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La compassione nella Resistenza (Anna Bravo)

Articolo di Anna Bravo pubblicato su "La repubblica" del 24 aprile 2006, e tratto da Voci e Volti della nonviolenza, n. 360 del 17 agosto 2009, del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo.
Sono passati tre anni dalla pubblicazione del Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, un libro doloroso da leggere (e sicuramente anche da scrivere), che ha stimolato reazioni le più varie. Si è parlato del tasso aggiuntivo di violenza tipico delle guerre civili, del mondo di allora, delle stragi fasciste e naziste. Ma quasi mai si è puntato a una nuova sacralizzazione della resistenza simile a quella che negli anni sessanta e settanta aveva ribaltato il clima di processo ai partigiani del decennio precedente; e alle generalizzazioni in negativo non si è risposto con generalizzazione di segno contrario, come avviene con i temi più esposti all'uso pubblico della storia. Merito di molti fattori, a cominciare dalla caduta di tabù politici e storiografici innescata dalla fine della guerra fredda.
Eppure mi sembra resti qualcosa di incompiuto, che non si scioglie discutendo sul numero delle vittime o ribadendo il (non sempre) diverso rapporto di partigiani e fascisti con l'idea della morte. Il fatto è che Il sangue dei vinti ha comportato, inevitabilmente, una tale concentrazione sul versante cruento della resistenza da frantumare l'interezza dell'esperienza partigiana. Con il rischio di ridare legittimità alla vecchia divisione dei ruoli che assegnava alle sinistre, in particolare ai comunisti, l'organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneità e la pietas - in versione aggiornata, resistenza in armi versus resistenza senza armi, tutte e due avvilite dalle semplificazioni. Nei primi anni novanta, per esempio, Rocco Buttiglione aveva avanzato un'immagine di resistenza centrata sulla tutela di regole elementari di umanità e sulla salvaguardia di beni essenziali, rivendicandola in esclusiva al mondo cattolico: di qui la dicotomia fra uno stereotipo di combattente politicizzato che trama nell'ombra preparando la rivoluzione, e il vescovo defensor pacis, nuovo modello di resistente votato a proteggere tutti i perseguitati senza distinzioni. Non solo i vescovi, per la verità: ci sono donne che nascondono gli sbandati dell'8 settembre, e che nei giorni della liberazione aiutano isolati militari tedeschi, perché un nemico vinto e in fuga smette di essere un vero nemico.

Può allora essere utile tornare a quell'interezza, se mai usando lo "scandalo" del Sangue dei vinti per svincolarsi dalle timidezze residue che ogni studioso sperimenta se ama il suo tema, quale che sia. In parte lo si è fatto, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. A me oggi sembra interessante cercare un sostrato comune alle molte resistenze, che non si identifichi solo nell'antifascismo (o in un umanitarismo indimostrato), come è avvenuto per decenni. È vero che il ritiro del consenso al regime è diffuso; ma sono diffuse anche ragioni ed emozioni complesse e poco visibili alle categorie della politica, dal maternage alla stanchezza della guerra all'orgoglio individuale o di comunità - penso a molti episodi di protezione degli ebrei, a ribellioni improvvise, all'antifascismo "esistenziale", che così come nasce dall'aver patito l'oppressione in prima persona, può svanire a democrazia conquistata. Leggere ogni gesto in chiave politica è stato una sorta di imperialismo retrospettivo.
Per questo credo sia ancora una buona pratica rubare criteri e categorie da altre discipline o da altre esperienze. E vedo il bottino migliore nel concetto di riduzione del danno, che si forma nell'ambito della lotta alla droga, ma non coltiva l'ambizione di estirparla dalla società, e punta invece a prolungare le singole vite; che prende atto dell'esistenza del male senza lo spirito della crociata, che sa capitalizzare i risultati parziali e provvisori. Un concetto prezioso per la sua focalizzazione sulla sofferenza e per la sua versatilità, che può aiutare a rompere la contrapposizione fra sangue e morte da un lato, salvezza e angelismo dall'altro. Beninteso senza diluire le differenze tra le varie forme di lotta, che spesso sono radicali.
Sul piano generale, ogni  movimento di resistenza si muove nella logica della riduzione del danno: i partigiani combattono sul proprio territorio, ed è loro interesse (e speranza) preservare persone e beni; ma la priorità è colpire il nemico, il che può portare a esiti drammatici. Ne racconta un esempio estremo Todorov in Una tragedia vissuta (Garzanti), una vicenda di rappresaglie e controrappresaglie nella Francia occupata che finisce per travolgere tutti i protagonisti.

