Articolo inviato dalle ACLI di Cerenusco
Devo dire che mi è molto piaciuto il titolo “conosciamo la nostra chiesa”: sottolineo la “nostra” perché la chiesa è la casa, è il luogo di riferimento per pregare, per cantare, per ricevere i sacramenti ed anche per ritrovarsi. E’ una casa costruita sulla roccia che produce e offre amore: basta partecipare ad una liturgia domenicale così bella e partecipata, ad un matrimonio, ad un funerale. E’ la casa, il tetto, la sicurezza, il calore. Oggi si sente spesso parlare di chiesa-parrocchia in senso negativo, vi si evidenziano tutti i difetti; invece, se rovesciamo la medaglia, possiamo trovare nella chiesa una serie di occasioni che arricchiscono le singole persone, le famiglie e i vari gruppi che popolano la nostra società.
Cinquant’anni or sono sarebbe stato quasi impossibile organizzare un convegno come questo perché la nostra chiesa allora, oltre a essere comunità di fede, era controllo sociale, era mettere in riga, era una serie di obblighi. Era una chiesa statica: dopo il Concilio di Trento (e questo non vuole essere un giudizio ma una semplice presa d’atto), si era creata una struttura rigida, dove il prete aveva un ruolo ben stabilito e il laico era bravo se lavorava e non poneva molti problemi.
Chi era il laico di allora? Il laico è descritto nell’Enciclica Vehementer di Pio X, pubblicata nel 1906, come “moltitudine, fedele gregge che deve seguire i dettami dei pastori”. Con Pio XI, il laico, soprattutto quello organizzato nell’Azione Cattolica, è un cristiano formato che viene considerato come in una specie di “milizia” da usare ed eventualmente da opporre al Regime Fascista. Nel 1943, Pio XII pubblica l’Enciclica “Mistici corporis” nella quale, seguendo l’apologo di San Paolo sul corpo e le sue membra, si fa intravedere, come per i vasi intercomunicanti, esiste un certo legame, una interdipendenza tra le varie componenti della chiesa. Venendo al dopo guerra, si sviluppa la concezione di un laicato delegato dalla gerarchia a fare apostolato nella società, permanendo ancora quella vecchia tendenza ad usare il laicato come recitava un canto di quegli anni “qual falange di Cristo Redentore... un esercito all’altar”, come la manifestazione dei baschi verdi organizzata da Luigi Gedda, negli anni ‘50. In quegli anni però si manifestava un’altra concezione dell’essere laici: esemplari sono le testimonianze di De Gasperi (rispettoso della laicità nella novella democrazia italiana), di Mario Rossi che si dimette dalla dirigenza dell’Azione Cattolica e di Carlo Carretto che va nel deserto per un periodo di riflessione. Questi contrasti indicano che c’è qualcosa in ebollizione; in effetti, questi fermenti trovano espressione negli atti del Concilio Vaticano in cui al laico viene riconosciuta la sua dignità di Sacerdozio, Profezia e Regalità che riceve con il battesimo.
Il Concilio definisce la chiesa “popolo di Dio in cammino”: cammino che ogni giorno presenta una nuova fatica, una nuova conquista, un qualcosa di sempre rinnovato. La definizione conciliare sulla Chiesa “Lumen Gentium” è stata una scelta felice, in sintonia con i tempi e con il tempo moderno che viviamo oggi. Tra l’altro, un vescovo che ha partecipato al Concilio una volta disse “noi vescovi occidentali rimanevamo meravigliati a sentire i vescovi orientali a parlare dello Spirito Santo”. Anche questa è un’altra novità che ha portato la chiesa ad essere concepita come “chiesa di comunione” che ha bisogno di più laici responsabili, per cui, il fenomeno della mancanza del clero, anziché essere considerato problema, perché non poterlo vedere come “segno dei tempi”?
