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Dinamica della guerra: ad ogni azione corrisponde una reazione sempre più intesa, sempre più letale

Fano è una città splendida. Lo è anche il Medio Oriente, di uno splendore diverso. Una qualche sorta di luce, però, l’abbiamo in comune. Come il mare e il destino. La pioggia dall’Iran su Israele e il potenziale di destabilizzazione di una regione, e del mondo, che questa guerra porta con sé è l’esito di una logica ferrea della quale tutti possiamo essere vittime. Folle, ma ferrea, studiata dalla scienza che coltiviamo per ucciderci come da quella che cerca vie per la pace.

Teoria dinamica: ad ogni azione corrisponde una reazione sempre più intesa, sempre più letale. Dinamica della guerra. Logica dell’escalation che l’arroganza di chi decide se usare la forza o meno crede di poter gestire e controllare.

E non c’è diritto che tenga. L’azione compiuta da Israele bombardando la sede diplomatica a Damasco infrange la Convenzione di Vienna del 1961 che stabilisce l’inviolabilità di quei luoghi, ed è stato un atto scellerato. Poco conta quali fossero gli obiettivi. Ed era abbastanza chiaro dove avrebbe condotto, perché la guerra fa un’altra cosa: s’impone facendosi “invitabile”. Si può appellare al diritto, ora, l’Iran, all’art 51 della Carta dell’Onu, diritto a difendersi da un atto di guerra. Un atto che sembra più un avvertimento, ma fino a quando? Un atto capace, però, di generare altra reazione, altra violenza in un gioco al rialzo dove non vince mai nessuno. Lecito o meno secondo il diritto internazionale, anche questo poco conta. Quello che conta è fermarsi adesso.

Follie, logiche senza ragioni che fanno di una violenza subita, indiscriminata vendetta: questo è successo dopo il 7 ottobre. Orrore a cui è seguita una riposta inaudita, il massacro di innocenti, decine di migliaia di civili, l’annientamento persino della storia di un popolo intero. E su, sempre più in alto, nell’indicibile.

Ma se vogliamo essere onesti, anche quel 7 ottobre è figlio della medesima logica che si perpetua da 70 anni. Non illudiamoci che quando la guerra sembra sopita non sia capace di risvegliarsi all’improvviso, che siamo capaci di tenerla a bada, o che possiamo permetterci di lasciare un popolo, come i palestinesi, senza una casa, a vivere miseria e guerra – perché guerra è sempre stata quella che noi chiamiamo “questione” – senza che questo prima o poi mostri il conto.

Così era l’Ucraina prima dell’invasione russa, così il resto del mondo, dall’Africa, dal Congo senza pace al Sudan così vicino e dimenticato, all’Asia, alle centinaia di conflitti armati di questa guerra globale che sembra risparmiare il nostro piccolo pezzo d’Europa. Illusione.

Azione, reazione, che non protegge nessuno, fino a quando qualcuno non deciderà di fare un gesto, solo all’apparenza folle, ma in verità saggio, che questa logica può provare a farla saltare. Ricordo, qualche hanno fa, Marco Tarquinio, allora direttore di Avvenire, dare alla platea riunita Reggio Emilia per l’incontro annuale di Emergency questa immagine: cosa accede se in una lite, ad un certo punto qualcuno compie l’inatteso, abbracciare il bullo o il violento?

Mediare, parlare, fermare questa “teoria dei giochi”, ricordare a chi sta gettando i dati con le nostre vite in palio, che abbiamo dato alla guerra la possibilità di mostrare la sua efficacia nel garantire la sicurezza collettiva cosi tante volte che non ricordiamo quante siano, e abbiamo sempre fallito. Falliamo ogni volta che proviamo ad usare le armi per costruire la pace, non le controlliamo, ci sfuggono di mano, diventano cronica violenza e deflagrante distruzione.

Abbiamo avuto successo solo quando abbiamo provato a inventare un’architettura nuova, dopo. Architettura che è tempo di ripensare perché non abbiamo altra scelta. Stiamo camminando sul ciglio del baratro con gli occhi bendati, da prima di questa notte che non ha avuto buio. Facciamola finita. Lasciamo la ricerca della verità e della gisti i al dopo, ora fermiamoci. Dovremmo essere tutti per la strada, a riempire le piazze, a incatenarci alle porte di chi decide per noi perché il futuro sia come questo nostro presente: un’antica porta, su una piazza verde e ocra, con un bambino che corre senza temere. Qui, e altrove, pace per chi crede che tutti gli esseri umani abbiamo diritto alla vita, e ad una vita degna.

Anche chi non lo sente quel grido, quel puzzo, e lo strazio che arriva da luoghi dove la luce è la stessa, stesso anche il mare, dovrebbe temere che la bellezza di cui in questa primavera godiamo venga spazzata via nel tempo di una notte. Se ancora non è accaduto, io credo, non è per quella che chiamiamo “deterrenza” o per le nostre macchine di morte, ma perché qualcuno continua imperterrito ad “abbracciare i bulli”, a mediare, a parlare, a riconciliare, a pacificate, a fermarsi prima che sia tardi. Chi sceglie la guerra, invece, è quasi sempre chi non la combatte e non la conosce.

#pace