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La Cultura della violenza (Di Rienzo Maria)

Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Quando la 'culturà e la 'tradizionè giustificano la violenza sulle donne, fatta di delitti e umiliazioni", pubblicato su “Voci e Volti della nonviolenza”, n. 70 del 27 giugno 2007.

Generalmente, siamo abituate/i a guardare alle culture come al prodotto di gruppi di persone sostanzialmente eguali che vivono in una data regione geografica. In realtà ogni gruppo contiene grandi differenze che concernono i livelli di potere, il benessere, la possibilità di esprimere i propri bisogni e i propri interessi. Le istanze relative al potere vedono spesso le donne in una posizione ambigua o svantaggiata. Le qualità, i comportamenti e le identità di uomini e donne sono determinati ovunque dal processo di socializzazione: poiché i ruoli e le responsabilità sono specificatamente culturali essi cambiano nel tempo. I ruoli di genere sono infatti influenzati da fattori storici, religiosi, economici ed etnici. Essere consapevoli della relazione di genere all'interno dei gruppi, il proprio e gli altri, mostra che le comunità non sono un armonioso insieme di individui con interessi e priorità comuni; le divisioni si disegnano ovunque lungo le linee dell'età, della religione, della classe e del genere. Questi differenziali di potere ovviamente ostacolano alcune "categorie" di persone qualora esse decidano di dar voce ad opinioni che contraddicono la visione generale o la mettono in discussione, in particolar modo se si tratta di donne.
Molte donne, esclusivamente perché sono donne, soffrono nei propri paesi serie minacce o negazioni rispetto ai loro diritti fondamentali ed alla loro libertà. Molte vivono in situazioni di povertà e violenza estreme. Alcune vengono vendute o barattate, forzate a matrimoni indesiderati sovente in giovanissima età, e vengono loro spesso imposte restrizioni o regole su cui hanno scarse o nulle possibilità di contrattazione. Altre vengono punite perché i loro mariti o congiunti sono detenuti o ricercati, e non hanno alcuna protezione per se stesse e gli eventuali figli. Delitti d'onore, lapidazioni per presunto adulterio, stupri di donne e bambine, vengono visti come "pratiche tradizionali locali".
Lo scioccante e totale disprezzo per i loro diritti umani che sottende queste giustificazioni non ha base reale nel presunto consenso delle donne: ovunque vi sono resistenze, lotte, tentativi di cambiamento o negoziazione.
La negazione dei diritti umani delle donne viene usualmente giustificata con la tradizione, la religione, la coesione sociale, la moralità o complessi sistemi di valori trascendenti. Ma a questo punto è necessario chiedersi se tutta questa "cultura" non sia che un feticcio usato per mantenere privilegi sociali ed economici, o semplicemente psicologici. Oggi nessuno che voglia impegnarsi nella costruzione di pace o nella cooperazione allo sviluppo dovrebbe riferirsi a culture e costumi sociali come ragioni per non guardare alla discriminazione delle donne; al contrario, vi è la necessità di ribadire che tutte le nazioni hanno il dovere di garantire diritti umani a chiunque: "Nessuno stato può far riferimento ai costumi nazionali per non garantire diritti umani e libertà fondamentali a tutti gli individui" (Dichiarazione di Pechino, Quarta Conferenza Onu sulle donne, 1995).

