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Afghanistan: La guerra è la guerra è la guerra è la guerra (Nella Ginatempo)

Tratto da "La nonviolenza è in cammino", n. 1351 del 8 luglio 2006

[Nella Ginatempo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) è una prestigiosa intellettuale impegnata nei movimenti delle donne, contro la guerra, per la globalizzazione dei diritti; è docente di sociologia urbana e rurale all'università di Messina; ha tenuto per alcuni anni il corso di sociologia del lavoro, svolgendo ricerche sul tema del lavoro femminile; attualmente svolge ricerche nel campo della sociologia dell'ambiente e del territorio. Tra le sue pubblicazioni: La casa in Italia, 1975; La città del Sud, 1976; Marginalità e riproduzione sociale, 1983; Donne al confine, 1996; Luoghi e non luoghi nell'area dello Stretto, 1999; Un mondo di pace è possibile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2004] Il danno
Da molte parti, in seno alla sinistra parlamentare usualmente definita pacifista, l'accordo sul decreto proposto dal governo viene giustificato come una "riduzione del danno". Questa illusoria valutazione deve fare i conti con i fatti: il decreto non contiene nessun riferimento ad un possibile ritiro, ad una reale exit strategy. Si offre soltanto lo specchietto delle allodole della Commissione di monitoraggio e la promessa di un futuro approfondimento della questione. Intanto si rifinanzia il rinnovo delle truppe e continuiamo a fare la guerra e a restare sotto il comando della Nato per uccidere e morire. Ci sono dei tornanti della storia in cui ci vuole un salto, una forzatura, altrimenti si perde l'occasione di fare un atto di giustizia. Quell'atto di giustizia richiesto da chi in Afghanistan vive sul terreno l'inaccettabilità della guerra: come Gino Strada.
Ma la questione della riduzione del danno richiede anche una critica culturale poiché costituisce a mio parere un forte arretramento del dibattito che depotenzia la mobilitazione e crea spaccature e divisioni tra i pacifisti. Fin da quando si profilava la guerra di vendetta in Afghanistan, all'indomani dell'11 settembre, cominciò una campagna pacifista globale intitolata "Not in my mane". Era lo slogan della prima manifestazione contro la guerra organizzata dal movimento no-global in Italia nel novembre del 2001. Sarebbe ora il caso di rispolverare questo slogan che implica l'irriducibilità della posizione pacifista, l'impossibilità di mediare o fare scambi politici sul corpo delle vittime di guerra.
Una questione di vita o di morte come è la guerra chiama in causa prima di tutto una posizione etica, dunque pensare di quantificare il danno o ridurlo o "congelarlo", pur restando dentro una missione di guerra, al seguito di una occupazione militare che ha fatto in questi cinque anni migliaia di vittime civili, è una posizione fuorviante. Se i signori della guerra e i loro rappresentanti nel governo intendono fare la guerra al seguito della Nato e contro l'art.11 della nostra Costituzione, cerchiamo di fermarli e ostacolarli, ma se non ci riusciamo è necessario smetterla di mercanteggiare e di coprire scelte sciagurate e dire invece a gran voce not in my name, io non voto la guerra.
Inoltre la riduzione del danno è un concetto usato nei servizi sociali, specie per aiutare chi vuole uscire dalla tossicodipendenza. Ma il criterio ispiratore è la cura della vita. Cioè, riduciamo il danno per salvare vite umane. Mi sembra davvero inappropriato applicarlo ad una missione di guerra, ispirata alla uccisione degli insorti e, come dicono i comandi militari italiani, alla "bonifica del territorio" nel senso che andiamo sotto comando Nato ad "annichilire" un bel pò di talebani e, visto che ci siamo, anche di popolazione civile "collaterale".
La nostra attuale missione militare così come è, anche se venisse ridotta ad un solo soldato, sarebbe comunque complice di un crimine internazionale (la guerra) e di vasti crimini contro l'umanità (quelli che la Nato e noi con loro commettiamo contro i civili) attraverso i bombardamenti, le clusters bombs, i rastrellamenti, le carceri come Pol-e-Chakri a cui abbiamo contribuito da bravo paese alleato con un milione di dollari (sic). Dunque riduzione del danno che significa? Che facciamo un pò meno guerra? Che facciamo un crimine con meno soldati? Oppure che scarichiamo i fucili, smettiamo di sparare e soprattutto smettiamo di contare i morti? E ora che la guerra è arrivata a Est e Nord Est e le rivolte popolari a Kabul, che facciamo, riduciamo il danno nascondendoci in qualche grotta un pò più sù? Il danno c'è già stato da 5 anni. Per ridurlo dobbiamo andarcene e dissociarci apertamente dalle responsabilità di guerra della Nato.

