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Contro ogni fanatismo: "Abbattendo il muro della separazione che li divideva" (Ef 2,14)

Pubblichiamo la relazione di padre Angelo Cupini, della Comunità di via Gaggio a Lecco, fatta il 26 ottobre 2009 presso la Sala Ticozzi - ACLI/Bibbia.

Questa sera

Sono il prestanome per una piccola storia collettiva vissuta per molti anni, il prossimo saranno 35, che ha preso nome da uno stradario comunale, l'associazione comunità di via gaggio. Dall'impasto del tempo e delle persone raccolgo difficoltà, rischi, possibilità del territorio lecchese attorno a questa questione (il fanatismo), sottoposta oggi ad un momento di verità per l'impatto con un tempo che cambia, nel quale ci siamo ritrovati.

Il segno interpretativo di questa vicenda lo raccolgo in un muro, quello della memoria, che abbiamo realizzato a la casa sul pozzo in corso Bergamo a Lecco al numero civico 69; il muro delimita la corte, è carico di nomi incisi nella malta colorata come gli antichi affreschi. I nomi sono le storie della gente, le storie di umanità possibili. Un muro che non separa ma custodisce e allerta sul rischio di perdere la memoria, e vive della preoccupazione di trasmetterla.

Nel muro, i nomi sono foglie di un albero inciso (piantare un albero è sempre segno di speranza; un giorno in Africa seppellendo un compagno, una persona ha detto: non lo stiamo seppellendo, lo stiamo piantando). In questo albero oltre i nomi delle persone con le quali abbiamo vissuto e che hanno già guadato il fiume, c’è un grappolo numeroso di donne e uomini che ci hanno aiutato con la loro vita a re-esistere. Questa sera faremo un breve esercizio con l’aiuto dei loro contributi, siamo tutti dentro questa grande fiume della storia o, se vogliamo, siamo tutti nella stessa barca.

I muri

Altri muri rimbalzano allo sguardo; quello al Parco Cuscatlàn a San Salvador, infinitamente lungo che ricorda le vittime civili della guerra; migliaia e migliaia di nomi incisi, in bianco, su marmo nero. Il nome dell’arcivescovo Romero è l’unico a essere un po’ consumato, dalle dita della gente. (Galeano, Specchi pag. 329/330).

Il Muro di Berlino è stato notizia e simbolo: il Muro della Vergogna, il Muro dell’Infamia, la Cortina di Ferro… Finalmente quel muro, che meritava di cadere, è caduto ed è riconosciuto come  l’inizio di un cambiamento geopolitico. Sono spuntati e continuano a spuntare nel mondo altri muri. Sebbene siano molto più grandi di quello di Berlino, di loro si parla poco o nulla.

Si parla poco del muro che gli Stati Uniti stanno costruendo sulla frontiera messicana, e si parla poco delle recinzioni di filo spinato di Ceuta e Melilla. Il Muro della Cisgiordania, che perpetua l’occupazione israeliana delle terre palestinesi, quindici volte più lungo del Muro di Berlino, e non si parla del Muro del Marocco, che perpetua il furto della patria saharawi da parte del regno marocchino e misura sessanta volte di più del Muro di Berlino.

Perché mai ci sono muri così altisonanti e muri così muti ?

Ci sono muri di telecamere: Tra Slovacchia ed Ucraina sono state installate 97 km di telecamere a infrarossi e termo rilevatori, 11 check point, 100 milioni di costo. E’ il muro virtuale costituito per intercettare migranti e richiedenti asilo, da quando la Slovacchia è entrata in Europa. (fonte Vps n° 07.09).

Ci sono muri virtuali fatti di pregiudizi, di ordinanze, di rifiuti, di silenzi, di oblii nelle nostre città.

I muri bloccano gli sguardi, le visioni, i sentimenti sull’umanità; sono costruiti per difesa ed aggressione. Francesco d’Assisi si pianterà con i suoi fratelli sulle mura, luogo di conflitto tra chi aggredisce e chi si difende, intercedendo.