Difendere i diritti delle donne appare particolarmente minaccioso a chiunque voglia mantenere rapporti basati sulla gerarchia e la violenza. In alcune parti del mondo le cose vanno come nell'esperienza di seguito narrata.
Undici uomini dell'esercito buttarono giù la porta della casa in cui una dozzina di attiviste per i diritti umani si erano riunite, nella provincia di Mindanao nelle Filippine. Era il marzo del 2004. Portarono via Angelina Ipong, all'epoca sessantenne, ma non si limitarono a chiuderla in una cella.
Angelina è stata torturata e si è abusato di lei sessualmente. Siede ancora in quella prigione, in attesa di un processo che non arriva e di poter contestare le quattordici accuse mosse contro di lei dal governo, che vanno dall'omicidio alla rapina. Non l'hanno accusata del suo vero crimine: Angelina stava organizzando una delegazione che sperava di aprire negoziati di pace fra il governo filippino e gli insorgenti musulmani. L'abuso che ha subito non è raro nel paese e forse Angelina è persino "fortunata", giacché il suo caso è stato preso a cuore da Amnesty International: dal 2001, 319 attiviste/i per i diritti umani sono stati assassinati da soldati, membri delle forze dell'ordine e squadroni della morte filogovernativi; altre 185 persone sono semplicemente "scomparse".
"La prima cosa che viene in mente a chi arresta o rapisce una donna è che lei è un oggetto sessuale. Ma dappertutto i corpi delle donne sono diventati il campo di battaglia per ottenere il controllo, l'arena più concreta". Non farò il nome dell'amica che ha visto Angelina trascinata in carcere e che dice questo. È una femminista, ed è stata costretta a fuggire dalla provincia di Mindanao dopo essere stata accusata di far parte di due differenti gruppi armati. Passa le notti sveglia, rigirandosi nel letto: attende il colpo che sfonderà la porta. "Se questo è il prezzo per il mio essere una difensora dei diritti umani delle donne, sono disposta a pagarlo".

Spesso le donne non sono neppure consapevoli di essere titolari di diritti umani, ma non appena lo diventano le loro vite cambiano immediatamente in meglio. Il programma di educazione ai diritti umani rivolto alle donne, gestito dal 1995 in Turchia da un gruppo di femministe turche, ha ormai raggiunto oltre 5.000 donne in 33 differenti province; i 30 centri che sono nati in tutto il paese in riferimento al programma ne hanno raggiunte altre 3.000.
"Ci dedicammo a più di due anni di ricerche prima di implementare il programma sul campo", raccontano le organizzatrici, "Gli studi confermarono che le vite delle donne erano modellate su pratiche patriarcali e che esse ignoravano i diritti che le leggi garantiscono loro. Inoltre, le pratiche patriarcali spacciate per 'tradizionì non tenevano in alcun conto le aspettative delle donne, ed i loro bisogni nei campi della salute riproduttiva e sessuale".
La maggior parte delle partecipanti (88%) sono divenute "persone chiave" nella propria comunità di riferimento, ovvero le persone sagge a cui ci si rivolge quando le relazioni si guastano o sorgono difficoltà in seno alle famiglie e nel vicinato, e/o hanno fondato organizzazioni e comitati di base per rispondere ai problemi più svariati del loro territorio (74%). Le lotte che conducono sono rigorosamente nonviolente. Un risultato così importante non era scontato, ma di fatto queste donne "ignoranti" e ignorate sono state adeguatamente informate su tutto ciò che serve ad un attivista, femmina o maschio: diritti civili e costituzionali, tecniche antiviolenza, economia e legge, abilità comunicative, eccetera.
Il resto delle statistiche dice che il 63% delle partecipanti sono state in grado di annullare la violenza domestica nella propria casa e che il 22% l'ha grandemente ridotta; il 43% ha trovato lavoro fuori casa; il 54% ha ripreso a studiare in modo formale o informale... e il 72% dei mariti ha completamente cambiato atteggiamento nei loro confronti, comportandosi in modo assai più rispettoso e positivo.
Ma al di là dei numeri, può essere interessante ascoltare le voci di queste donne coraggiose.
Cemile, del villaggio di Izmir, racconta di "essere cresciuta ad abusi e pestaggi. Il mio è stato un matrimonio combinato. Per me non era semplice neppure uscire a passeggiare. La famiglia in cui entrai era molto vasta e in passato io ero l'unica a dovermi fare carico dei lavori domestici. Se facevo un errore anche piccolissimo erano guai. Un giorno ho sentito parlare di questo programma per le donne, era al Centro comunitario (una sorta di centro sociale gestito dalla municipalità - ndr) e mi ci sono iscritta subito. Le cose che imparavo le portavo in famiglia, ne discutevo, e le mettevo in pratica. Le mie relazioni con mio marito e i suoi parenti sono enormemente cambiate. Ora i lavori di casa si dividono, e loro rispettano me e le mie idee. Ho capito che dovevo dapprima essere utile a me stessa per essere d'aiuto agli altri. Adesso sono coinvolta in un progetto che si chiama 'Colline verdì: stiamo piantando alberi sulle colline spoglie per risanare l'ambiente. Sono andata finalmente a scuola, e ho conseguito il diploma elementare in un anno. Adesso sto frequentando le medie e poi andrò alle superiori. Inoltre, sono stata eletta al Consiglio comunale di Karsikaya".
Museyyer, da parte sua, ha scoperto l'esistenza del programma rivolto alle donne dopo la nascita del suo sesto bambino. Anche il suo è stato un matrimonio imposto, e ha dovuto sposare il proprio cugino: "Parlavo dei seminari con qualunque donna venisse a contatto con me. Dopo un pò ci ho portato tutte le mie parenti di sesso femminile. Ai mariti all'inizio dicevamo che andavamo a prendere un caffè o un tè insieme. Sapere di avere dei diritti come donna e come madre l'ho imparato grazie al programma. In famiglia ci sono otto bocche da sfamare e solo mio marito lavorava fuori casa: dopo aver partecipato agli incontri ho deciso che anch'io avrei avuto un impiego e nel corso c'erano un sacco di donne che volevano la stessa cosa. Abbiamo fondato una cooperativa, fatto ricerche di mercato e indagato le necessità del territorio: ora produciamo candele ed abbiamo aperto un asilo infantile. La nostra cooperativa si chiama 'Fiducià. C'è stato un tempo in cui non avrei mai osato parlare dei miei desideri a mio marito, e in cui a stento mettevo il piede fuori di casa... oggi sto trattando con il Ministero dell'Industria e Commercio, con la Direzione degli Affari Culturali e non so dire con quante ditte private".

