Stante la situazione chiara di aggressione di un paese sovrano su un altro, come perseguiamo il dovere di soccorrere la vittima e adoperarsi per fermare l’invasore?
La discussione verte sul come, non sul se.
Di sicuro accoglienza dei profughi e sanzioni alla Russia, magari con la cura di penalizzare i governanti più che il popolo, con il rischio di acuire, comunque, lo spirito nazionalistico.
Tuttavia, le risposte che la Russia sta dando ai Paesi occidentali, contingentando i rifornimenti di gas con il conseguente rialzo dei prezzi, son gli effetti perversi della politica delle sanzioni.
Qui si ripropone la vexata quaestio delle condizioni e dei limiti della legittima difesa in armi, con i suoi quattro criteri utili perché una guerra sia giusta: autorità legittima; giusta causa; retta intenzione (di ripristinare la giustizia violata); proporzionalità tra il male subito e quello che si è costretti a infliggere.
A questi quattro criteri se ne aggiunge un altro molto realistico riguardo alla superiorità militare russa, per cui ci si domanda se l’esito non sia già scritto e che senso abbia continuare a combattere.
Sembra però che la resistenza degli Ucraini abbia dimostrato una sua efficacia, che essa abbia scongiurato un’agevole conquista da parte dell’invasore e che, di riflesso, essa possa concorrere a facilitare una base negoziale più giusta o almeno un compromesso meno iniquo.
Consideriamo pure queste ragioni ma vediamo a questo punto le considerazioni che hanno spinto gli ultimi papi (da Giovanni XIII, a Paolo VI, Giovanni Paolo II e soprattutto papa Francesco) ad una condanna della guerra in quanto tale.
Lo sviluppo delle tecnologie belliche verso armi di distruzione di massa mina in radice il principio di proporzionalità (quarto criterio per la guerra giusta), come drammaticamente attestano tutte le guerre recenti nelle quali la larga maggioranza delle vittime sono state civili. La creazione di istituzioni e di strumenti messi a disposizione dal diritto e dalla Comunità internazionale al fine di dirimere i conflitti impone il dovere di non rassegnarsi e considerare possibile la via negoziale. Sembra che nessuno sia in grado di proporsi come mediatore accreditato alle parti per porre fine al conflitto. Tutti i tentativi per ora non hanno avuto esito positivo.
Allora, in questi ultimi tempi, dagli sviluppi delle iniziative e dalle mosse degli Stati si ricava piuttosto l’impressione che a dominare sia un rinato senso della guerra come strumento per risolvere i conflitti tra gli Stati.
Preoccupa la lettura/interpretazione che si fa dell’art. 11 della Costituzione italiana: «l’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali». L’interpretazione che viene data non è di escludere la guerra in ogni caso ma solo quella che costituisce «offesa alla libertà degli altri popoli» ammettendo implicitamente quella di difesa. Inoltre stupisce l’interpretazione che viene data a questo conflitto come scontro tra civiltà: tra gli imperi globalizzati occidentali con le loro democrazie degradate moralmente e gli imperi non democratici che portano avanti un mondo di valori tradizionali e positivi. Uno scontro che si situa anche al cuore del cristianesimo (cfr. le prese di posizione di Kirill).
Manca la percezione che ogni modello di civilizzazione, compreso il nostro, ha degli aspetti negativi e da correggere e occorre una maggiore tolleranza e rispetto per altre forme espresse da altre culture. Senza considerare che il dialogo tra le diverse culture può portare benefici all’intera umanità proprio contaminando le diverse forma di civiltà.
C’è una tendenza dei grandi media a confinare ai margini la voce di Papa Francesco. Francesco è tra i pochi che, da tempo, leva un allarme inascoltato circa la «terza guerra mondiale a pezzi» già in corso: nel nostro mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse nello scenario mondiale (cfr. Fratelli Tutti 259). Ancora: prendendo la parte delle vittime e delle persone vulnerabili, il Papa ci richiama alla drammatica, concretissima, circostanza che chi paga il prezzo più alto nelle guerre sono i civili e soprattutto la povera gente. Infine, quando si impegnano gigantesche risorse nella fabbricazione di armi costosissime, inesorabilmente esse saranno prima commerciate e poi usate. Al riguardo, il Papa più volte ha aiutato i governi (anche quello italiano) a riconsiderare la decisione, nelle previsioni di future guerre, di aumentare sensibilmente la spesa per la difesa anche in ottemperanza a un impegno assunto in sede Nato e di portare al 2% quella voce di bilancio. Ci si chiede se sia una decisione saggia a fronte di una questione sociale decisamente drammatica – disoccupazione, precarietà, povertà, disuguaglianze – acuitasi con la pandemia. Il rischio di aumentare la fame e le malattie in molte parti del mondo. Senza contare che gli emergenti problemi della questione climatica appettano risposte urgenti che riguardano tutta l’umanità: ucraini, europei, cinesi, americani. Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi
subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”.
Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto.
Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace. (cfr. Fratelli Tutti n. 261)
Infine lasciatemi fare un’ultima ma importante considerazione, anche se pare solo questione personale e intima, ma che ci dà un’indicazione di un impegno concreto che possiamo prendere fin da questa sera nel nostro “piccolo” angolo di mondo che siamo stati chiamati ad abitare.
Non si può discutere di pace, opporsi alla guerra, lasciare agli altri la pace se non la si ha in sé. Non si può dare pace se non si è in pace- diceva San Francesco. Vi lascio la pace, vi do la mia pace diceva Gesù e dimostrava che la mitezza è possibile. Lui l’ha incarnata proprio nel momento più difficile; e desidera che ci comportiamo così anche noi, che siamo gli eredi della sua pace. Ci vuole miti, aperti, disponibili all’ascolto, capaci di disinnescare le contese e di tessere concordia. La testimonianza di pace. Chiediamoci se, nei luoghi dove viviamo, noi discepoli di Gesù ci comportiamo così: allentiamo le tensioni, spegniamo i conflitti? Siamo anche noi in attrito con qualcuno, sempre pronti a reagire, a esplodere, o sappiamo rispondere con la non violenza, sappiamo rispondere con gesti e parole di pace? Come reagisco io? Ognuno se lo domandi.
F. Mario Vaccari, ofm
[In alcuni passaggi (compreso il titolo) mi sono ispirato liberamente all’Editoriale di Franco Monaco su Rivista del Clero n.4/2022]