C’è il muro delle leggi costruite ad hoc.

Il 17 scorso si è svolta a Roma la manifestazione, con tanti immigrati giunti da tutta Italia, per protestare contro il pacchetto sicurezza e il reato di clandestinità. Drammatica la denuncia di un immigrato:  "Meglio essere un cane che un immigrato".

Il 14 ottobre veniva lanciato un appello firmato da donne e uomini di resistenza; tra le altre cose dicevano: Il nostro Paese ha già vissuto la vergogna delle leggi razziali: non possiamo e non dobbiamo dimenticarlo. È lo stesso sistema democratico nato dalla Resistenza contro il fascismo e scritto nella Costituzione ad essere in pericolo.

Ci sono muri nella città che sono invisibili, fantasmi per la coscienza collettiva; ci si dimentica di pensarli e di visitarli, come il carcere. Ci sono muri più interiori , i luoghi altri. Alcuni quartieri delle nostre città diventano un non luogo. I ghetti, i campi rom, ingombranti, da demolire.


Un segno dei tempi della salvezza che costantemente ci attraversa dice:

Abbattere il muro

Alcuni flash

Il Papa Benedetto XVI al congedo da Betlemme dopo aver celebrato l’Eucaristia a ridosso del muro: "Anche se i muri possono essere facilmente costruiti, sappiamo tutti che non durano in eterno. Possono essere abbattuti. Ma prima è necessario rimuovere i muri che costruiamo attorno ai nostri cuori, le barriere che erigiamo contro il nostro prossimo"

Barack Obama, allora candidato democratico alla presidenza Usa, ha lanciato il suo appello contro le divisioni nel mondo, sostenendo che bisogna “abbattere i muri che dividono i popoli e le razze”.

Lo fa a Berlino toccando la memoria e il cuore dei berlinesi ricordando il simbolo del muro, ma rivolgendosi anche all’Europa “forte che aumenti la sicurezza e la ricchezza in questo continente”:

I trecentosei delegati e delegate di diverse chiese d’Europa, riuniti a Lione nel luglio 2009 hanno rivolto un messaggio audace della speranza –che non si esprime attraverso dichiarazioni vuote, ma attraverso atti concreti e fede viva: Affermiamo che le chiese devono lavorare a favore della giustizia e dire la verità ai potenti. Questo significa abbattere i muri tra persone, culture e religioni, per imparare a distinguere l’immagine di Dio nel volto dell’”altro”. Questo significa rispettare, e non solamente tollerare, gli altri esseri umani.

Abbattere ? forse scalfire, aprire pertugi. Sentinella quanto resta della notte ?

Ci sono uomini, famiglie, territori che hanno fatto breccia con la loro vita a questi muri. Ne cito uno che ci ha offerto in tempi grigi, rompendo il muro di una tradizione conservativa, uno sguardo straordinario di fiducia e di forza.

Non ci si poteva sottrarre al fascino che emanava dalla sua carica di umanità e di entusiasmo. Colpiva la sua sicurezza, la sua certezza profetica, il suo sguardo sicuro e ottimista sull'avvenire. Egli fondava le sue convinzioni su alcuni pochi testi tratti dalla Scrittura: quello di Isaia 11: «Il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà» (Is 11,6); e ancora il testo di Isaia 2: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra» (Is 2,4; cfr Michea 4,3); il Salmo 45,10: «Farà cessare le guerre fino ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà con il fuoco gli scudi»; e ancora un testo dal libro dell'Apocalisse: «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (Ap 21,4).

Giorgio La Pira, nella sua visione profetica, vedeva queste cose avvenire nella nostra storia, malgrado tutte le apparenze contrarie (predisse ad esempio molti anni prima la fine dell'Impero sovietico), e sapeva scorgerne i segni anche più esili e incoraggiare l'azione che avrebbe aperto la strada a queste prospettive.

Aggiornamenti Sociali n.4, aprile 2004. Discorso tenuto dal Cardinale Martini alla Camera dei Deputati in occasione del centenario della nascita di Giorgio La Pira.