Con il Concilio il laico ha preso in mano la Bibbia, la Teologia, la storia della chiesa: una minoranza certamente qualificata di laici ha saputo mostrare la propria autorevolezza, laici che hanno vissuto una esperienza ecclesiale forte, come Giuseppe Lazzati, vari dirigenti dell’Azione Cattolica supportati da una Conferenza Episcopale intelligente (sto parlando degli anni ‘70), laici che hanno fatto scelte politiche significative, gruppi di laici attorno a qualche sacerdote più vivace che esprimono idee impegnative.
Mi ricordo durante un funerale della mamma di un prete, il figlio lesse la lettera-testamento che, tra l’altro, riportava la frase “la Chiesa l’ho proprio goduta”, per dire che la chiesa l’aveva proprio sentita sua, talmente si era immedesimata nella comunità, frutto del Concilio Vaticano II° che ha portato una serie di novità quali:
1. riforma liturgica che ha entusiasmato la grandissima parte della chiesa: la liturgia era comprensibile, oltre che semplificata, era celebrata in lingua locale ed ha permesso l’accesso alla Bibbia da parte di gran parte della gente;
2. il documento conciliare sulla libertà religiosa che ha parlato del primato della coscienza dando risposte a tanti quesiti sorti negli ultimi secoli;
3. la chiesa non più vista come l’anti-mondo (il progetto iniziale dello schema 13 era sulla chiesa e il mondo contemporaneo) prevalse fra i padri conciliari “la chiesa nel mondo contemporaneo”: quindi un significativo impegno della chiesa nel mondo;
4. un nuovo rapporto di collaborazione fra le chiese cristiane che ha dato un forte impulso all’ecumenismo all’interno della Chiesa Cattolica;
5. la fine dell’antisemitismo ufficiale cattolico (vedasi la preghiera universale del Venerdì Santo che fino al 1955 recitava “oremus pro perfidis Iudeis”, poi fu corretta con una richiesta di preghiera per la conversione degli Ebrei) e, con la riforma conciliare, divenne una preghiera per il Popolo Eletto;
6. l’incontro con l’Islam.
Contemporaneamente a questa situazione delle diocesi e delle parrocchie, sono nati e si sono sviluppati e sono anche stati caldeggiati dall’autorità soprattutto centrale della chiesa, soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II°, una serie di movimenti che attutivano gli stimoli del periodo postconciliare perché evidenziavano soprattutto il carisma personale dei fondatori dei movimenti stessi oppure centrando l’attenzione sulla figura carismatica del Pontefice.
Di fronte a questa doppia realtà, a questa riproposizione di due stili del come vivere la comunità, il laico non capisce, rimane perplesso, non osa prendersi responsabilità, vuoi perché “tiene famiglia”, vuoi perché i problemi della chiesa vengono ancora considerati dalla gran parte della gente come roba da preti, ma soprattutto perché c’è la paura dell’impegno, di assumersi delle responsabilità che esigerebbero costanza e tempo. Sembrerebbe oggi di essere in un tempo in cui il seme del Concilio, messo a dimora, si trasforma e, a tempo opportuno, si svilupperà il frutto. Però questo momento storico è un momento di sofferenza, di smarrimento che esige pazienza, lungimiranza, studio, impegno nella formazione di gruppi e delle comunità, preghiera.
D’altra parte la ridefinizione della chiesa come “popolo di Dio in cammino verso la salvezza” ha portato alla nascita dei Consigli Pastorali ai vari livelli: in essi al laico viene affidato il compito di “consigliare”, un compito che è stato interpretato secondo le sensibilità e il grado di preparazione e di maturità delle varie comunità cristiane locali.
La mia esperienza quasi trentennale di membro del Consiglio Pastorale della mia parrocchia (che conta dodicimila abitanti) è stata molto interessante: mi ha portato a studiare, leggere riviste, ad impegnarmi in vari campi: catechesi, problemi sociali, accoglienza degli stranieri; ho avuto anche la fortuna di incontrare gruppi di cristiani dell’Europa Occidentale e di quella Orientale. Tutto ciò mi ha dato la possibilità di intervenire nel Consiglio Pastorale con coraggio ma anche con competenza conquistata sul campo sui vari temi dell’incontro con lo straniero, del rapporto tra le chiese cristiane, temi che nelle parrocchie quasi mai trovano spazio.
