La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 21 luglio 2009
Attenti al “Furore” dei poveri disperati
Giorgio Nebbia Attenti al “Furore” dei poveri disperati
Il romanzo è ambientato negli anni trenta del
Novecento, nell’Oklahoma, uno degli stati agricoli degli Stati Uniti
centrali; nei molti decenni precedenti gli immigrati, sbarcando sulla
costa atlantica del Nord America, avevano cercato terre fertili
spingendosi verso ovest, nel selvaggio West, dove avevano trovato
grandi praterie in delicato equilibrio ecologico; la coltivazione a
grano e mais ha trasformato il fragile terreno dei pascoli in un suolo
esposto all’erosione del vento e delle piogge e ben presto le pianure
si sono trasformate in una terra arida, in una “scodella di polvere”.
Centinaia di migliaia di famiglie di contadini a poco a poco hanno
visto sfumare il povero reddito e, non potendo pagare i debiti e i
mutui alle banche, sono stati sfrattati e sono diventati, ancora una
volta emigranti.
Una di queste
famiglie, quella di Tom Joad, giovani e anziani, decide di caricare le
povere masserizie su una traballante automobile per andare a ovest dove
dicono che in California, terra di ricchi raccolti e di acque, è
possibile trovare occupazione in agricoltura. Dopo un lungo terribile
viaggio la California, terra promessa, si rivela però subito ostile; ci
sono troppi immigrati, non c’è lavoro per tutti e le paghe sono basse
al punto che è in atto uno sciopero; i padroni, attraverso ”caporali”
organizzati dalla criminalità, sono disposti ad assumere i nuovi
arrivati come crumiri che subito si scontrano con gli altri poveri in
sciopero, poveri contro poveri.
Uno
spiraglio è offerto da un campo di accoglienza statale della
“Resettlement Administration”, l’agenzia creata da F.D.Roosevelt
(1882-1945), divenuto presidente degli Stati Uniti nel marzo 1933, e
affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia,
studioso di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di
difensore dei diritti civili e degli emigranti. Nel campo dell’agenzia
gli immigrati con poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua
corrente, spazi per i bambini; l’agenzia statale ha cura anche di
procurare lavoro a paghe dignitose, organizza opere di difesa del suolo
e rimboschimento, assegna piccoli appezzamenti di terreno e organizza
cooperative. Naturalmente i padroni degli operai in sciopero usano la
criminalità locale, con la complicità della polizia, per cercare di
smantellare i campi di accoglienza con la scusa che sono fonte di
disordini.
Il libro “Furore”
finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra
che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad,
perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno
ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte
che era destinato al bambino morto.
“Furore”
è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla
base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente,
crisi ambientali. Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e
popoli dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa, alla ricerca di
condizioni migliori di vita per se e per i propri figli.Anche da noi,
come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri
anch’essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli
immigrati nei campi:”muoiono di fame perché noi si possa mangiare”,
oggi come nel 1938 quando Edith Lowry scrisse il suo celebre libro,
lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su
impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità.
Come
nella California dei Joad la nostra società assiste impassibile, anzi
con odio, ai viaggi disperati dalle terre d’origine all’Italia, lascia
marcire degli immigrati in rifugi in cui neanche i cani abiterebbero
--- ne abbiamo avuto testimonianze anche in recenti servizi della
televisione di stato --- e assiste indifferente al loro dolore: dolore
per la lontananza dai loro cari, per la difficoltà della lingua; solo
poche strutture di assistenza, spesso volontarie, li aiutano a superare
i cavilli burocratici e li aiutano a spedire i magri risparmi alle
lontane famiglie. Con la promessa di “sicurezza” per i bianchi padani e
con una campagna di odio sobillata da molta parte della stampa,
l’attuale maggioranza parlamentare respinge gli immigrati più indifesi,
li rimanda alla loro miseria.
Eppure
non siamo sempre stati così. Dopo la Liberazione, negli anni cinquanta,
il “Comitato Amministrativo di Soccorso Ai Senzatetto”, l’UNRRA-CASAS,
col sostegno del “Movimento di Comunità” di Adriano Olivetti
(1901-1960), assicurò una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini
meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve
anche allora che un intervento statale di costruzione di alloggi e di
assistenza civile può alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle
grinfie della speculazione, della illegalità e della criminalità. San
Paolo nella Lettera agli Ebrei (cap. 13) ricorda che “alcuni praticando
l’ospitalità hanno accolto degli angeli senza saperlo”. Centinaia di
migliaia di famiglie italiane hanno trovato nelle badanti straniere un
angelo che assiste gli anziani e gli pulisce (scusate il termine) il
sedere.
Ma “Furore” è anche una
parabola di speranza: che un giorno si possa avere un’Italia governata
da persone della statura politica e morale di Roosevelt e di Tugwell,
capace di praticare l’accoglienza e assicurare giusti salari e dare
decenti abitazioni agli immigrati che contribuiscono alla nostra
ricchezza, liberandoli dallo sfruttamento per miseri giacigli ad alto
prezzo. Se non lo si vuol fare per amore cristiano, lo si faccia almeno
ricordando che la paura di un popolo che non ha casa e non ha meta,
genera, come ha raccontato Steinbeck, furore.