Perché questo succeda bisogna essere uomini della speranza in più come scrisse Dossetti parlando di La Pira: “Con gesti, atti e insegnamenti costanti, ammonì l’Europa che non poteva chiudersi nelle sue frontiere, ma doveva guardare all’altra sponda mediterranea con l’animo aperto, oltre che agli impulsi e ai fermenti delle tre religioni bibliche, anche ai popoli delle aree afro-asiatiche che si affacciano su quel lago, per riuscire pacificamente a integrarne le esigenze e gli interessi vitali, con civile, intelligente e fattiva solidarietà”.


Uomini della speranza in più

Lecco ha esportato da sempre azioni solidali nel mondo generando una catena di iniziative, progetti, collaborazioni; è una città territorio legittimamente orgogliosa di questa sua funzione di traino; più faticosamente pensa alla ricaduta su di sé di quanto ha sperimentato altrove.

Se si potesse disegnare una ricaduta uguale,almeno, all’investimento fatto, saremmo un’altra città. Ma la città è fatta da quanti la vivono, dalla qualità e dallo spessore della loro speranza;  dalla risposta che è capace di costruire attorno alle domande vitali; a come è in grado di vivere oltre il servizio anche la convivialità.  Mi piace citare Manzoni che al termine dei Promessi Sposi dice:

Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star  lì un poco a far compagnia agli invitati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto che era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanto ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari. (cap. XXXVIII).

La speranza cristiana è quella di chi si siede in convivialità con gli uomini, soprattutto i non assicurati. C’è un’immagine molto bella di Isidoro di Siviglia che dice: la speranza viene da piede, perché fa camminare; essere disperati è come tagliarsi un piede e non potersi più muovere.

La sicurezza tanto invocata oggi non è quella che ci fa rinchiudere o che chiude gli altri nei vari campi ma quella che ci mette in cammino.

Massimo Cacciari si è posta la domanda nel 2004: c’è qualcuno ancora in grado di ascoltare questo timbro della speranza ? Nella nostra cultura l’io, l’individuo, viene prima di tutto; la libertà che deriva dal concetto di speranza cristiana esprime invece una ‘follia’ per il mondo. Io credo, dice ancora Cacciari, che si debba tornare ad ascoltare questi timbri e ad apprezzare la loro contraddittorietà fino in fondo, senza pretese di eliminarla.

Massimo Cacciari, La speranza nella società del rischio in www.oreundici.it, gennaio 2004


Oggi

Le domande fluiscono: quando e come un territorio diventa generativo ? qual è la forza di trasmissione alle nuove generazioni ? quali sono le nuove strategie di comunicazione ?

Siamo in un  crocevia della storia, impauriti nel leggere quello che sta avvenendo, sovrastati dalla durezza e dalla complessità delle questioni e dei processi, tentati di declinare  slogan e di semplificare processi fino a renderli infecondi.

Questo momento esige una penetrazione del tempo e della storia più puntuale, con uno sguardo che accolga la pluralità di voci; è tempo di rifondazione di un territorio attraverso nuovi patti di cittadinanza con tutti i soggetti in arrivo e in trasferimento. E’ tempo di rialfabetizzazione collettiva, per generare parole nuove con le quali dirci quanto abbiamo custodito e quanto è innovativo; è tempo di sogni collettivi per il futuro che vogliamo accogliere e di studio serio per le strategie che vogliamo attuare.

Il tema della coesione sociale, risultato dell’abbattimento dei muri,  non è solo il cuore etico  di un territorio ma è intelligenza strategica per una nuova prospettiva di vita, per una riduzione dei rischi, per una valorizzazione delle risorse e delle competenze degli abitanti. I soggetti della coesione provengono dalla periferia del sistema ed è forte pensare che queste realtà possano permettere la rimessa in moto del sistema sociale, a rischio di asfissia e di autocombustione.  Lo ha suggerito l’estate scorsa il Censis, mentre i Grandi della Terra si riunivano per il G8, con il termine Exaptation, suggerendo come uscire dalla crisi. I soggetti individuati sono quelli che normalmente riteniamo più peso che risorsa:  gli anziani come risorsa, gli immigrati nel loro spirito imprenditoriale, le donne nel loro ruolo crescente. “Il futuro è coltivare il senso della possibilità”.