Sui consigli pastorali si sentono continue lamentazioni, si dice che non servono a nulla, tanto i preti fanno sempre quello che vogliono. Invece se li vediamo come una struttura di comunione (in una chiesa che per più di mille anni, è stata una chiesa eminentemente clericale) possiamo considerarli come uno strumento che consente un cammino che, giorno dopo giorno possa portare gradualmente ad una chiesa-comunione.
Significativo il fatto che il consiglio pastorale venga eletto durante la liturgia domenicale dopo una breve omelia, in due turni: nel primo viene dato un foglio bianco in cui ciascuno propone una serie di nomi di persone che, secondo lui, sono adatte ad entrare nell’organismo pastorale; dopo quindici giorni, una seconda votazione con l’elenco delle persone che hanno avuto il maggior numero di segnalazioni. A elezioni terminate: i nuovi membri del consiglio pastorale vengono presentati alla comunità durante la principale liturgia domenicale.
Il Cardinale Martini ha stabilito, a suo tempo, che il consiglio pastorale abbia una durata di cinque anni e le elezioni si devono tenere nella domenica anniversario della Dedicazione del Duomo, così la novità conciliare entra saggiamente nella tradizione della chiesa locale.
Questo per dimostrare che il consiglio pastorale è uno strumento fondamentale: però bisogna crederci, bisogna impegnarsi e, soprattutto è necessario che nella chiesa locale si cambi mentalità e si rifletta e si programmi alla luce della Parola di Dio: questo è fondamentale. Altrimenti, sì che non cambia nulla perché siamo ancora “alla moltitudine, fedele gregge, che deve seguire i dettami dei pastori”.
Ovviamente l’esperienza dei Consigli Pastorali ha trovato tutti impreparati: il clero non era in grado di capire quale collaborazione potessero dare i laici, mentre questi ultimi non si erano mai avventurati all’interno dei complessi meandri delle comunità cristiane; quindi si sperimentò il possibile con anche comprensibili esagerazioni degli uni e degli altri. E’ di questi anni il fenomeno della maturazione della propria capacità del movimento operaio e di quello femminile, che non hanno lasciato insensibili le comunità cristiane; e Giovanni XXIII, nella “Pacem in terris”, vede questi due fenomeni come “i segni” di un mondo che cambia. Questi fenomeni furono letti in modo molto diverso nel post-concilio: perciò alcuni definiscono questo un momento di “sistemazione” e altri di “restaurazione”: una situazione simile a quella vissuta dal popolo ebreo che, stanco del lungo cammino nel deserto del Sinai, spossato per la mancanza dell’essenziale per la vita, ricorda con nostalgia le sicure cipolle d’Egitto.
Oggi, in tutta l’Europa Occidentale, si assiste ad un ridimensionamento strutturale della Chiesa Cattolica. Come si diceva all’inizio, nei tempi passati, c’erano parrocchie efficienti e ben organizzate; oggi siamo in presenza di comunità di parrocchie (comunità pastorali), un solo parroco e tanti collaboratori con incarichi articolati: anche in Italia si assiste ad un diminuzione costante del clero. La Chiesa di Milano ha attualmente 5.300.000 abitanti, (la percentuale di presenza alla liturgia domenicale si aggira attorno al 20%), 2.200 preti, 90 diaconi. Ogni anno ci sono 50 preti in meno. Una diocesi enorme, ben organizzata, ma soprattutto ben affiatata grazie ai grandi arcivescovi del secolo scorso: Schuster, Montini e Martini. L’attuale arcivescovo Tettamanzi sta seguendo le orme di Martini con un suo stile più umano, coadiuvato da sette vescovi ausiliari che presiedono le sette zone pastorali, organizzati in 75 decanati e 1.150 parrocchie.
