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Lo stupro come arma di guerra (Di Rienzo Maria)


Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Lo stupro come arma di guerra contro le donne. La guerra è un crimine. Lo stupro è il peggior crimine dei crimini", pubblicato su “Voci e Volti della nonviolenza”, n. 70 del 27 giugno 2007.


"Lo stupro è il processo consapevole di intimidazione grazie al quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in stato di paura" (Susan Brownmiller).
Non si tratta di un atto incontrollato. Lo stupro viene commesso dopo essere stato vagheggiato, pianificato, vagliato, preparato. È un atto che cerca simbolicamente la morte della propria vittima, ovvero che essa desideri essere morta. Lo stupro in guerra è anche uno strumento di esilio forzato, di distruzione di una comunità, di un gruppo o di un popolo. Lo stupro è infine spettacolo: qualcosa che deve essere visto e sentito e raccontato agli altri. L'orrore palese del conflitto armato si somma alle violazioni conseguenti nel campo dei diritti umani; la guerra distrugge o limita severamente i diritti di base sociali, economici e politici di uomini e donne: mentre eserciti e/o milizie avanzano, le scuole chiudono, i servizi sanitari spariscono o diminuiscono, l'economia vacilla e la disoccupazione cresce. Ma la violenza sessuale, sebbene anche uomini la subiscano, non è il primo timore che stringe il cuore di un uomo quando viene arrestato, o quando la sua porta di casa viene buttata giù a calci alle due del mattino, o quando i soldati "nemici" entrano con i carri armati in città. È il primo terrore di una donna.
Era il 1992 quando in riferimento a ciò che accadeva in Bosnia-Erzegovina si cominciò a parlare di stupro di massa come arma da guerra. Durante il conflitto armato nella ex Jugoslavia lo stupro come strumento di guerra si rivelò persino più "efficace" dell'uccisione dei soldati nemici. Entrare in un piccolo paese, raggruppare le donne, violentarle di fronte a tutti era un mezzo sicuro per liberare il terreno: dopo gli stupri, la popolazione si spostava spontaneamente, fuggiva, e l'area poteva essere occupata in tutta tranquillità. Sia i carnefici sia le vittime erano entrambi sicuri delle implicazioni culturali legate alla violenza sessuale. Le condividevano.
Le donne dei Balcani spesso si sposano in età molto giovane, hanno bambini presto e ricevono solo un'istruzione di tipo primario. La società le percepisce come "inferiori" agli uomini e ci si aspetta da loro che siano umili e obbedienti, a casa e sul posto di lavoro. Questo subdolo e persistente non rispetto delle donne ha lastricato la strada che portò agli stupri di massa.
Lo scopo dei violentatori era di umiliare le donne così profondamente da far divenire i ricordi legati alla loro casa una sorgente di estrema sofferenza e paura. Tali memorie, infatti, tennero le donne lontane dalle abitazioni e dai villaggi in cui erano vissute. In questo senso, si può parlare di "stupro etnico", poiché finalizzato alla "pulizia etnica" di un'area. Ma le aggressioni in Bosnia presero anche un altro aspetto che definisce lo stupro etnico come assimilazione forzata ad un gruppo: lo stupro fu infatti usato per ingravidare le donne. I violentatori serbi pensavano di creare una Grande Serbia etnicamente omogenea facendo partorire bambini nati dallo stupro a donne musulmane. Nel pensiero patriarcale che fa da sostrato a questo tipo di ragionamento, è ovvio che se il padre è serbo, serbo sarà il figlio. Sebbene ciò sia avvenuto in un'epoca in cui non si ignora più il contributo genetico della madre al concepimento (e ciò è avvenuto nella seconda metà degli anni '50 dello scorso secolo, non prima), gli stupratori non considerarono il fatto che metà dell'eredità genetica del bambino sarebbe derivata dalla madre musulmana.
L'anno scorso una delegazione di parlamentari europei acconsentì ad ascoltare cinquanta sopravvissute, ma solo una riuscì effettivamente a parlare. La donna, con vistose cicatrici sulle braccia, spiegò che non era fuggita dal proprio villaggio nei pressi di Prijedor in Bosnia perché la sua giovane nuora era in procinto di partorire e lei era rimasta ad accudirla. Assieme al figlio più piccolo e a costei viveva nascosta in una cantina. Un gruppo di soldati serbi scoprì il rifugio e nonostante le sue implorazioni l'intero gruppo la stuprò. Affinché le sue urla non svegliassero il figlioletto, la donna si morse ripetutamente le braccia. La sua storia prese due ore per essere narrata, ed alla fine i volti dei parlamentari erano bianchi: una di essi dette di stomaco. Di comune accordo, la delegazione disse che non voleva ascoltare altri resoconti, uno era bastato.
Si stima che circa 60.000 donne, nella ex Jugoslavia, siano incorse nella stessa esperienza della donna che sconvolse la delegazione europea: troppe non sono più qui per raccontarla.