Ci sono invece casi in cui iniziative a prima vista separate nei fini e nei mezzi si rivelano apparentate da quella logica. Che si sia ancora lontani da una sintesi complessiva importa poco, anche facendo storia bisogna capitalizzare i piccoli passi.
Un primo filo comune sta nelle persone. Nelia Benissone Costa, una partigiana intervistata da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina per La resistenza taciuta (Bollati Boringhieri), operava in armi ed era specializzata in sequestri di fascisti e tedeschi da scambiare con partigiani e ostaggi; nello stesso tempo lavorava con i Gruppi di difesa della donna, l'organizzazione più attiva nel sostenere le proteste contro la penuria di viveri e gli sfollamenti forzati, nell'assistere i partigiani e le popolazioni, nel prendersi cura del dolore che avvolgeva le vite. E Nelia non è stata certo la sola.
Una seconda linea di incontro viene dalle stesse azioni in armi. Il fatto più noto è la difesa partigiana degli impianti industriali, ma se ne contano molti altri. Nelle campagne, quando i fascisti imponevano l'ammasso del bestiame, succedeva che i partigiani ingaggiassero una scaramuccia per farlo fallire - e nel '43-'45 la requisizione di una mucca poteva minacciare la sopravvivenza di una famiglia. Nel biellese, la firma del "contratto della montagna" nell'industria tessile, con le sue clausole di riequilibrio economico e di potere, è stata incoraggiata dai partigiani. A volte si concordava una tregua per dare respiro alle popolazioni. Sono alcuni assaggi di un fenomeno che richiederebbe uno scavo su larga scala.

Mi chiedo perché temi come questi siano rimasti quasi sempre fuori dal dibattito. E mi rispondo così: forse a qualcuno sarebbe sembrato di accampare attenuanti per una responsabilità che si stentava a attribuire ai propri compagni. Forse semplicemente non ci si è pensato, e non è una dimenticanza "innocente": solo in parte superata, la pluridecennale inclinazione guerriera e monosessuale della storiografia ha reso difficile riconoscere al belligerante anche il registro della mediazione, della cura, della rinuncia allo scontro per evitare ripercussioni intollerabili. E sì che la figura del "guerriero compassionevole", teso a conservare anziché a distruggere, capace di una pietà dolorosa e affettuosa verso persone, animali, piccole cose, verso tutto ciò che è esposto, indifeso, alla guerra, è un topos narrativo potente e insieme una presenza concreta - ne tratta l'ormai classico Donne e guerra di Jean Bethke Elshtain (Il Mulino).
Gli aspetti più singolari mi sembrano quelli connessi alla riparazione del danno sul piano simbolico. Qui spiccano gli sforzi dei Gruppi di difesa per organizzare le onoranze funebri delle  vittime dei tedeschi, impresa decisiva per l'autostima di una collettività; spiccano quei Cln che  si fanno un punto d'onore di far trovare agli alleati città già normalizzate.
Ma quello spirito si può esprimere in occasioni e attraverso soggetti imprevisti, fino a fondersi con una bellicosità all'apparenza fine a se stessa.

Avevo un amico, un giovane operaio di famiglia contadina, si chiamava Giovanni Rocca, nome di battaglia Primo. Dopo aver combattuto con i partigiani jugoslavi, era tornato al suo paese nel Monferrato, e nel giro di un anno era diventato comandante di una imponente divisione garibaldina.
Quando doveva trattare con il comando tedesco per uno scambio di prigionieri o per una richiesta della popolazione, Primo si presentava in modo ancora più pittoresco del solito (e il suo solito era già spettacolare); indossava un giubbotto di pelle, pantaloni corti, stivali, il suo berretto con una grande stella rossa. E si caricava di armi di tutti i tipi. Ho sentito le persone più disparate ricordarlo con compiacimento mentre passava il ponte sul fiume Tanaro per andare a discutere "da pari a pari" con gli occupanti, un ragazzo basso e tarchiato senza divisa nè gradi, e alla sponda opposta ufficiali perfetti nelle loro uniformi. Quella esibizione di mascolinità superarmata curava una ferita simbolica più diffusa di quanto pensi chi nega in blocco la tesi della morte della patria.
Se si connette l'idea di nazione con l'onore militare, l'8 settembre colpisce non solo i fascisti, i monarchici, gli alfieri della rispettabilità pubblica, ma tanti altri che si sentono legati al destino dell'esercito e delle istituzioni, e che non potendo o non osando opporsi agli occupanti, vivono l'umiliazione di sentirsi alla loro mercè.
Primo amava le armi, amava la messa in scena (lo dico senza alcun significato negativo: la marcia del sale di Gandhi è stata un grande pezzo di teatro politico). In più, con il suo talento di eroe popolare, sapeva che vedere l'accumulo sul suo corpo delle armi più micidiali rincuorava persino il borghese piccolo piccolo chiuso dietro le finestre di casa, che con ogni probabilità temeva la sua leggendaria durezza e diffidava delle grandi trasformazioni promesse dalla resistenza. Ma nella mortificazione e nello smarrimento, la visione della violenza "amica" funzionava da riscatto.
Solo, non era il riscatto ordinato, duraturo, pienamente politico, che avevano in mente i partiti antifascisti.
Se ripensare a un libro sulla violenza partigiana creasse più spazio per storie partigiane di riduzione del danno, sarebbe un felice paradosso.