Nella mia città 30.000 abitanti, un tempo aveva tre parrocchie; ora c’è una comunità pastorale con un parroco, tre preti coadiutori, due preti di supporto, un diacono, una suora e dodici laici. Forse, per la Germania, questo è un fatto di normale amministrazione, per l’Italia, è una decisione rivoluzionaria in cui dei laici sono corresponsabili della parrocchia. Per queste scelte forse è presto, oppure forse è tardi, perché questi indirizzi andavano previsti per tempo; per Milano forse siamo al momento giusto: dopo decenni di accostamento alla Bibbia (durante l’episcopato di Martini, una volta al mese, il Duomo era gremitissimo per “l’ascolto della Parola”), l’intera comunità cristiana è cresciuta ed ora, abituata ai pascoli verdeggianti e alle fontane più pure, (ricordate il salmo “Il Signore è mio pastore) è pronta per dare nuove risposte alle molte problematiche del futuro.
Nonostante questo, oggi il laico non sembra ancora avere la coscienza della propria dignità. Oggi il laico non si sente ancora colui che “ha il compito preciso di introdurre le voci del tempo nella compagine eterna della chiesa, che deve gettare un ponte sul mondo ponendo fine a quell’isolamento che impedisce alla chiesa di agire sugli uomini del nostro tempo. Il parroco non deve rifiutare questa salutare esperienza che gli arriva a ondate portategli da anime intelligenti e appassionate.” (Mazzolari- lettera sulla Parrocchia - 1937).
Ecco allora il ruolo principe del laico: fare in modo che la parrocchia non sia fatta solo da “tre tende appartate per il Signore, per Mosè e per Elia”, come nel racconto evangelico della Trasfigurazione, pericolo tutt’altro che remoto, ma una chiesa tra le case, che annunci la morte e la resurrezione del Signore con le opere, con l’attenzione all’ascolto, con l’essere vicina alle persone, soprattutto quelle più deboli. Il laico quindi è colui che sta sulla porta della chiesa, che tiene aperta la porta in modo da costringere quelli che sono dentro a vedere quelli che suono fuori e viceversa, perché i membri della comunità ecclesiale, “come uomini e cittadini, chiedano ragione agli ingiusti delle loro ingiustizie, ai prepotenti delle loro violenze, di disubbidire a chi pretendesse di far tacere la coscienza, a non rimanere passivi contro il male e a far valere a propria difesa i diritti umani, usando tutti i mezzi leciti per difendere il bene comune”. Questo sarà possibile se la comunità ecclesiale si metterà in continuo ascolto della Parola di Dio, attraverso un lavoro di formazione e di umanizzazione, accompagnato anche di una certa sobrietà nell’uso dei soldi e dei mezzi a disposizione, riconiugando la profezia in senso moderno che potrebbe voler dire aprire nuovi orizzonti di speranza.
Tutto ciò sarà possibile anche se sappiamo che l’uomo è l’uomo fallibile e peccatore e, come diceva S. Ambrogio, addirittura che “la chiesa è casta e meretrice”, una chiesa peccatrice perché è illuminata sì dallo Spirito Santo ma condotta da uomini, da uomini che sbagliano anche loro e che molte volte non capiscono proprio come è scritto nel Nuovo Testamento “Non intendete e non capite ancora” (Mc. 18,17); “come mai non capite ancora” (Mt. 16,11); “ma non compresero nulla” (Lc 18,34). Allora gli apostoli certamente non capivano: è una situazione umana che può avvenire in tutte le latitudini e in tutti i tempi.