La cifra, in riferimento al conflitto in Ruanda, raggiunge e forse supera il mezzo milione. La maggior parte di delle vittime di stupro ruandesi sono anche state mutilate, in relazione alle loro caratteristiche "razziali": i nasi appuntiti e le dita lunghe, che generalmente caratterizzano i corpi delle donne Tutsi, sono stati tagliati via. I seni venivano amputati come ulteriore punizione. Numerose fra loro sono quelle che, sopravvissute alla prima ondata di violenza ma scopertesi incinte dei "figli dello stupro", si sono suicidate od hanno addirittura pagato altre persone affinché le uccidessero. Il 70% delle restanti contrasse il virus Hiv, e oggi molte sono già morte di Aids.

Violenza sessuale, schiavitù sessuale e prostituzione forzata sono fattori presenti da sempre nei conflitti armati. La violenza sessuale è una parte significativa del conflitto, un modo per terrorizzare intere comunità ed implementare politiche di genocidio e "pulizia etnica".
Oggi il diritto internazionale stabilisce che la violenza sessuale durante un conflitto è crimine di guerra, e che l'uso dello stupro è un crimine contro l'umanità. Il processo di tale sviluppo legislativo parte addirittura dal XIV secolo (con gli editti di Riccardo II d'Inghilterra) e passa attraverso il Codice Leiber della guerra civile americana, per arrivare alle Convenzioni dell'Aja e di Ginevra. Quest'ultima attesta che "le donne dovranno essere protette specificatamente contro ogni attacco al loro onore, in particolare contro lo stupro, la prostituzione forzata od ogni forma di assalto indecente".
Come è facile notare, nel 1949 lo stupro viene ancora definito come lesione all'onorabilità ed alla decenza, e non come lesione alla persona umana che lo subisce. Saranno i tribunali speciali internazionali per l'ex Jugoslavia ed il Ruanda, nella seconda metà degli anni '90 dello scorso secolo, a stabilire una visione diversa.
Nel 1998 il Tribunale internazionale per il Ruanda condannerà Akayesu, ex sindaco della città di Taba, per aver pianificato gli orrori degli stupri di massa nel distretto di sua competenza: il verdetto è il primo a punire la violenza carnale come atto di genocidio, perpetrato con l'intento di distruggere un gruppo mirato. L'unica donna a sedere in quella Corte, la giudice Navi Pillay, racconta: "Le prove erano evidenti e indiscutibili, ma il nostro problema era che non esisteva una definizione comunemente accettata dello stupro rispetto al diritto internazionale. Perché fosse accettata ne abbiamo creata una che è 'neutrà rispetto al genere e definisce lo stupro come un'invasione fisica di natura sessuale, commessa su una persona in circostanze di coercizione".
Tre anni dopo, nel febbraio 2001, sarà il Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia ad emettere una seconda sentenza storica. Zoran Vukovic, Radomir Kovac e Dragoljub Kunarac vengono riconosciuti colpevoli di numerosi stupri (alcuni commessi su bambine di dodici anni) e di aver venduto o affittato donne e ragazze a scopo di prostituzione ad altri soldati serbi. La Corte li condanna per crimini contro l'umanità, ed è la prima volta che la schiavitù sessuale viene definita entro tale cornice. La tortura delle donne è una parte intrinseca della guerra, spiegò la giudice Florence Mumba leggendo la sentenza: "Ciò che l'evidenza mostra sono donne e fanciulle musulmane, madri e figlie, spogliate delle ultime vestigia della dignità umana. Donne e ragazze trattate come beni mobili, oggetti di proprietà ad arbitraria disposizione delle forze di occupazione serbe".
Bakira Hasecic subì questa sorte nel 1992, nella città bosniaca di Visegrad, tristemente famosa per l'hotel "Vilina Vlas", un campo di stupro da cui pochissime vittime sono tornate. "Mentre mi violentavano gridavano: Non metterai al mondo altri piccoli turchi, ma piccoli cetnici questa volta.
Quest'odio si è trasmesso di generazione in generazione, dal tempo delle conquiste turche. Il non essere serba era la mia colpa. Non aveva alcuna importanza come io definivo me stessa. Ero bosniaca, ed ero musulmana, ed ero una donna. Ecco i motivi di quanto è accaduto".