La difficoltà ad abbattere muri e costruire ponti


Il Fanatismo

All'origine il fanatismo è una vena di follia, accompagnata o addirittura causata da una credenza autentica e sincera, da uno zelo eccessivo ed acritico, particolarmente per una causa religiosa, o politica. Fanatismo da fanum, il sacello della divinità, il luogo della sua dimora. Il fanatismo pretende di mettere le mani sul luogo della divina presenza e così possederlo. (Il mafioso va a patti con la divinità; tu sei più forte, io lo riconosco, io ti faccio un voto, un’offerta, tu mi proteggi; tutte le mie cose sono nel raggio della tua protezione. I segni possono essere il santino che metto nella falda interna della coppola  o meglio, oggi, vicino alle carte di credito; ripete lo stesso schema con gli altri, si fa dio per gli altri). Noi oggi giustamente deprechiamo il fanatismo che strumentalizza la fede islamica. Ma non dobbiamo dimenticare forme di fanatismo che hanno strumentalizzato la fede cristiana: Dio con noi, una ripresa dell’antico In hoc signo vinces. Vincere la battaglia grazie al segno della croce.  Quante volte il fanatismo religioso ha legittimato guerre, violenze, stragi, violazioni della libertà e della coscienza.

Giuseppe Grampa, La schiena di Dio. Percorsi di Filosofia delle Religioni  e di Antropologia Filosofica  in tempi di fanatismo


Il fanatico è una persona rigida, dogmatica, inflessibile, con la granitica convinzione di essere sempre nel giusto, difficilmente disposto all'ascolto e al dialogo con l'altro, con il diverso da sé. Il fanatico "è un punto esclamativo ambulante" ha scritto Amos Oz nella sua bellissima raccolta di saggi Contro il fanatismo. Il fanatico crede più al sentimento che alla ragione; egli non è sempre mosso dall'odio, anzi, spesso il suo comportamento è motivato dalla convinzione di migliorare il prossimo, di distoglierlo dell'errore. Il fanatico è quasi sempre uno che vuole migliorare il mondo.

Il fanatismo è più antico dell’Islam, del cristianesimo, dell’ebraismo, più antico di ogni stato o governo. In ogni essere umano si annida il germe del fanatismo che si concretizza, prima di tutto, nella mancanza di volontà di ascolto e poi nel ritenere il proprio punto di vista migliore di qualsiasi altro. Tra le forme più "facili" e meno pericolose di fanatismo c’è il conformismo, il bisogno di uniformarsi e di uniformare.

Come resistere alla deriva fanatica ?

Custodendo nel cuore la certezza che l’altro mi trascende, mi sorprende, mi spiazza.

“La mia storia mi ha indotto a pensare che sia l’esilio ad avermi costituito e non un’appartenenza. La nostra verità […] non consiste nell’appartenenza a un’origine - benché questa esista e occorra riconoscerla - ma nella capacità di esiliarci, cioè di prendere una certa distanza rispetto all’origine.” (Julia Kristeva, Il rischio del pensare, Il melangolo 2006).

Costruiamo identità quando prendiamo distanza dall’origine, dal ‘dove siamo’; esistere  (ex-sistere) = uscire dal sito (Duccio Demetrio), dal cortile, dal ‘bagaglio’. Identità non coincide con l’origine, ma con un percorso o processo ancora in atto.

Il percorso è nella suggestiva metafora biblica del Dio visto solo di spalle, così da custodire il suo mistero e quello dell'uomo. (Da una scrittura con Marco Vincenzi).

La condivisione con la gente ci ha chiesto di ri-visitare le nostre identità, azzerando il precedente punto di attracco; stiamo toccando una sorta di punto zero che attinge l’identità personale e collettiva in questi tempi difficili. Questo azzeramento ci ha permesso di incontrare l’umanità dell’altro prima ed oltre qualsiasi declinazione di appartenenze per fede, per etnie, per culture.