Infine noi laici, ancora, grazie alla nostra molteplice esperienza di persone sposate che hanno fatto fatica ad educare e a crescere i figli, esperienza interessante ma anche piena di difficoltà, che abbiamo sperimentato la vita della fabbrica dove, assieme a qualche sopruso, abbiamo sperimentato anche la grande solidarietà tra i colleghi di lavoro, solidarietà che non abbiamo quasi mai trovato in altri ambienti. Il sentirsi pienamente nel mondo, come parte integrante della società, senza di volta in volta caratterizzarsi con dichiarazioni e distinguo, ma con un esempio il più possibile coerente e non troppo propagandato (“è meglio essere cristiani che dirsi cristiani” - card. Tettamanzi), grazie alla possibilità che ci viene data dall’ascolto e dalla meditazione della Parola di Dio e dai Sacramenti che ci vengono profusi nella comunità ecclesiale, abbiamo il dovere, come si dice nella lettera a Diogneto “di abitare in case normali, di vestirci come tutti gli altri, di fare una vita normale ma di essere “quello che è l’anima per il corpo”.
Angelo Levati
Friburgo 27 ottobre 2007
Chi era il laico di allora? Il laico è descritto nell’Enciclica Vehementer di Pio X, pubblicata nel 1906, come “moltitudine, fedele gregge che deve seguire i dettami dei pastori”. Con Pio XI, il laico, soprattutto quello organizzato nell’Azione Cattolica, è un cristiano formato che viene considerato come in una specie di “milizia” da usare ed eventualmente da opporre al Regime Fascista. Nel 1943, Pio XII pubblica l’Enciclica “Mistici corporis” nella quale, seguendo l’apologo di San Paolo sul corpo e le sue membra, si fa intravedere, come per i vasi intercomunicanti, esiste un certo legame, una interdipendenza tra le varie componenti della chiesa. Venendo al dopo guerra, si sviluppa la concezione di un laicato delegato dalla gerarchia a fare apostolato nella società, permanendo ancora quella vecchia tendenza ad usare il laicato come recitava un canto di quegli anni “qual falange di Cristo Redentore... un esercito all’altar”, come la manifestazione dei baschi verdi organizzata da Luigi Gedda, negli anni ‘50. In quegli anni però si manifestava un’altra concezione dell’essere laici: esemplari sono le testimonianze di De Gasperi (rispettoso della laicità nella novella democrazia italiana), di Mario Rossi che si dimette dalla dirigenza dell’Azione Cattolica e di Carlo Carretto che va nel deserto per un periodo di riflessione. Questi contrasti indicano che c’è qualcosa in ebollizione; in effetti, questi fermenti trovano espressione negli atti del Concilio Vaticano in cui al laico viene riconosciuta la sua dignità di Sacerdozio, Profezia e Regalità che riceve con il battesimo.
Il Concilio definisce la chiesa “popolo di Dio in cammino”: cammino che ogni giorno presenta una nuova fatica, una nuova conquista, un qualcosa di sempre rinnovato. La definizione conciliare sulla Chiesa “Lumen Gentium” è stata una scelta felice, in sintonia con i tempi e con il tempo moderno che viviamo oggi. Tra l’altro, un vescovo che ha partecipato al Concilio una volta disse “noi vescovi occidentali rimanevamo meravigliati a sentire i vescovi orientali a parlare dello Spirito Santo”. Anche questa è un’altra novità che ha portato la chiesa ad essere concepita come “chiesa di comunione” che ha bisogno di più laici responsabili, per cui, il fenomeno della mancanza del clero, anziché essere considerato problema, perché non poterlo vedere come “segno dei tempi”?
Con il Concilio il laico ha preso in mano la Bibbia, la Teologia, la storia della chiesa: una minoranza certamente qualificata di laici ha saputo mostrare la propria autorevolezza, laici che hanno vissuto una esperienza ecclesiale forte, come Giuseppe Lazzati, vari dirigenti dell’Azione Cattolica supportati da una Conferenza Episcopale intelligente (sto parlando degli anni ‘70), laici che hanno fatto scelte politiche significative, gruppi di laici attorno a qualche sacerdote più vivace che esprimono idee impegnative.