E dove lo stupro non è perseguito con nettezza neppure dalla legge ordinaria, o viene considerato una "tradizione culturale" o un'offesa minore, diventa difficile operare. Ove ad esempio si pensa che le donne non abbiano il diritto di rifiutare atti sessuali all'interno del matrimonio, i loro stupratori si considerano pienamente legittimati qualora le tengano in qualità di "mogli".
"In Sierra Leone, i perpetratori hanno una visione molto ristretta di cosa sia una violenza sessuale. Se catturano o rapiscono una donna, la costringono a stare nella loro casa e le danno del cibo, credono di avere tutto il diritto di stuprarla. Portati davanti ai tribunali negano l'addebito se viene formulato come stupro, ma quando si chiede loro se avevano 'donne a disposizione per soddisfarsì rispondono di sì", dice Maxine Marcus, che ha partecipato come avvocata delle vittime al Tribunale speciale internazionale per la Sierra Leone, "Qui l'odio tribale non c'entra: le Forze di Difesa Civile, e cioè le milizie pro-governative, assalivano donne del loro stesso gruppo. Le consideravano 'razioni di guerrà, risorse naturali di cui disporre a piacimento. C'è voluto molto tempo per costruire rapporti di fiducia con le testimoni sopravvissute: queste donne venivano stigmatizzate dalle loro stesse comunità, svilite e insultate da parenti e vicini di casa. Non erano in grado di cominciare a rielaborare il trauma subito, perché il contesto attorno a loro non considerava lo stupro un'offesa alle loro persone".

Nella Repubblica Democratica del Congo, decine di migliaia di donne sono state stuprate pubblicamente dagli uomini delle varie fazioni combattenti, in quelle che Juliane Kippenberg di Human Rights Watch ha definito "cerimonie rituali di violenza", ma un numero ancora maggiore è stato assalito in strada o nella propria stessa casa. Mentre scrivo (marzo 2007), attorno all'ospedale Panzi a Bukavu bivaccano circa 250 donne, in attesa di essere ricoverate per sottoporsi ad interventi di chirurgia: i loro genitali sono stati devastati dagli stupri di miliziani e soldati governativi. "Non abbiamo letti e spazio a sufficienza", racconta il primario, il dottor Denis Mukwege Mukengere, "Ricoveriamo in media dodici minorenni violentate al giorno. Il mese scorso circa trecento fra donne e bambine si sono sottoposte ad interventi di chirurgia riparativa. La loro età va dai tre anni agli ottanta. Molte sono state contagiate dall'Hiv".