Cosa raccogliamo oggi da questo itinerario faticoso ?

un Dio nascosto (Is 45,15), nel dolore umano, nel dolore delle comunità, nel dolore e nella morte degli innocenti (cfr testo di Eli Wiesel, La notte, Firenze 1980, p.66-67). Questo lo riteniamo  veramente un valore non negoziabile. Il volto di Dio lo troviamo nel nascondimento in cui lui stesso si è messo del dolore umano, della vittima, dello sfigurato, dell’abbandonato, ecc.. Questo è il mistero che fonda l’identità più profonda del cristianesimo.

un nuovo esodo (un nuovo esodo è sempre possibile, Is 43,16-20),

un servo sofferente (i canti del servo di Javhè: Is 42,1-4; 49,1-4; 50,4-7; 52,13-53,12).


Ecco che cosa ha scoperto una minoranza ed è ciò di cui non possiamo dimenticarci oggi nei nostri problemi di identità, di salvaguardia del cristianesimo, di quello che trasmettiamo alle nuove generazioni.

Gli anticorpi delle città

Lecco che luogo è ? Qual è il suo spirito ?

Di Assisi Benedetto XVI ha parlato dello spirito di opposizione allo spirito di violenza, all’abuso della religione come pretesto per la violenza. Assisi ci dice che la fedeltà alla propria convinzione religiosa, la fedeltà soprattutto a Cristo crocifisso e risorto non si esprime in violenza e intolleranza, ma nel sincero rispetto dell’altro, nel dialogo, in un annuncio che fa appello alla libertà e alla ragione, nell’impegno per la pace e per la riconciliazione.

Francesco è il testimone garante di questa fedeltà.

Lecco ha tessuto un humus solidale e innovativo nella sua storia, colmo di serietà e di discrezione, di fatica quotidiana e di resistenza. La città ha goduto di presenze nell’ambito della carità e della missione (vorrei citare per quanto ha influito nella mia vita come spirito di tolleranza e di sguardo sul mondo il padre Cesare Colombo, medico dei lebbrosi in Birmania, morto nel 1980); queste figure non diventano chiavi interpretative della vita della città ma personaggi “alla memoria”.

E il miglior biglietto da visita che offriamo a chi arriva a Lecco è la traduzione dialettale del suo nome (alla faccia delle tante lingue parlate da coloro che abitano la città).

Spesso, di fronte a questioni di fondo, la città è stata afona; una volta Giancarlo Caselli ha detto una cosa non dimenticabile: «Se essi sono morti (parlava di Falcone, Borsellino) è perché noi tutti non siamo stati vivi: non abbiamo vigilato, non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia; non lo abbiamo fatto abbastanza, nelle professioni, nella vita civile, in quella politica, religiosa». Per questo corriamo il rischio, sempre, di disimparare perfino la speranza; non c’è un’agorà, uno scambio dialettico tra cittadini; una passione politica tradotta nel confronto duro ma proficuo; ci sono passaggi di stelle comete, dai politici che vengono ad ore tra una traiettoria e un’altra; è come se non ci fosse nessuna necessità di aprire un tavolo di riflessione e di parola. Quando una città non prende parola su di se non può fare altro che riprodurre repliche. Quando non c’è parola c’è il rischio dell’integrismo e del fondamentalismo. Quando non c’è desiderio non c’è futuro.

Nella breve esperienza del Progetto Giovani della Città di Lecco c’era una domanda che attraversava tutto il tessuto: chi sono i giovani per la città ? Cosa è disposta, la città di Lecco a mettere in gioco per loro ?

Oggi siamo di fronte ad un passaggio epocale dei territori: ci piaccia o no, Lecco sarà meticcia nel futuro. Ma Lecco avrà la forza per questa parabola, per questa trasmutazione ?

