di Serge Latouche
Parliamo di decrescita. La decrescita è un progetto politico, non è una crescita negativa. Non va confusa la "decrescita scelta" o la "scelta della decrescita" con la decrescita forzata. Parafrasando la filosofa tedesca Hannah Arendt - che diceva che non c'è niente di peggiore di una società lavorista senza lavoro - non c'è niente di peggiore di una società della crescita senza crescita, visto che una tale società si basa su un modello di economia che ha come unico fine una crescita illimitata
Serge Latouche, professore emerito di economia all'Università d'Orsay, è il teorico di riferimento del Movimento internazionale della decrescita. "Breve trattato sulla decrescita serena" (Bollati Boringhieri, Torino, 2008) è il titolo del suo ultimo saggio. Il 26 febbraio l'economista francese era a Roma per partecipare al convegno "La strategia della Lumaca. Idee e pratiche di un altro sapere e un altro saper fare", organizzato dall'Assessorato alle Politiche culturali della Provincia di Roma. Di seguito riportiamo la trascrizione integrale del suo intervento.
Nel 1978 l'economista francese François Partant, uno dei pochi precursori della decrescita, ha pubblicato un libro intitolato "Che la crisi si aggravi". Ora che la crisi è esplosa, per gli obiettori della crescita è una notizia. Dire che la crisi è una buona notizia sembra una provocazione. Allora occorre spiegare il motivo di tale affermazione, ovvero far capire come si può trasformare questo evento drammatico in una grande opportunità. Parliamo di decrescita. La decrescita è un progetto politico, non è una crescita negativa. Non va confusa la "decrescita scelta" o la "scelta della decrescita" con la decrescita forzata. Parafrasando la filosofa tedesca Hannah Arendt - che diceva che non c'è niente di peggiore di una società lavorista senza lavoro - non c'è niente di peggiore di una società della crescita senza crescita, visto che una tale società si basa su un modello di economia che ha come unico fine una crescita illimitata. Se la crescita non c'è ci sarà disoccupazione, meno soldi per la cultura, per la salute, per l'ambiente. È per questo che dobbiamo uscire dalla società della crescita e imboccare un'altra strada.
Già un altro precursore della decrescita, Andrè Gorz, nel 1974 diceva che "questo arretramento della crescita e della produzione, che in un altro sistema avrebbe potuto essere un bene [meno auto, meno rumore, più aria, giornate di lavoro più brevi, ecc.], avrà effetti del tutto negativi: le produzioni inquinanti diventeranno beni di lusso, inaccessibili alla massa ma sempre alla portata dei privilegiati; le disuguaglianze aumenteranno; i poveri diventeranno relativamente più poveri e i ricchi più ricchi. I sostenitori della crescita hanno ragione almeno su un punto: nella società attuale e nell'attuale modello di consumo, fondati sulla disuguaglianza e la ricerca del profitto, la non-crescita o la crescita negativa, possono significare solo stagnazione, disoccupazione, e maggiore scarto tra ricchi e poveri".
Se dico che la crisi è una buona notizia è perché senza di essa andremmo a fracassarci direttamente contro il muro dei limiti del pianeta. La domanda è: meglio così o frenare bruscamente? Certo questa seconda opzione fa soffrire, ma è meglio soffrire che morire. Ricordo che nell'ottobre scorso a Maputo, nel Mozambico, si è tenuto il congresso mondiale di Via Campesina, il sindacato dei contadini altermondialisti del sud del mondo. Anche loro consideravano la crisi una buona notizia perché è l'opportunità di ritrovare l'autosufficienza alimentare, un'agricoltura contadina, senza pesticidi.