Le esperienze, infatti, dicono che non è mai troppo tardi: Theresa Chilala ha 79 anni, e si sta battendo perché nessuna vedova venga mai più "ereditata" dalla famiglia del marito, secondo un costume della minoranza Tonga in Zambia che si può tradurre come "pulizia sessuale". Il marito di Theresa è morto nel 1990, e da lei ci si aspettava che acconsentisse ad avere rapporti sessuali con uno dei parenti maschi del defunto: in questo modo sarebbe stata "liberata dal fantasma del marito" e avrebbe potuto continuare a vivere con la famiglia di lui. Non è solo il timore dell'aids, che in Zambia affligge il 16% delle persone fra i 15 ed i 49 anni, e neppure è solo il fatto che la fede di Theresa è quella cristiana: lei dice di voler difendere la sua dignità di donna. Poiché si è strenuamente rifiutata, ha potuto portarsi via appena il suo gregge e ritirarsi sul proprio pezzettino di terra. Ma i parenti acquisiti hanno continuato, per rappresaglia, a bruciare cadaveri proprio su quella terra. Nel 1997 Theresa si è rivolta all'associazione "Legge e sviluppo", un'ong locale che difende le donne dalle discriminazioni di genere. Nel febbraio 2006, dopo svariate vicende, ha vinto la causa legale contro i parenti acquisiti, e l'ha vinta grazie all'applicazione della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw, Onu, dicembre 1979) che lo Zambia ha sottoscritto nel 1985 e che è stata ampiamente citata in tribunale. Grazie a questa sentenza, altre vedove ed orfani cacciati dalle case in cui vivevano alla morte di mariti e padri, molti ridotti a condizioni di estrema povertà, hanno cominciato a farsi sentire.
Secondo Theresa le tradizioni e i costumi si trasformano come ogni altra cosa al mondo e non c'è nulla di tragico in questo. Specialmente quando causano dolore, dice, devono proprio cambiare. Altrimenti calcificano.