Lo stupro in sè è già un'orribile esperienza, ma le sopravvissute ad esso continuano a subirne gli effetti anche dopo. Spesso soffrono di gravi problemi di salute fisica e mentale. Le donne sposate che sono sopravvissute alla violenza possono essere ripudiate dai loro mariti ed in alcuni casi devono darsi alla prostituzione per poter vivere. Le sopravvissute nubili possono non riuscire più a sposarsi, perché i membri delle loro comunità le considerano "guastate". Le testimonianze rivelano che sovente le donne stuprate hanno paura di cercare rifugio nei campi profughi, perché temono l'ostracismo dei loro stessi parenti che vi si trovano; inoltre la cronica carenza, in tali campi, di cure mediche e psicologiche tende ad aggravare la loro situazione, piuttosto che a migliorarla. Molte donne, temendo ritorsioni o a causa dei tabù che circondano la violenza sessuale, non denunciano gli abusi subiti neppure quando questo si rende possibile.
Come una donna del Darfur, in Sudan, ha detto ai ricercatori di Amnesty International nel 2004: "Nascondono questa vergogna nei loro cuori". Nella regione decine di migliaia di persone sono morte a causa del conflitto interno che in tre anni ha prodotto due milioni e mezzo di rifugiati. Il governo di Khartoum si è rifiutato di investigare sulle accuse di crimini contro l'umanità commessi da eserciti e milizie, così questo lavoro lo sta facendo un Tribunale internazionale delle Nazioni Unite.
Il principale pubblico ministero, Luis Moreno-Ocampo, inizialmente dichiarò che le accuse di stupro non sarebbero state vagliate, ma l'evidenza delle testimonianze dirette (più di cento) e le migliaia di documenti raccolti lo hanno indotto a cambiare idea. Halima Bashir è una delle sopravvissute che probabilmente il giudice ascolterà. Nello scorso dicembre è stata torturata e ha subito stupri di gruppo per aver denunciato un attacco congiunto delle milizie islamiste (Janjawid) e dei soldati governativi ad una scuola elementare femminile. Durante l'aggressione, finalizzata ad una violenza carnale di massa, sono state violate bambine dagli otto ai tredici anni.
"Erano sotto shock", racconta Halima, "Sanguinanti, piangevano e gridavano.
Era terribile. Poiché ho detto pubblicamente quanto era accaduto, le autorità mi hanno arrestata. Te lo facciamo vedere noi cos'è uno stupro, mi hanno detto mentre mi picchiavano. Sono stata battuta e battuta. La notte, tre uomini mi hanno violentata. Il giorno dopo è andata allo stesso modo, solo che gli uomini erano differenti. Tortura e stupro, ogni giorno, tortura e stupro".
In Darfur, generalmente, una donna stuprata è una donna rovinata: il biasimo dell'atto violento ricade su di lei, ed in molti casi viene espulsa dal nucleo familiare di cui ha causato la "vergogna". Molti dei bimbi nati dalle violenze carnali vengono abbandonati. Gli stupri di massa nella regione si sono rivelati il mezzo più efficace per terrorizzare comunità tribali, spezzare la loro volontà di resistenza e farne dei profughi.

La realtà è che durante ogni guerra le donne e le ragazze divengono letteralmente i bersagli dei combattenti. Non si tratta solo di genocidio riproduttivo, di sgomberare aree e ridurre in frantumi aggregazioni umane: qualsiasi fantasia di violenza e tortura può essere effettivamente messa in opera. Soldati regolari ed irregolari sanno alla perfezione che, nel dopoguerra, le loro azioni saranno sì biasimate, ma all'interno di una nozione culturale largamente diffusa, ovvero che gli uomini fanno cose irrazionali durante un conflitto armato. Inoltre, potranno usare un tipo di difesa abbastanza consueta: obbedivo agli ordini. Tristemente, non è neppure una menzogna: nei tribunali internazionali molti generali hanno attestato che ciò è stato fatto per "alzare il morale dei nostri combattenti".
Ci si può ovviamente chiedere quanto conti e quanto conterà in futuro l'aver definito gli stupri durante i conflitti armati come "crimini di guerra" (la guerra è di per sè un crimine, il peggiore che l'umanità infligge a se stessa) o che tipo di compensazione i tribunali internazionali possano fornire alle vittime. È chiaro che le donne e le ragazze violate non dimenticheranno mai le atrocità subite. Depressione, paura degli uomini, sfiducia e disistima sono esperienze comuni a chi sopravvive allo stupro. Per molti secoli esso è stato definito non come un attacco violento alla donna, ma come l'ingiuria alla "proprietà" di un altro uomo. Sino ad ora è stata l'esperienza maschile a costruire le norme per considerare cosa sia ingiusto in tempo di guerra. Il fatto che una nuova cornice giuridica nasca dalla narrazione dell'esperienza femminile, e demistifichi l'oggettificazione delle donne, ha un valore simbolico assai profondo. Il diritto internazionale è, naturalmente, lungi dall'essere perfetto, ma le donne come Bakira Hasecic dicono che continueranno a testimoniare e a presentarsi nei tribunali affinché chi ha loro inflitto tanto dolore venga posto di fronte alle sue responsabilità: "All'inizio ti chiedi perché dovresti andare dai giudici a rivivere quegli orrori in pubblico, ma dopo averlo fatto ti senti meglio. Guardare in faccia il proprio violentatore e costringerlo ad affrontare la verità è tutta la giustizia che possiamo avere".