I ricatti
La sinistra radicale e pacifista non può dare credito al doppio ricatto di D'Alema: quello sul governo e quello sulla Nato.
Circa il governo, se un premier non vuole rischiare di cadere può cambiare il decreto e ottenere i consensi necessari (avanzando sul piano della pace e non su quello della guerra).
Circa la Nato, vale ricordare che la Grecia nel 1999, pur rimanendo membro della Nato, seppe dire no all'invio di truppe greche nella guerra "umanitaria" contro la Jugoslavia. È ora di dire no anche noi e di costringere il nostro Ministro degli Esteri a fare una scelta opposta a quella che fece nel 1999.
Mi sembra poi che il cosiddetto "cambio di maggioranza" sia una truffa politica nei cofnronti della sinistra radicale. Infatti, proprio in base al numero dei parlamentari in Senato, se tutta la sinistra pacifista avesse compattamente deciso vi votare no alla missione militare in Afghanistan, ovvero: non votiamo se non si fissa un calendario di ritiro, nessuna sostituzione di voti sarebbe stata possibile. E la scelta politica di rompere con la sinistra radicale e di preferire un'alleanza con il centro guerrafondaio sarebbe ricaduta tutta su D'Alema e Prodi. L'Unione aveva la legittimità, il potere e il consenso popolare per dire alla Nato: basta con la missione italiana in Afghanistan, abbiamo sparato per cinque anni, abbiamo avuto anche i nostri morti, adesso il governo cambia musica: i militari a casa, gli aiuti solo civili alle ong afghane e internazionali.
Non lo hanno fatto perché vogliono imporre coi ricatti un'altra politica estera in cui l'obbedienza alla Nato non si discute. Questo ricatto ritornerà per sempre. Vedremo i ricatti che metteranno in campo sulle basi militari, sulle bombe nucleari, sulle spese militari e via militarizzando.
Ma qui e proprio qui è necessario ribellarsi: nel programma dell'Unione c'è scritto che la politica estera si deve ispirare all'art.11 della Costituzione. Ma sono cinque anni che il movimento pacifista giudica la missione in Afghanistan una missione di guerra in violazione dell'art.11.
Non c'è bisogno di un Osservatorio permanente ("permanente": che lapsus freudiano) per sapere questa verità: bastano i resoconti di Emergency e dei parlamentari che sono più volte andati in visita in Afghanistan - e che hanno votato contro il rinnovo delle truppe per otto volte.
Per questi motivi ritengo politicamente sbagliato, e non solo doloroso sul piano sentimentale e devastante sul piano etico, votare sì al decreto.
Credo che qualunque svolta, sia nazionale che internazionale, possa cominciare solo da un no, dal tenere aperta una porta in Parlamento alla opposizione alla guerra. Una porta politica e non di testimonianza. Se il numero dei parlamentari ribelli crescesse farebbe breccia, costringerebbe il governo a cedere.
Perciò il mio consiglio è: se non c'è una data per il ritiro dall'Afghanistan, una data vera già programmata, non bisogna votare sì a questo decreto. Credo che le promesse e i monitoraggi siano specchietti per le allodole.

Le parole
In questa vicenda l'uso delle parole è cruciale, come sempre sulle questioni di vita e di morte, quando bisogna assumersi terribili responsabilità e si cerca di ricorrere a eufemismi (come "riduzione del danno") oppure ad ossimori per stravolgere la realtà.
Ricordo alcune buone parole del movimento come "no alla guerra senza se e senza ma".
E rammento a tutte le persone impegnate nel movimento che abbiamo firmato l'anno scorso, in tante associazioni, il sostegno alla campagna Cambiare si può, lanciata dall'Arci, in cui un punto-chiave dice testualmente Mai più Kosovo. Quante analogie tra la" guerra umanitaria" (ossimoro) della Nato in Kosovo e la guerra al terrorismo della Nato in Afghanistan. Sarebbe sufficiente questo per ritrovare una posizione lucida e unitaria di tutto il movimento per respingere ogni ricatto.
I parlamentari che hanno dichiarato di votare no al rifinanziamento delle truppe in Afghanistan somigliano a Rosa Luxemburg che circa un secolo fa esortò i socialdemocratici presenti nel parlamento tedesco a non votare i crediti di guerra.
Ma Rosa fu lasciata sola. Cerchiamo invece di non lasciare soli i pacifisti coraggiosi presenti in Parlamento. Il movimento è con loro, anche se non siamo in grado di organizzare una manifestazione nazionale al mese, ma dobbiamo accontentarci dell'opinione pubblica e delle mail. Coraggio! Avete una vera connessione sentimentale con migliaia di persone.
Una connessione perduta, invece, da qualcun altro che ancora fa ricorso ad ossimori (missione militare di pace): il nuovo presidente della Camera che ha dichiarato al Tg2 che i militari in Afghanistan svolgono una funzione costituzionale, cioè sono in missione di pace. Mi chiedo allora che senso abbiano avuto le nostre parole d'ordine e le nostre lotte, dopo cinque anni in cui lottiamo nelle piazze e votiamo in parlamento contro la missionedi guerra in Afghanistan. L'intero movimento dovrebbe insorgere contro le parole del presidente della Repubblica, del ministro degli Esteri, del ministro della Difesa e, buon ultimo, del presidente della Camera che negano che vi sia una guerra chiamandola missione di pace.

La guerra è la guerra è la guerra è la guerra.
La pace è la pace è la pace è la pace.