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Afghanistan, che fare? (Sergio Baronetto)


Tratto dal n. 1330 del 18 giugno di “La nonviolenza è in cammino”

Leggo dell'ipotesi di mandare più soldati in Afghanistan. Secondo il generale Tricarico, capo di stato maggiore dell'aeronautica, sei aerei Amx sono pronti a partire. L'idea mi sembra non solo incoerente con il programma della coalizione politica oggi al governo ma anche del tutto controproducente proprio ai fini della lotta al terrorismo e del ripristino della democrazia. Sono già passati cinque anni dall'intervento militare. Pochissimi ricordano le morti civili. Solo nei primi tre mesi dell'intervento (7 ottobre 2001 - 16 gennaio 2002) i civili uccisi, gli "effetti collaterali", sono stati 3.800 (inchiesta Marc Herold, Università del New Hampshire). Ogni settimana aumentano gli attentati e i morti sia tra i soldati "occidentali" sia tra i civili afgani.
Cosa stiamo difendendo realmente in Afghanistan? Proteggiamo la permanente sottomissione delle donne? Secondo il Rapporto 2005 di Amnesty International, esse "hanno continuato a subire livelli di violenza sistematica e diffusa e discriminazioni sia in ambito pubblico che privato".
Sosteniamo la mancanza di libertà religiosa tanto sbandierata come regola fondamentale della democrazia? La vicenda di Abdul Rahaman, l'"apostata" afgano che stava per essere condannato a morte per la sua conversione al cristianesimo, è emblematica di una situazione diffusa.
Per quanto tempo dovremo rimanere in forme militari? Al di là del comportamento individuale dei nostri soldati, bisogna saper vedere la cruda realtà dei fatti. Ci interessa prevenire la tossicodipendenza nel mondo, in Italia, e colpire i mercanti di morte? Allora bisogna dolorosamente ma lucidamente ammettere che, al di là delle intenzioni, i soldati sono alleati dei "signori della guerra", padroni del commercio dell'oppio, che stanno guadagnando cifre colossali. "Il narcotraffico, dichiara l'Ufficio Antidroga dell'Onu, è la fonte principale dell'instabilità e del terrorismo. Ci sta a cuore la lotta all'eroina, ottenuta con l'oppio afgano, che uccide molti giovani? Il giro d'affari afgano, osserva Luciano Bertozzi ("Rocca", n. 11, 2006) è "stimabile in 2,3 miliardi di dollari che sono reinvestiti nelle armi e nel pagamento dei combattenti, in una spirale perversa che promette sempre maggiori sofferenze".
È certamente più produttivo investire risorse per la risoluzione di alcuni problemi economici e sociali e attivare un'ampia rete di solidarietà e di cooperazione legata alle Nazioni Unite, alla Comunità europea e all'iniziativa internazionale.
Uno degli obiettivi prioritari è quello di sminare il paese, uno dei più a rischio nel mondo. Mi sembra urgente riprendere la Campagna per la messa al bando delle mine, mettendo a fuoco l'obiettivo dello sminamento e della riabilitazione delle numerose vittime colpite da queste armi di distruzione di massa che uccidono o mutilano dopo ogni guerra per moltissimi anni tantissime persone. Penso non solo all'Afghanistan ma anche al Sudan e al Corno d'Africa, alla Cambogia e all'Angola. Un impegno umanitario di lunga durata. Una vera grande missione di pace, un'azione solidale legata alla guarigione di immense ferite, alla riconciliazione tra le persone e i popoli, alla difesa e alla cura della vita, di ogni vita sempre e ovunque.