Mi ricordo durante un funerale della mamma di un prete, il figlio lesse la lettera-testamento che, tra l’altro, riportava la frase “la Chiesa l’ho proprio goduta”, per dire che la chiesa l’aveva proprio sentita sua, talmente si era immedesimata nella comunità, frutto del Concilio Vaticano II° che ha portato una serie di novità quali:
1. riforma liturgica che ha entusiasmato la grandissima parte della chiesa: la liturgia era comprensibile, oltre che semplificata, era celebrata in lingua locale ed ha permesso l’accesso alla Bibbia da parte di gran parte della gente;
2. il documento conciliare sulla libertà religiosa che ha parlato del primato della coscienza dando risposte a tanti quesiti sorti negli ultimi secoli;
3. la chiesa non più vista come l’anti-mondo (il progetto iniziale dello schema 13 era sulla chiesa e il mondo contemporaneo) prevalse fra i padri conciliari “la chiesa nel mondo contemporaneo”: quindi un significativo impegno della chiesa nel mondo;
4. un nuovo rapporto di collaborazione fra le chiese cristiane che ha dato un forte impulso all’ecumenismo all’interno della Chiesa Cattolica;
5. la fine dell’antisemitismo ufficiale cattolico (vedasi la preghiera universale del Venerdì Santo che fino al 1955 recitava “oremus pro perfidis Iudeis”, poi fu corretta con una richiesta di preghiera per la conversione degli Ebrei) e, con la riforma conciliare, divenne una preghiera per il Popolo Eletto;
6. l’incontro con l’Islam.
Contemporaneamente a questa situazione delle diocesi e delle parrocchie, sono nati e si sono sviluppati e sono anche stati caldeggiati dall’autorità soprattutto centrale della chiesa, soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II°, una serie di movimenti che attutivano gli stimoli del periodo postconciliare perché evidenziavano soprattutto il carisma personale dei fondatori dei movimenti stessi oppure centrando l’attenzione sulla figura carismatica del Pontefice.
Di fronte a questa doppia realtà, a questa riproposizione di due stili del come vivere la comunità, il laico non capisce, rimane perplesso, non osa prendersi responsabilità, vuoi perché “tiene famiglia”, vuoi perché i problemi della chiesa vengono ancora considerati dalla gran parte della gente come roba da preti, ma soprattutto perché c’è la paura dell’impegno, di assumersi delle responsabilità che esigerebbero costanza e tempo. Sembrerebbe oggi di essere in un tempo in cui il seme del Concilio, messo a dimora, si trasforma e, a tempo opportuno, si svilupperà il frutto. Però questo momento storico è un momento di sofferenza, di smarrimento che esige pazienza, lungimiranza, studio, impegno nella formazione di gruppi e delle comunità, preghiera.
D’altra parte la ridefinizione della chiesa come “popolo di Dio in cammino verso la salvezza” ha portato alla nascita dei Consigli Pastorali ai vari livelli: in essi al laico viene affidato il compito di “consigliare”, un compito che è stato interpretato secondo le sensibilità e il grado di preparazione e di maturità delle varie comunità cristiane locali.
La mia esperienza quasi trentennale di membro del Consiglio Pastorale della mia parrocchia (che conta dodicimila abitanti) è stata molto interessante: mi ha portato a studiare, leggere riviste, ad impegnarmi in vari campi: catechesi, problemi sociali, accoglienza degli stranieri; ho avuto anche la fortuna di incontrare gruppi di cristiani dell’Europa Occidentale e di quella Orientale. Tutto ciò mi ha dato la possibilità di intervenire nel Consiglio Pastorale con coraggio ma anche con competenza conquistata sul campo sui vari temi dell’incontro con lo straniero, del rapporto tra le chiese cristiane, temi che nelle parrocchie quasi mai trovano spazio.
Sui consigli pastorali si sentono continue lamentazioni, si dice che non servono a nulla, tanto i preti fanno sempre quello che vogliono. Invece se li vediamo come una struttura di comunione (in una chiesa che per più di mille anni, è stata una chiesa eminentemente clericale) possiamo considerarli come uno strumento che consente un cammino che, giorno dopo giorno possa portare gradualmente ad una chiesa-comunione.
