Condividiamo le recensioni di Anna Bravo di "A un passo dalla salvezza. La politica svizzera di respingimento degli ebrei durante le persecuzioni 1933-1945" (di Silvana Calvo) e "La persecuzione antiebraca dal fascismo al dopoguerra" (di Fabio Levi)."
Egregi signori consiglieri federali, Non possiamo fare a meno di dirvi che noi alunne siamo profondamente indignate che i profughi vengano ricacciati cosi' spietatamente verso una sorte tragica. Si e' forse dimenticato completamente che Gesu' ha detto: 'Cio' che avete fatto al piu' piccolo tra voi, lo avete fatto a me".
Non ci saremmo mai immaginate che la Svizzera, l’isola di pace che pretende d’essere misericordiosa, avrebbe ributtato come bestie oltre la frontiera questi miseri esseri infreddoliti e tremanti. Non succedera' anche a noi quanto e' accaduto al ricco che ha ignorato il povero Lazzaro? A cosa ci servira' poter dire: si', nell’ultima guerra la Svizzera si e' comportata bene, se poi non avremo nulla da mostrare di buono che la Svizzera abbia fatto in questa guerra, in particolare per gli emigranti? (...) Quando ci e' stato chiesto di raccogliere contributi siamo state pronte a farlo per la nostra Patria (...). Per questo ci permettiamo di pregarvi di accogliere questi poverissimi senza patria. Vi salutiamo con stima e con sentimento patriottico".
Seguono le firme.
IL Consiglio federale e' il governo centrale svizzero. Gli esseri scacciati come bestie sono gli ebrei che tentano di entrare nel paese, le autrici di questa lettera venti alunne quattordicenni della II C della SekundarSchule di Rorschach, una cittadina del cantone Sangallo. La data e' il 7 settembre 1942, in piena fase di chiusura dei confini.
E’ il primo atto di una storia imprevista, dove si avvicendano ministri, poliziotti, insegnanti, autorita' scolastiche, genitori. La racconta un bellissimo libro ricco di dati e fatti nuovi (Silvana Calvo, "A un passo dalla salvezza. La politica svizzera di respingimento degli ebrei durante le persecuzioni 1933-1945", Zamorani, Torino 2010), in cui si guarda alle istituzioni e ai cittadini attraverso la lente delle normative e dei comportamenti verso gli ebrei.
Nell’Europa di quegli anni la Svizzera non rifulge. Certo, e' un paese accerchiato da regimi totalitari o collaborazionisti, vive di banche, valuta pregiata, esportazioni, e non puo' permettersi di rompere i suoi canali di commercio e scambio. Non ha un esercito imponente, e il III Reich potrebbe invaderla in pochi giorni - Belgio e Olanda hanno mostrato che dichiararsi neutrali e' una ben povera difesa. Tutto vero: la Svizzera e' in bilico, può far conto solo su se stessa, non dispone di risorse infinite. Deve adattarsi.
L’altra faccia e' che si tratta di un paese dove le istituzioni funzionano, nessuno fa la fame, si possono trovare beni di consumo, sigarette, farmaci, oggetti che altrove sono un ricordo. Un paese che ha una milizia popolare addestrata, un sistema di fortificazione alpina, un popolo con forti sentimenti patriottici. E una lunga tradizione di accoglienza agli esuli politici.
Ma non agli ebrei, che premono dai confini austriaco, tedesco, poi francese e italiano, e che - sostiene un documento ufficiale - non sono in alcun modo assimilabili ai politici, per i quali la porta e', se non aperta, socchiusa. Vanno ributtati indietro al luogo di provenienza, a volte sono letteralmente passati di mano, da gendarme svizzero a gendarme tedesco, a milite di Salo', a poliziotto italiano o francese. Come agli altri Stati europei, alla Svizzera la sorte degli ebrei non importa affatto. Storia nota.
Sola, meravigliosa eccezione e' la Danimarca occupata, dove nell’ottobre 1943, appena si viene a sapere che i tedeschi stanno preparando deportazioni di massa, scatta l’azione congiunta delle istituzioni e dei cittadini, che riescono a traghettare nella sicura Svezia piu' del 90% dei 7.695 ebrei danesi, e tedeschi rifugiati - che fatica trattenersi dal raccontare la vicenda per intero! Hannah Arendt scrivera' che l’esempio della Danimarca, unico Stato insignito come tale del titolo di "Giusto tra le nazioni", avrebbe dovuto essere proposto agli studenti di scienze politiche, per far capire a quali risultati puo' arrivare una lotta nonviolenta, sorretta da una buona coesione sociale, dal riconoscimento popolare nelle istituzioni. E dalla convinzione che l’uguaglianza non e' un principio negoziabile.