C’è da pensare una strategia: stanare i moderati, i silenziosi, quelli che stanno a guardare; farli uscire perché rispondano. Trasformare il silenzio della gente del territorio in parola, in comunicazione, in risposta personale e coerente.

Abbattere i luoghi comuni, le frasi fatte. Rompere l’isolamento sui bus. Il cardinale Martini ci ha offerto un verbo inquietante colmo di spirito: fermentarsi.


Suggerisco come promemoria alcune  domande:

  • quale Lecco/Territorio per il secolo XXI desideriamo e ci impegniamo a realizzare  ?
  • come rifondare un territorio attraverso nuovi patti di cittadinanza con tutti i soggetti??
  • quale itinerario per l’inclusione dei cittadini in-compiuti ? (riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli degli immigrati – il futuro del Paese – senza attendere i 18 anni; diritto di acquisire la cittadinanza del Paese in cui si nasce; portare a 5 anni il tempo di residenza necessario per poter chiedere di diventare italiano come hanno proposto le Acli ed altre realtà).
  • come generare parole nuove con le quali dirci la memoria e il nuovo?
  • come sappiamo stare in questo  tempo di crisi senza cancellare sogni collettivi per il futuro ?
  • quali pensiamo debbano essere le condizioni che rendano possibile un futuro giusto ?
  • quali  le strategie ?

Il carattere conflittuale di questo cammino

La Pira era consapevole del fatto che l'itinerario di pace da lui intravisto passava attraverso contestazioni e rischi mortali. Non per niente usava l'espressione di «crinale apocalittico», sul quale - diceva - sono presenti quattro potenziali esplosivi di terrificante potenza distruttiva: la minaccia nucleare, la fame, lo sviluppo demografico, la collera dei poveri, quella che - mutuando il linguaggio delle encicliche sociali - chiamava anche «la collera di Dio e dei poveri».

Aggiornamenti Sociali n.4, aprile 2004. Discorso tenuto dal Cardinale Martini alla Camera dei Deputati in occasione del centenario della nascita di Giorgio La Pira.

Dobbiamo investire in alcune dinamiche; la prima è il compromesso. Noi consideriamo questo concetto nell’accezione più negativa, come mancanza di integrità o di onestà. Amos Oz vede nel compromesso la strada più opportuna per risolvere i problemi sapendo che non vi sono compromessi felici...Il fanatico non accetta compromessi. In una famiglia dobbiamo trovare nel tempo tanti compromessi.

Agli occhi dei fanatici è “traditore” chiunque cambi, proprio perché il fanatismo non ammette né concepisce il cambiamento, è per sua natura inflessibile, rigido, e talvolta si nasconde dietro al conformismo e all’uniformità portate alle estreme conseguenze. Per questi motivi la capacità di ironizzare, di immaginare, di relativizzare possono essere una cura contro le deviazioni fanatiche.
La tragedia dei conflitti non si risolve con l’amore, ma con giustizia, buon senso e una buona dose di immaginazione: una capacità profonda di immaginare l’altro, talvolta di metterci nei panni degli altri. Abbiamo bisogno di un talento ragionevole per il compromesso

Fine di un’epoca o gia’ un nuovo inizio ?

Savonarola chiamava Firenze “seconda Gerusalemme”, La Pira aveva ripreso questa dicitura che gli era molto cara. Nella storia ci sono tempi privilegiati (Kairoi secondo la terminologia biblica) nei quali  si gioca il destino di molti uomini; noi siamo in questo tempo. Il nostro territorio deve cogliere questo tempo propizio. Ci vogliono però atti unilaterali (che testimonino questo di più inaspettato). Cito una lettera sorprendente di Pietro Ingrao (in Il Manifesto, 17 dicembre 1996) a don  Giuseppe Dossetti :

“Caro don Giuseppe, non sono credente e non ho speranza alcuna che questa lettera possa in qualche modo arrivarle (…). Domenica i telegiornali e ancora ieri i quotidiani hanno dato grande rilievo alla notizia della sua morte (…). Che strano però. Hanno detto quasi nulla del suo farsi ed essere monaco (…) questo ‘contemplare’ e ‘fare’ in un tempo di transito che lei ha chiamato la ‘fine della Cristianità’; ecco qui è il punto che per me è stato il suo fascino e un enigma. Qui la sua autentica esperienza su cui mi pare essenziale interrogarsi.”