Significativo il fatto che il consiglio pastorale venga eletto durante la liturgia domenicale dopo una breve omelia, in due turni: nel primo viene dato un foglio bianco in cui ciascuno propone una serie di nomi di persone che, secondo lui, sono adatte ad entrare nell’organismo pastorale; dopo quindici giorni, una seconda votazione con l’elenco delle persone che hanno avuto il maggior numero di segnalazioni. A elezioni terminate: i nuovi membri del consiglio pastorale vengono presentati alla comunità durante la principale liturgia domenicale.
Il Cardinale Martini ha stabilito, a suo tempo, che il consiglio pastorale abbia una durata di cinque anni e le elezioni si devono tenere nella domenica anniversario della Dedicazione del Duomo, così la novità conciliare entra saggiamente nella tradizione della chiesa locale.
Questo per dimostrare che il consiglio pastorale è uno strumento fondamentale: però bisogna crederci, bisogna impegnarsi e, soprattutto è necessario che nella chiesa locale si cambi mentalità e si rifletta e si programmi alla luce della Parola di Dio: questo è fondamentale. Altrimenti, sì che non cambia nulla perché siamo ancora “alla moltitudine, fedele gregge, che deve seguire i dettami dei pastori”.
Ovviamente l’esperienza dei Consigli Pastorali ha trovato tutti impreparati: il clero non era in grado di capire quale collaborazione potessero dare i laici, mentre questi ultimi non si erano mai avventurati all’interno dei complessi meandri delle comunità cristiane; quindi si sperimentò il possibile con anche comprensibili esagerazioni degli uni e degli altri. E’ di questi anni il fenomeno della maturazione della propria capacità del movimento operaio e di quello femminile, che non hanno lasciato insensibili le comunità cristiane; e Giovanni XXIII, nella “Pacem in terris”, vede questi due fenomeni come “i segni” di un mondo che cambia. Questi fenomeni furono letti in modo molto diverso nel post-concilio: perciò alcuni definiscono questo un momento di “sistemazione” e altri di “restaurazione”: una situazione simile a quella vissuta dal popolo ebreo che, stanco del lungo cammino nel deserto del Sinai, spossato per la mancanza dell’essenziale per la vita, ricorda con nostalgia le sicure cipolle d’Egitto.
Oggi, in tutta l’Europa Occidentale, si assiste ad un ridimensionamento strutturale della Chiesa Cattolica. Come si diceva all’inizio, nei tempi passati, c’erano parrocchie efficienti e ben organizzate; oggi siamo in presenza di comunità di parrocchie (comunità pastorali), un solo parroco e tanti collaboratori con incarichi articolati: anche in Italia si assiste ad un diminuzione costante del clero. La Chiesa di Milano ha attualmente 5.300.000 abitanti, (la percentuale di presenza alla liturgia domenicale si aggira attorno al 20%), 2.200 preti, 90 diaconi. Ogni anno ci sono 50 preti in meno. Una diocesi enorme, ben organizzata, ma soprattutto ben affiatata grazie ai grandi arcivescovi del secolo scorso: Schuster, Montini e Martini. L’attuale arcivescovo Tettamanzi sta seguendo le orme di Martini con un suo stile più umano, coadiuvato da sette vescovi ausiliari che presiedono le sette zone pastorali, organizzati in 75 decanati e 1.150 parrocchie.
Nella mia città 30.000 abitanti, un tempo aveva tre parrocchie; ora c’è una comunità pastorale con un parroco, tre preti coadiutori, due preti di supporto, un diacono, una suora e dodici laici. Forse, per la Germania, questo è un fatto di normale amministrazione, per l’Italia, è una decisione rivoluzionaria in cui dei laici sono corresponsabili della parrocchia. Per queste scelte forse è presto, oppure forse è tardi, perché questi indirizzi andavano previsti per tempo; per Milano forse siamo al momento giusto: dopo decenni di accostamento alla Bibbia (durante l’episcopato di Martini, una volta al mese, il Duomo era gremitissimo per “l’ascolto della Parola”), l’intera comunità cristiana è cresciuta ed ora, abituata ai pascoli verdeggianti e alle fontane più pure, (ricordate il salmo “Il Signore è mio pastore) è pronta per dare nuove risposte alle molte problematiche del futuro.