In Svizzera finisce invece per esserlo, se non in linea teorica, nei fatti. Per una terra d’asilo, e' una scelta stridente, che il governo cerca di far passare con una campagna di organizzazione del consenso. Si comincia da quel caposaldo politico/simbolico che consiste nel dare un nome alle persone - per gli ebrei il termine ufficiale e' "emigranti", non profughi o rifugiati, che alludono al dovere di accoglienza. Si continua insistendo sui pericoli per l’ordine pubblico, sulla scarsita' di risorse, sull’assistenza gravosa, sul sovraffollamento - ma secondo i dati raccolti nell’appendice del volume, i "profughi civili" sono stati 51.219, di cui 21.304 "profughi ebrei" e 6.654 "emigranti ebrei"; e del loro sostentamento si sono fatti carico i correligionari svizzeri.
Si gioca anche la carta degli stereotipi, e non importa se si contraddicono a vicenda: gli ebrei sono troppo legati fra loro, ma nello stesso tempo straordinariamente abili nell’infiltrarsi. Peseranno come parassiti sui bilanci, o all’opposto faranno carriera e denaro ai danni degli svizzeri - allo sterotipo dell’ebreo avido e astuto non si rinuncia neppure in situazione estrema. Ma il successo e' parziale.
Nonostante le limitazioni introdotte con la guerra, la Svizzera resta un paese democratico, dove la stampa ha buoni margini di liberta' e le notizie circolano. Con il risultato che ormai si sa a quale destino vanno incontro gli ebrei respinti; e che nascono reti di aiuto composte di cittadini, associazioni ebraiche e non, membri delle istituzioni - poliziotti, diplomatici, esponenti dei governi cantonali, guardie di frontiera. Una piccola minoranza periodicamente scardinata dalla polizia, ma capace di salvare delle vite.
A Rorschach, paese di confine, l’idea della lettera matura quando le alunne leggono su un giornale il racconto di un respingimento particolarmente brutale; in passato qualcuna ha assistito a scene simili. Decidono in fretta, scrivono sentendosi doppiamente nel giusto. Perche' amano la Svizzera, e perche' si richiamano a una ragione che giudicano superiore a quelle della politica: "E’ possibile che voi abbiate ricevuto l’ordine di non accogliere ebrei, ma questa e' certamente la volonta' di Dio, e noi dobbiamo ubbidire piu' a Lui che agli uomini".
Il secondo atto e' truce. Gli uomini del Consiglio federale si scandalizzano, si allarmano. Con ragione: una parte dei cittadini sta aiutando gli ebrei a entrare nel paese in violazione della legge, altri lo sanno e tacciono. Ora protestano persino i bambini; peggio, le bambine. Brucia l’accenno a ordini venuti dall’esterno, che ricorda l’espulsione degli anarchici a fine ottocento: "Elvezia il tuo governo schiavo d’altrui ti rende", dice un verso di Addio Lugano.
Il ministro per la sicurezza interna von Steiger, lo stesso uomo che ha coniato la metafora "la barca e' piena", trasforma la lettera in un affare di Stato. Prepara una lunghissima risposta, squadernando l’intera gamma dei valori cristiani e civici - tranne il dovere della solidarieta' con i disperati. La discute con i colleghi, decide di non spedirla per non dare troppo rilievo al caso, e di aprire invece un’inchiesta a Rorschach per scovare gli istigatori. Ci sono genitori aperti, forse addirittura socialisti, saranno loro. C’e' un insegnante presunto antimilitarista, sara' lui, e si progetta di incriminarlo penalmente. L’ultimo pensiero e' che la ragazzine abbiano fatto da sole. A conferma - rubo il titolo a Simona Vinci - che dei bambini non si sa niente. Vale in parte anche per la Shoah. Nella letteratura e nella storiografia c’e' molto sui piccoli prigionieri, quasi il vuoto sui piccoli soccorritori. Che pure ci sono stati. Bambini che accompagnavano gli ebrei alla frontiera, che portavano messaggi; che nei ghetti polacchi facevano sopravvivere le famiglie con piccoli furti e commerci. Bambini che mentivano alle Ss: "qui non c’e' nessuno".
Alla fine si deve riconoscere che gli istigatori non esistono. Interrogate pesantemente, alcune ragazzine si spaventano un po’, altre si scusano per i termini piu' severi, ma non "abiurano" affatto.
La storia viene messa a tacere: ma dopo questa e altre lettere, il governo deve ammorbidire per vari mesi la sua politica - variare le disposizioni per l’asilo a seconda del clima nazionale e' una costante. Come e' una costante il tentativo di evitare che i respingimenti avvengano sotto gli occhi della gente, a costo di lasciare che i profughi penetrino per qualche chilometro in territorio svizzero: per passare dalla norma giuridica alla norma etica, la spinta decisiva e' spesso l’incontro faccia a faccia con la sofferenza dei perseguitati.
