C’erano anche una capra, un asino, galline. Il letto era di paglia…Una sfida alla vita.
di Mario Pancera
Chi conosce la vita contadina, sa che nella stalla ci sono le bestie per lavorare i campi. Sono mucche, buoi, vitelli, cavalli, asini o muli e così via. Ognuno ha un suo posto, ed è legato alla greppia. Al mio paese (almeno ai miei tempi) le mucche avevano anche un nome. Io mi chiamo Antonio M., ho pure un fratello minore, è la verità. Mio padre era un bergamino, cioè un lavoratore a giornata: si alzava di notte per mungere le mucche nella stalla (del padrone), tornava a dormire un po’ e poi, nella bella stagione, andava nei campi: seminava, arava, raccoglieva il frumento o il granoturco, d’autunno si occupava delle viti. Voi lo chiamate bifolco. Spingendo con un lungo palo un biciclo con un bidone, io andavo a consegnare il latte in latteria.
A scuola non ero un granché. I figli degli agricoltori, degli artigiani, dei negozianti, avevano libri e quaderni. Li avevano anche i figli dei contadini assunti, come dire?, in pianta stabile. A me li prestavano le suore, nella cui scuola avrei dovuto imparare a leggere e scrivere come gli altri. Ma i figli dei bergamini sono diversi: non avevo niente, ero povero. La mia casa era un ex casello daziario, una delle due vecchie costruzioni che, l’una di fronte all’altra, introducevano al paese chi veniva da fuori. Immaginate una grigia scatola da scarpe stretta, in piedi. Aveva una sola porta e una sola camera, divisa a metà altezza da un impiantito di legno sul quale si arrivava con una scala a pioli. Qui c’era la paglia un po’ sparsa, un po’ infilata in lunghe sacche di iuta, dove noi quattro dormivamo tutti insieme.
Qui vivevamo i miei genitori, io, mio fratellino, una capra (che, però, di giorno veniva legata all’esterno perché brucasse l’erba sul ciglio della strada), alcune galline e un gabbiotto squadrato per i conigli. La capra era importante, perché dava il latte, che come si sa è più sostanzioso di quello delle mucche. L’asino era legato all’esterno, e dovevamo stare attenti perché lì si fermavano sempre le carovane degli zingari, e i miei dovevano controllare capra, asino, galline: le nostre povere cose. Il latte della capra non lo bevevamo noi, lo portavamo ai bottegai con bambini piccoli, che in cambio ci davano pane, pasta e farina bianca o gialla per la polenta.
La nostra casa-stalla non aveva la greppia, ovviamente, (non ci stavano animali grossi) in compenso ospitava anche animali piccoli e piccolissimi, tenuti malamente a bada da cani e gatti randagi. L’acqua l’avevamo a due passi, oltre la strada che ci divideva dall’altro casello, dove abitava una famiglia ancora più numerosa della nostra, ma senza capra. Una pompa a mano, attaccata al muro esterno, ci dava un’acqua fresca che odorava di uova marce e tutti dicevano che faceva bene, anzi, a volte, venivano dalla piazza centrale del paese a prenderla con le bottiglie. Era una fonte di vita, la nostra Siloe, estate e inverno. Mia madre cercava di tenere pulito, andava anche lei a fare qualche lavoro in casa d’altri, ma il pavimento restava nero e l’odore normale era quello del letame. Col cattivo tempo ci scaldavamo nella paglia, vicini alla capra dalle grosse poppe e all’asino, e forse è anche per questo che io posso dire di essere nato povero.
Lo si voglia o no, quello era il mio presepio (sebbene, ripeto, senza una vera greppia). Il giorno della mia nascita, contadini e contadine sono venuti a trovare mia madre, a portare pane o pasta o farina o una bottiglia o due uova o qualche pezzo di sbrisolona: una torta solida e friabile fatta di farina gialla impastata con lo strutto. Forse le hanno regalato anche qualche pezza di tela. Penso che ci fossero anche gli angeli, ma non ricordo di averli visti. Non ho presenti re magi, ma mi bastavano il calore della capra e dell’asino.
«Lo chiameremo Antonio», disse mio padre. Lui e mia madre non hanno mai visto altro presepio, io sì, in casa di miei compagni di scuola, e quando lo vedevo ero felice di sentirmi nato, uomo. Era il mio mondo. Penso che fosse così anche per i figli dei minatori (loro avevano le grotte) e degli operai del mio tempo. Sono nato uomo, in un presepio. Oggi le cose sono cambiate, dicono.
Caro lettore, questa è una storia vera: il presepio non è né un simbolo né un mito, è da coltivare come un ricordo, una testimonianza preziosa, una sfida dei poveri alla vita. Non va dimenticato, tanto meno deriso: si rinnova, per milioni di esseri umani, ogni giorno.
Mario Pancera