Nonostante questo, oggi il laico non sembra ancora avere la coscienza della propria dignità. Oggi il laico non si sente ancora colui che “ha il compito preciso di introdurre le voci del tempo nella compagine eterna della chiesa, che deve gettare un ponte sul mondo ponendo fine a quell’isolamento che impedisce alla chiesa di agire sugli uomini del nostro tempo. Il parroco non deve rifiutare questa salutare esperienza che gli arriva a ondate portategli da anime intelligenti e appassionate.” (Mazzolari- lettera sulla Parrocchia - 1937).
Ecco allora il ruolo principe del laico: fare in modo che la parrocchia non sia fatta solo da “tre tende appartate per il Signore, per Mosè e per Elia”, come nel racconto evangelico della Trasfigurazione, pericolo tutt’altro che remoto, ma una chiesa tra le case, che annunci la morte e la resurrezione del Signore con le opere, con l’attenzione all’ascolto, con l’essere vicina alle persone, soprattutto quelle più deboli. Il laico quindi è colui che sta sulla porta della chiesa, che tiene aperta la porta in modo da costringere quelli che sono dentro a vedere quelli che suono fuori e viceversa, perché i membri della comunità ecclesiale, “come uomini e cittadini, chiedano ragione agli ingiusti delle loro ingiustizie, ai prepotenti delle loro violenze, di disubbidire a chi pretendesse di far tacere la coscienza, a non rimanere passivi contro il male e a far valere a propria difesa i diritti umani, usando tutti i mezzi leciti per difendere il bene comune”. Questo sarà possibile se la comunità ecclesiale si metterà in continuo ascolto della Parola di Dio, attraverso un lavoro di formazione e di umanizzazione, accompagnato anche di una certa sobrietà nell’uso dei soldi e dei mezzi a disposizione, riconiugando la profezia in senso moderno che potrebbe voler dire aprire nuovi orizzonti di speranza.
Tutto ciò sarà possibile anche se sappiamo che l’uomo è l’uomo fallibile e peccatore e, come diceva S. Ambrogio, addirittura che “la chiesa è casta e meretrice”, una chiesa peccatrice perché è illuminata sì dallo Spirito Santo ma condotta da uomini, da uomini che sbagliano anche loro e che molte volte non capiscono proprio come è scritto nel Nuovo Testamento “Non intendete e non capite ancora” (Mc. 18,17); “come mai non capite ancora” (Mt. 16,11); “ma non compresero nulla” (Lc 18,34). Allora gli apostoli certamente non capivano: è una situazione umana che può avvenire in tutte le latitudini e in tutti i tempi.
Infine noi laici, ancora, grazie alla nostra molteplice esperienza di persone sposate che hanno fatto fatica ad educare e a crescere i figli, esperienza interessante ma anche piena di difficoltà, che abbiamo sperimentato la vita della fabbrica dove, assieme a qualche sopruso, abbiamo sperimentato anche la grande solidarietà tra i colleghi di lavoro, solidarietà che non abbiamo quasi mai trovato in altri ambienti. Il sentirsi pienamente nel mondo, come parte integrante della società, senza di volta in volta caratterizzarsi con dichiarazioni e distinguo, ma con un esempio il più possibile coerente e non troppo propagandato (“è meglio essere cristiani che dirsi cristiani” - card. Tettamanzi), grazie alla possibilità che ci viene data dall’ascolto e dalla meditazione della Parola di Dio e dai Sacramenti che ci vengono profusi nella comunità ecclesiale, abbiamo il dovere, come si dice nella lettera a Diogneto “di abitare in case normali, di vestirci come tutti gli altri, di fare una vita normale ma di essere “quello che è l’anima per il corpo”.
Angelo Levati
Friburgo 27 ottobre 2007