L’augurio è che possiamo essere donne e uomini in questo territorio capaci di atti unilaterali, di sorprese, di flessibilità.

Suggerisco la lettura di tre storie capaci di aprirci a uno sguardo diverso

Rigenerare la parola / Il futuro dei miei


Su una nave. In mare. Da qualche parte.

«Zio Amadou?». «Sì?». «Mi Senti?». «Sì che ti sento...». «Ma non mi guardi».

L'uomo si volta verso il nipote. Il ragazzino, poco più di sei anni, lo osserva dubbioso, tuttavia si fida e riattacca: «Zio, tu conosci bene l'italiano?». «Certo, sono stato già due volte in Italia».

«Conosci tutte le parole?». «Sicuro Ousmane».

Il nipote si guarda in giro come se avesse timore di essere sentito da altri, e arriva al sodo: «Cosavuoi dire extracomunitario?».

L'uomo, alto e magro, sui trent'anni ha la barba che gliene aggiunge almeno una decina. Non appena sente l'ultima parola del bambino, si gira e fissa i propri occhi nei suoi. Trascorre un breve istante che sembra un'eternità in un viaggio in cui è in gioco la vita.

«Extracomunitario dici?» ripete sorridendo lo zio Amadou: «è una bellissima parola. I comunitari sono quelli che vivono tutti nella stessa comunità, come gli italiani, extracomunitario è qualcuno che viene da lontano a portare qualcosa in più».

«E questo qualcosa in più è una cosa bella?». «Certamente!» - esclama Amadou - «Tu ed io, una volta giunti in Italia, diventeremo extracomunitari. lo sono così così, ma tu sei di sicuro una persona bella, bellissima».

L'uomo riprende a far correre lo sguardo sulla superficie dell'acqua, ma Ousmane gli chiede ancora: «Cosa vuoi dire immigrato?». Lo zio risponde subito: «Immigrato è una parola ancora più bella di extracomunitario. Devi sapere che, quando noi extracomunitari arriveremo in Italia e incominceremo a vivere lì, diventeremo degli immigrati». «Anch'io?». «Sì, anche tu. Un bambino immigrato. Sei anche extracomunitario, cioè qualcuno che porta alla comunità qualcosa di più bello,

tutti gli italiani ci diranno grazie, cioè ci saranno grati. Da cui, immi-grati. Chiaro?».

«Chiaro zio. Prima extracomunitari e poi immigrati». «Bravo» approva soddisfatto Amadou e ritorna a guardare il mare.

Poco dopo il bambino richiama ancora la sua attenzione. «Zio...». «Sì?» fa l'uomo voltandosi paziente per l'ennesima volta. «E cosa vuoi dire clandestino?».

Questa volta Amadou compie un enorme sforzo per sorridere e gli dice: «Clandestino. Sai questa è la parola più importante. Noi extracomunitari, prima di diventare immigrati, siamo dei clandestini. I comunitari che incontrerai molto probabilmente ancora non lo sanno che tu hai qualcosa in più di bello e qualcuno di loro potrà insinuare il contrario. Tu non credere a queste persone. Per quante

persone possano negarlo tu sei qualcosa di più bello e lo sai perché? Perché tu sei un clan-destino.

Tu sei il destino del tuo clan, cioè della tua famiglia. Tu sei il futuro».

Amadou riprende ad osservare il mare. Ousmane finalmente si volta a guardare le onde. Il suo sguardo punta verso l'orizzonte: «Sono il futuro dei miei» pensa il bambino con orgoglio e commozione.

Chi può essere così ingenuo da pensare di poterlo fermare?

