I cooperanti delle Ong impegnate nel Nord Africa si erano accorti da tempo che il consenso alle dittature di Tunisia, Egitto e Libia stava precipitando: non solo tra i giovani senza futuro e i poveri, ma anche tra i professionisti e le classi medie. Bastava andare in bus o nei mercati per ascoltare parole come queste, pronunciate davanti alle onnipresenti gigantografie dei dittatori: “i nostri dirigenti sono ladri, prima o poi ce ne libereremo”. In Occidente i politologi non l’avevano capito, perché abituati a studiare i regimi più che i Paesi, cioè i potenti più che le persone reali. I diplomatici, come quelli americani ben descritti da WikiLeaks, hanno anch’essi guardato al potere dei Palazzi e non alla popolazione fuori dai Palazzi. Mentre i politici sono rimasti prigionieri di una real-politik che non regge più alla prova dei tempi, cioè alla voglia di libertà delle persone.
Il detonatore è stato il suicidio con il fuoco del tunisino Mohammed Bouaziz, un giovane diplomato, venditore ambulante da anni vessato dalle autorità. Per i musulmani il suicidio è un peccato. Ma Bouaziz è diventato un martire, un simbolo della difficoltà di vivere della gioventù araba. Non solo in Tunisia ma anche in Egitto e negli altri Paesi. Certo: non è un’unica rivolta, ci sono differenze tra Paese e Paese. Tuttavia ci sono tratti comuni: la spinta per la libertà e la democrazia, contro “il modello del rais”, ma anche per la giustizia sociale, “il pane e il lavoro”. Alla radice c’è, dappertutto, l’insofferenza verso regimi corrotti e autoritari, ma anche verso una crisi economica che ha portato al forte aumento dei prezzi del cibo e alla mancanza di lavoro. Il rapporto Food Price Watch offre dati impressionanti: nell’ultimo triennio lo zucchero è aumentato quattro volte, i cereali quasi tre. In Egitto il 42% degli abitanti vive con meno di un dollaro al giorno (quindi sotto la soglia di povertà assoluta) e il 38% del reddito è utilizzato per acquistare generi di prima necessità. In tutti i Paesi entrano nel mercato del lavoro centinaia di migliaia di giovani, di cui molti diplomati, ridotti in gran parte alla disoccupazione (in Libia il tasso è del 30%), all’emigrazione e alla miseria. L’età media della popolazione è di 24 anni in Egitto e di 29 anni in Tunisia: ciò che impressiona di più noi occidentali abituati alle nostre città invecchiate è vedere così tanti giovani, e vederli senza far nulla.
E’ difficile, utilizzando il punto di osservazione di un Occidente interdetto e confuso, dare tutte le risposte agli interrogativi che la rivolta araba ci pone. C’è un elemento di “incontrollabilità” inevitabile, e non è detto che lo sbocco sia quello del rinnovamento democratico e sociale. L’esito del terremoto è ancora incerto, ma nel medio periodo, come disse Hillary Clinton alla Conferenza di Monaco di inizio febbraio, “nulla di quello che vediamo oggi può tenere, lo status quo è semplicemente insostenibile”. Non solo: emerge con nettezza, ad oggi, che la rivoluzione ha legittimato nuovi attori sociali, culturali e politici che non si possono liquidare con la categoria del “fondamentalismo islamico”. Gli sconfitti non sono solo i rais, ma anche le correnti estremiste dell’Islam, che non sono affatto alla testa della rivolta. Mohammed Manafee, docente all’università di Bengasi, uno dei leader della rivolta libica, lo ha spiegato molto bene: “la liberazione di Bengasi è stata voluta e realizzata da professionisti e giovani, Osama Bin Laden non c’entra nulla”. Nelle piazze non ci sono giovani fanatici e barbuti con le bandiere del panarabismo e del panislamismo, ma giovani “normali”, che usano Twitter e soprattutto vedono Al Jazeera, e si battono per ideali e valori democratici e umanistici. I dittatori arabi ci dicevano che l’alternativa ai loro feroci regimi era l’Islam radicale, ma in questo modo ci nascondevano un altro Islam. Che chiede libertà, come nella Resistenza al nazifascismo o nel 1989. Nel 2004 il giornalista libanese Samir Kassir (ucciso l’anno dopo a causa delle sue posizioni democratiche) scriveva un libro intitolato “L’infelicità araba”. Oggi, invece, sembra essere giunto il momento del riscatto, del “diritto alla felicità”, direbbe Kassir citando un principio presente nella Costituzione americana.
Ciò che accade sconvolge alla radice il pregiudizio occidentale sul mondo arabo: non siamo condannati allo scontro di civiltà. Come ci hanno spiegato Youssef Courbage e Emmanuel Todd in un importante libro del 2009, “L’incontro delle civiltà”, i Paesi arabi stanno vivendo cambiamenti radicali, a partire dall’aumento dei livelli di alfabetizzazione di uomini e donne, che stanno portando alla modernizzazione dell’islamismo e a una convergenza planetaria. La frequenza alle scuole superiori in Egitto è passata dal 14% al 28% dal 1990, in Tunisia dall’8 al 34%. Il mondo musulmano è cioè entrato nella rivoluzione culturale e mentale che permise un tempo lo sviluppo delle nostre regioni più avanzate.
Nelle piazze sono emersi ideali e valori in linea con quelli più profondi che l’Occidente ha dato al mondo. Ma l’Occidente appare oggi così stremato da non capirli più, e quindi non sostiene davvero e fino in fondo la rivolta araba. E’ un Occidente paternalistico se non razzista, che ritiene che “gli arabi non siano ancora pronti alla democrazia”: il grande errore riconosciuto dall’ex ambasciatore americano alla Nato Kurt Wolker. Insomma, il mondo musulmano si sta incamminando verso il punto d’incontro di una storia molto più universale di quanto si voglia ammettere. La rivolta in atto è un fenomeno nuovo, connesso con i successi e la crisi della globalizzazione. Possiamo capirlo e giudicarlo se torniamo a chiederci chi siamo, che cosa sia l’Occidente. Le domande sul sud del Mediterraneo ne chiamano altrettante su chi vive al nord, sulla crisi della vecchia Europa sedotta dalle paure e dalle autarchie. Se daremo risposte su di noi, riusciremo a dialogare con quei giovani e a dare loro l’unico contributo possibile. La strada è puntare sul riconoscimento dei nuovi Governi e sugli aiuti economici, sociali e culturali alla società civile del mondo arabo, rigettando la tesi che sia incompatibile con la democrazia. La strada è un rapporto sempre più stretto, “euromediterraneo”, tra Unione Europea e Nord Africa, nella consapevolezza che la nostra e la loro storia si stanno ricongiungendo
Giorgio Pagano
L’autore è presidente di Funzionari senza Frontiere e segretario generale della Rete delle Città Strategiche; alla Spezia presiede l’Associazione Culturale Mediterraneo.
Fonte: Il Secolo XIX 5 marzo 2011