Decenni dopo, alcune ex ragazzine rievocano la vicenda con una tranquillita' che sembra la versione adulta della lucida freschezza di allora. Sfido chiunque a non innamorarsi di questa storia.
E un po’ anche dell’autrice, che non e' un’accademica o una giovane studiosa in carriera, e' una signora svizzera in pensione da un impiego pubblico e con un grande amore per la ricerca. Sebbene non l’abbia mai vista, la immagino mentre raccoglie bozze di lettere, lettere, verbali di interrogatori, commenti della stampa, dichiarazioni politiche; mentre segue le tracce delle sovversive di Rorschach.
E mentre impara il mestiere nel rapporto magistrale con il suo docente. Che e' Fabio Levi, autore di una quantita' di opere di storia degli ebrei, e ora de "La persecuzione antiebraica". Dal fascismo al dopoguerra (Zamorani, Torino).
Una raccolta di saggi che andrebbero recensiti uno per uno, ma che nascono tutti dal desiderio di riconsiderare le cristallizzazioni piu' comuni fra gli storici (e non solo).
Il primo bersaglio e' l’identificazione generalizzata e univoca degli ebrei con il destino di vittime. Per quanto esistano, scrive Levi, aspetti di continuita' fra la persecuzione del '38-'45 e le norme discriminatorie precedenti all’emancipazione, ci sono state fasi e situazioni relativamente propizie alla formazione di soggettivita' diverse. Con l’affermazione dei principi liberali, possono moltiplicarsi i modi di essere e sentirsi ebrei: osservanti, credenti, agnostici, patriottici o meno, bendisposti oppure ostili verso i matrimoni misti. E, non diversamente dal resto degli italiani, fascisti, antifascisti, politicamente indifferenti. Persino nella condizione di vittime assolute del ‘38-'45, ci sono reazioni e strategie di sopravvivenza diverse, da chi tiene unita la famiglia - quel che Bettelheim imputava ai Frank - a chi sceglie di dividerla perche' da soli o in coppia e' piu' facile trovare rifugio. Anche se quasi sempre ci si salva per caso, ogni vittima ha una storia propria.
C’e' poi, ed e' ben radicata, una doppia convinzione: che alla spietatezza dei vertici abbia corrisposto una relativa tolleranza delle amministrazioni periferiche; che l’inefficienza delle istituzioni abbia giocato a favore degli ebrei. Visione ottimistica la prima, pseudoromantica la seconda, che idoleggia il disordine e che i fatti provvedono a smentire: l’inefficienza poteva giovare, cosi' come poteva dare spazio a ricatti, arbitrii, inganni.
Un terzo snodo e' la riflessione sulle diverse letture del rapporto Italia/Shoah. Il mito nazionale del buon italiano oggi e' moribondo, come e' giusto, visto che al tempo del fascismo e della guerra erano moribondi il senso della giustizia e dell’onore: in Italia hanno vissuto opportunisti, eroi veri, veri miserabili. Basta pensare al funzionario che nel ‘38 va a scrutare le lapidi del cimitero ebraico di Milano per scoprire le quote di sangue "sbagliato" di un cittadino. Ma dicono molto anche l’adesione plebiscitaria dei professori universitari (1.237 su 1.250) alla richiesta di giurare fedelta' al regime, il silenzio di fronte alle leggi razziste del ‘38, la tranquilla accettazione, salvo casi isolatissimi, delle cattedre tolte ai titolari ebrei - il tradimento dei chierici ha una lunga storia. Del resto, la stessa Resistenza e' poco sensibile alla condizione degli ebrei - e parecchi ebrei fanno la Resistenza sentendosi in primo luogo antifascisti.
Levi, che non e' certo incline a demonizzare gli italiani e ne valorizza anzi l’opera di soccorso, mostra pero' che a guerra finita il paese non sembra molto interessato a farsi perdonare. Dichiarandosi tutt’altra cosa dal regime, la repubblica rigetta ogni responsabilita' per il passato e centellina riassunzioni e risarcimenti, seguita da banche, sindacati, organizzazioni imprenditoriali. La restituzione dei beni va a rilento, ai professori rientrati si nega la vecchia cattedra.
A volte si dice che gli italiani amano sentirsi buoni piuttosto che giusti. Questo libro, argomentatissimo e a tratti sorprendente, suggerisce anche che la "bonta'" dura poco e costa poco: giusto il tempo e lo sforzo di esternare quel profluvio di buoni sentimenti verso le vittime, che all’indomani della liberazione infastidiva Giacomo Debenedetti, il primo a raccontare in 16 ottobre 1943 il dolore degli ebrei italiani.
Fonte: Centro ricerca per la Pace