visibile e concreta, capace di incidere ora nei conflitti che questo sviluppo disarmonico ed ingiusto produce, quale strumento potevamo mettere in campo ora per far cessare un massacro, sapendo che quello stesso strumento può diventare una sperimentazione di altro? Quale sentiero percorrere affinché la nonviolenza inizi a contagiare lentamente le scelte politiche che andiamo a fare, incidendo realmente sulla trasformazione delle contraddizioni?

Dicendo questo non voglio assolutamente sottrarmi al fatto che siamo arrivati a questa risoluzione perché Israele non è riuscito a completare il lavoro sporco, trovandosi di fronte una resistenza inaspettata degli Hezbollah (confesso tuttavia di provare fastidio quando, in certi ambienti, avverto una sorta di soddisfazione per l’impresa “militare” di questo movimento, come se passasse in secondo piano il fatto che, finanziato dall’Iran e dalla Siria, esprime un integralismo terribile e manda i suoi razzi alla cieca, tanto che colpiscono soprattutto la popolazione arabo-israeliana povera), né pensare che questa guerra, assurda se si pensa che è esplosa a seguito del rapimento di due soldati (quando Israele può rapire, nel silenzio della Comunità Internazionale, mezzo governo palestinese con l’accusa di appartenere ad Hamas, come se questo partito non fosse quello che ha vinto le libere elezioni in Palestina, e praticare la strategia degli omicidi mirati per colpire i leader dei movimenti palestinesi), può essere veramente la prova generale dell’estensione della guerra totale a Siria e Iran.
Così come non possiamo non immaginare che la “sconfitta militare” di Israele non possa dare forza ad una volontà di qualche paese arabo di risolvere la questione israeliana con una nuova guerra.

Proprio per questo quella domanda non retorica assume diventa ancora più impellente.

Ed allora vorrei pormi anche la questione se è possibile innescare in questa fase, dentro alle contraddizioni di questa cultura militare nella quale abbiamo costruito i nostri stati, ma anche il nostro modo di fare politica.
Ai nostri partiti vorrei ricordare che non basta dichiarare a gran voce la nonviolenza, o citare di continuo don Milani o Martin Luther King, magari facendo pellegrinaggi a Barbina, occorre dare gambe a politiche alternative alla semplice scelta militare che invece viene sempre posta, e iniziare a praticare la nonviolenza concretamente, sapendo che ciò significa anche una pratica politica “altra”, una coerenza tra “fini e mezzi”, una trasparenza e linearità anche nel momento dei compromessi alti.

Però alcune cose vanno chiarite, e questo vale in generale, non su questa missione specifica:

  • Una forza di interposizione deve essere equidistante dai due contendenti, non può essere messa per disarmare solo uno dei due… fare questo significherebbe fare il lavoro sporco per conto di una delle due parti. Ciò non significa che i governi, i popoli, non abbiano una loro posizione sul conflitto, ma la forza di interposizione nasce proprio per separare due eserciti e avviare percorsi di convivenza e di superamento del conflitto.

  • Il Comando di una forza di interposizione non può essere solo militare, esso presuppone l’esistenza di un livello politico presente nell’area, che sappia entrare in sinergia con tutte le presenze di associazioni e movimenti che operano in quel territorio… si tratta insomma di iniziare una sinergia tra “momento civile” e “presenza militare”.

  • Nello specifico poi il comando, sia militare che civile, non può essere assegnato a nessuno dei paesi che sono coinvolti direttamente nei conflitti scatenati con la politica della guerra preventiva, perché quei governi (e noi siamo tra quello a prescindere poi della nostra bellissima capacità di aiutare le popolazioni civili in Afghanistan e Iraq) sono a pieno titolo in una logica di “guerra aggressiva” all’Islam, e questo non può essere accettato.

  • Inoltre, per quanto riguarda il nostro paese, nel momento in cui accettiamo di far parte di questa forza di interposizione dobbiamo assolutamente sospendere (per me sarebbe meglio abrogare) il trattato di cooperazione militare con Israele, perché non è pensabile essere presenti in un territorio in una logica di equidistanza, e al tempo stesso dover garantire quell’accordo.

Credo anche che anche la presenza di una forza di polizia internazionale debba crescere fuori dalla logica militare, così come non abbiamo voluto che la nostra polizia sia smilitarizzata e democratizzata.
Anche la polizia internazionale deve fare questi passi, dotandosi di strumenti altri rispetto a quelli militari, di cultura altra e di forme di controllo democratico.

Cosa chiedere alla Politica. Quale Politica praticare

Credo che sia compito dei movimenti per la pace individuare azioni che pongano richieste esplicite e chiare alla Politica, sapendo che lo scontro è su interessi economici e militari fortissimi (gli USA sono governati dalla lobbies del petrolio e dell’industria militare), per cui dobbiamo dotarci di una linea politica di ampio respiro che permetta di influenzare l’azione dei governi.
Ed è il momento che quelle forze politiche che spesso si richiamano alla tradizione nonviolenta (sia laica che cattolica), traducano in scelte di governo quei loro valori, perché la nonviolenza non può essere relegata solo alle sfera delle massime aspirazioni, ma deve tradursi nella quotidianità, facendo scelte che diano ad essa le gambe per muoversi.
E’ possibile misurare la forza dirompente della nonviolenza, dopo i danni nefasti prodotti dalla cultura militare, solo sperimentandolo concretamente… e non solo delegandola alla pura azione di movimento.
Per concludere, ma per dare concretezza a scelte che avvino veramente processi di gestione dei conflitti alternativi alla logica militare, cosa chiedo:

Al governo Italiano, nel quale molte forze richiamano ad una cultura di pace sia cattolica che laica:


  • Mettere all’ordine del giorno delle scelte di governo l’opzione nonviolenta, per dare gambe ad una gestione nonviolenta.

  • Di sottrarre risorse al settore militare e di investire in ricerca sulla nonviolenza, perché la nonviolenza non è un’aspirazione a volersi bene e ad andare d’accordo, ma è il calarsi nei conflitti, sporcandosi le mani, e scegliendo soluzioni alte rispetto alla morte della guerra.

  • Di andare a costruire, almeno a livello europeo, corpi civili di pace (caschi bianchi), che richiedono però ovviamente ricerca, risorse, capacità di investimento.

  • Smilitarizzare l’idea di “polizia internazionale”, così come stiamo tentando di fare (a fatica) nel nostro paese.



Ai movimenti e alle forze politiche chiedo di avviare una pratica politica, che diventi anche prospettiva di governo, nella quale non vi sia separazione tra fini e mezzi, e nella quale anche il compromesso tra culture diverse, diventi un percorso “alto” e “trasparente:

  • Passare da una idea della nonviolenza legata solo alla convivenza, all’idea di nonviolenza come azione quotidiana di fare politica.

  • Di avviare una riflessione sulla disobbedienza civile e sugli strumenti di questa disobbedienza.

  • Di individuare percorsi praticabili e riconoscibili per costruire una cultura ed una pratica politica nonviolenta