Alessandro Ghebreigziabiher in “Cem-mondialità” del novembre 2008


La Bibbia di Yassief

LAMPEDUSA (Agrigento), 20 agosto 2009. Quando sono sbarcati sul molo del porto di Lampedusa sembravano fantasmi, come ha raccontato uno degli operatori in servizio nel Centro di accoglienza. Cinque eritrei, tra cui una donna e due ragazzi minorenni, con il corpo ridotto a uno scheletro e gli occhi persi nel vuoto, che a fatica hanno ricostruito la loro odissea: "Siamo partiti oltre venti giorni fa dalla Libia, eravamo in 78. Noi siamo gli unici sopravvissuti. I nostri compagni morivano e noi gettavamo in mare i loro cadaveri".




Dal reporatage di Ezio Mauro su La Repubblica del 26.10.09:

“Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: “Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera”. [...] A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni. [...] Dopo 15 giorni (alla deriva senza acqua, cibo e carburante), appare una nave in lontananza. [...] Yassief e un altro ragazzo sono gli unici che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l’ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c’è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po’ nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.”


Ecco cosa significa ‘leggere la Bibbia’. Ce lo insegna Yassief:

Portare la Parola con sé, al cuore delle esperienze; scegliere di darle un piccolo posto anche quando il bagaglio è essenziale; consentire che semplicemente stia nel nostro umano viaggiare e cercare. Affidare alle parole-esperienze dei Salmi le vicende che ci sconquassano e ci ammutoliscono; leggerla in lungo e in largo: profeti, libri storici, ...

Alla sera, ogni sera, trasformare la Parola in mensa di conforto e amicizia per tanti affaticati ed oppressi. Una sorta di appuntamento vitale sussurrato che alimenta, sostiene e orienta.

Lasciare la Parola scritta e meditata per la Parola vissuta come speranza per tutti. Anche se la bocca non avrà più spazio per la voce perché il mare è entrato per sempre.

In questo ‘metodo’ (letteralmente significa ‘via per investigare’) si condensa una sapienza teologica conciliare:

- la Parola di Dio si impianta dentro le questioni e le domande antropologiche che stiamo vivendo;

- essa va ascoltata e offerta in un’ottica comunitaria, a sostegno delle vite di molti;

- è necessario passare da leggere la Bibbia a vivere la Parola fino in fondo, in prima persona,   cercando salvezza per tutti. O meglio, lasciando che la Parola possa diventare gesto sostanziale, frammento vitale, trasparenza di salvezza umana.

La Parola di Dio non è il libro, ma un buttarsi per questa porzione di umanità stremata e perseguitata con crudeltà di idee, fatti, leggi, politiche ed economie.

Riconosceremo in Yassief un martire della Parola?

Marco Vincenzi

Resilienza

Nel campo profughi di Aida 12 ottobre 2009 -
Più di 400 i partecipanti a Time of responsabilities, l´iniziativa della Tavola della pace in Palestina-Israele. Nella prima giornata ci siamo suddivisi in gruppi per andare a incontrare, ascoltare, vedere.
La vergogna del muro che stringe d´assedio e rende invivibile anche la vita di Betlemme, il campo profughi di Aida (lo stesso visitato dal Papa qualche mese fa), tante famiglie che ci ospitano per il pranzo.
Le famiglie del campo profughi, come una reliquia, conservano devotamente la chiave della casa che hanno dovuto abbandonare nel 48 per far spazio agli israeliani. Molte di quelle case non esistono più ma loro stringono quella chiave come segno di un passato lontano e di un diritto violato. Di un futuro al quale nessuno deve sottrarsi: il tempo delle responsabilità, appunto. AbdelFattah, direttore del centro culturale del campo, ci dice in faccia senza mezzi termini: "Il
silenzio della comunità internazionale è una vera e propria complicità che spinge a volte alla violenza. La vera sfida è restare umani in queste condizioni disumane". Ma non possono permettersi il lusso della disperazione. "Temiamo il giorno - continua AbdelFattah - in cui i nostri figli ci chiederanno: "Cosa avete fatto per noi?".  Quella stessa domanda è rivolta a ciascuno di noi e per questo siamo nel "tempo delle responsabilità".

Tonio Dell'Olio