Lo diceva anche François Partant: "scompaiono dall'oggi al domani tutti gli apporti della cosiddetta 'civilizzazione'. Ne risulterà una disorganizzazione totale in una economia che si sottosviluppa proprio per colpa della sua organizzazione attuale, così come una disorganizzazione del potere che prospera sul sottosviluppo, ma nessun effetto spiacevole per l'immensa maggioranza della popolazione, almeno nei paesi dove è composta soprattutto da contadini e disoccupati". La decrescita è una buona notizia perché può creare lo shock necessario per risvegliarci e farci uscire dalla nostra schizofrenia, non solo quella dei nostri governi che subito si dimenticano che hanno firmato il protocollo di Kyoto e vogliono rilanciare le centrali nucleari o l'industria dell'auto, ma la nostra stessa schizofrenia, perché siamo diventati tossicodipendenti della società dei consumi, del lavorismo e ci siamo lasciati cadere nella trappola della "torta", ovvero del Prodotto Interno Lordo. Anche la sinistra è caduta in questa trappola. Nei trent'anni successivi al secondo dopoguerra, i capitalisti ne hanno approfittato per prendersi la "fetta" più grossa di questa torta, ma non hanno fatto caso al fatto che a poco a poco essa diventava sempre più avvelenata, dall'inquinamento, dalle malattie, dalla distruzione dell'ecosistema, dalle ingiustizie sociali.
Dopo gli anni Settanta le statistiche hanno mostrato che il Pil ha continuato a crescere, ma il benessere vissuto no. Guadagniamo di più ma siamo condannati a spendere di più per riparare i danni della crescita. Ora siamo arrivati al punto nel quale la torta non può più crescere, ma soprattutto non deve più crescere. Per fare questo dobbiamo cambiare la ricetta della torta e questo è il progetto della decrescita. Dovremmo parlare di acrescita come si parla di ateismo, perché si tratta di uscire dalla religione della crescita, della fede nel progresso infinito, nel culto dell'economicismo.
Uscire dalla società della crescita, ovvero dall'omologazione, dall'occidentalizzazione del mondo, significa anche ritrovare la diversità: non si costruirà una società della decrescita nel medesimo modo in Africa o in America Latina. Tutte queste altre società che vogliamo costruire devono obbedire all'autosostenibilità. Quello della decrescita è un progetto rivoluzionario, si tratta di una rivoluzione culturale, si tratta di cambiare il nostro modo di pensare.
Per passare dalla teorizzazione alla realizzazione della società della decrescita ho proposto un programma concreto. Ci rimproverano sempre di non essere concreti, ma quando lo siamo ci rimproverano di essere utopisti. Sì, lo siamo, perché abbiamo bisogno di utopie per uscire dalla miseria del presente. Abbiamo proposto un programma di "8 erre" [Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare, ndr]. Far pagare a coloro che inquinano il prezzo dell'inquinamento. Recuperare l'impronta ecologica sostenibile. Consumare meglio, non solo consumare meno. Internalizzare le esternalità dei trasporti. Delocalizzare le attività per contrastare questo "trasloco" della globalizzazione che fa sì che ogni giorno vi siano 8000 camion che viaggiano dalla Francia all'Italia per trasportare l'acqua San Pellegrino. Trasformare gli aumenti di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di posti di lavoro. Stimolare la produzione di beni relazionali come la conoscenza, la ricerca che devono diventare il futuro dei beni comuni del XXI secolo. Come diceva l'economista Keynes, che non era un partigiano della decrescita, le idee devono circolare il più possibile, le merci no, quelle devono circolare il meno possibile. Ridurre lo spreco di energia. Penalizzare fortemente le spese pubblicitarie e sviluppare le ricerche nell'ambito della bioagricoltura e della medicina ambientale. Riappropriarsi del denaro e sviluppare le monete locali. E poi occorre rilocalizzare perché è a livello locale che si possono risolvere i problemi.
Woody Allen diceva che siamo arrivati all'incrocio di due strade, l'una porta alla scomparsa della specie umana, l'altra porta alla crescita negativa e alla crisi che viviamo ora, "speriamo che l'umanità farà la buona scelta". Direi che la decrescita è la terza via, la scommessa che l'umanità attratta dall'ideale di una società migliore avrà la forza di rompere con la tossicodipendenza dei consumi, perché sarà incalzata dalla minaccia della distruzione e preferirà imboccare la strada di una democrazia ecologica piuttosto che di un suicidio collettivo. E' una grande scommessa, ma noi siamo sicuri che sarà vinta.