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Resistenza nonviolenta (di Anna Bravo)


Tratto da “La nonviolenza è in cammino”, n.1214 di martedì 21 febbraio 2006, pubblichiamo saggio di Anna Bravo, originariamente pubblicato sul quotidiano "La Repubblica" del 26 aprile 2005. Anna Bravo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.), storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali.


La resistenza nonviolenta

(Anna Bravo)


Al tempo della seconda guerra mondiale, in Europa e negli Stati Uniti circolava l'espressione "sdraiarsi come un danese" La Danimarca non si era opposta con le armi all'occupazione nazista, il governo socialdemocratico, pur protestando contro la violazione della neutralità, era rimasto in carica, aveva consentito alla messa fuori legge dei comunisti, si lasciava usare come "vetrina democratica" del III Reich, collaborava mantenendo relazioni economiche con la Germania. Dunque la Danimarca si era "sdraiata", allo stesso modo di una donna che si sottometta all'assalto maschile - i discorsi politici ricorrono spesso a metafore sessuali.
Strana collaborazione, però, lontanissima dallo zelo della Francia di Vichy.
Visto che la Germania ha sottoscritto un memorandum in cui si impegna a non ingerirsi negli affari interni danesi, il governo sceglie di prenderlo alla lettera, muovendosi sul filo del rasoio con la tattica del "come se": come se la Germania intendesse davvero rispettare i patti, come se la minuscola Danimarca potesse negoziare da pari a pari. A volte ci riesce.
Nell'ottobre 1942, Hitler deve rinunciare a far introdurre nel paese leggi antiebraiche, perché il governo minaccia di dimettersi, dichiarando che qualsiasi attacco agli ebrei danesi equivale a un attacco alla Costituzione, in cui è garantita l'uguaglianza di tutti i cittadini. Intanto, non solo a a Copenaghen, molti e molte smettono repentinamente di parlare e di capire la lingua tedesca, e il rifiuto dell'antiebraismo è così diffuso e palese che fra i gerarchi nazisti nascono divergenze su come gestire la situazione.
Nell'agosto '43, di fronte alla pretesa tedesca di schiacciare con la legge marziale una ondata di scioperi, il governo si autoscioglie, dando una enorme legittimazione alla pressoché neonata resistenza.
Poco dopo, a cavallo fra settembre e ottobre, la storia più ammirevole.
Quando gli occupanti cominciano ad arrestare in prima persona gli ebrei e progettano la loro deportazione in massa, ecco che la popolazione - si può davvero dire "la popolazione" - si organizza. Il rabbino della sinagoga di Copenaghen comunica ai fedeli la minaccia; la resistenza, i partiti, le Chiese, la diffondono con i loro canali. I cittadini attivano tutto il loro tessuto associativo, nascondono i ricercati, raccolgono denaro per affittare un numero di barche suffficiente a caricare in poche riprese migliaia di persone, li accompagnano nottetempo ai luoghi di imbarco, mentre lungo strade e sentieri di campagna vigilano i membri della resistenza; infine li traghettano nella sicura Svezia. Hanno collaborato almeno quaranta associazioni di vario tipo, organi amministrativi, la polizia, la guardia costiera - per questo alcuni poliziotti finiranno in Lager. Grazie al popolo "sdraiato", più del 90% dei 7.695 ebrei danesi passa dalla parte dei salvati. Esempio unico, che alcuni autori hanno cercato invano di relativizzare, e che, ha scritto Hannah Arendt, dovrebbe essere proposto agli studenti di scienze politiche, perché capiscano a quali risultati può arrivare una lotta nonviolenta, sorretta da un buon livello della coesione sociale e del riconoscimento popolare nelle istituzioni.

Prima ancora che nasca una resistenza armata, pratiche conflittuali inermi si sviluppano in tutta Europa: si va dalla non cooperazione agli scioperi, dalle proteste pubbliche per la penuria di viveri, alla protezione dei più vulnerabili, alla resistenza alle razzie di lavoratori da gettare nelle fabbriche del III Reich.
In Polonia, si crea una rete di scuole clandestine contro il disegno nazista di ridurre quel popolo alla condizione servile.
Soprattutto nei paesi del nord, insegnanti, magistrati, medici, sportivi, spesso appoggiati dalle Chiese, rifiutano di iscriversi ad associazioni di mestiere nazificate; in Norvegia non ci sarà più alcuna gara fino alla conclusione della guerra - il che contribuisce a aprire gli occhi a molti giovani.
Ovunque durissimo, il braccio di ferro porta ad arresti e deportazioni, ma le istituzioni collaborazioniste sono completamente svuotate, la parvenza di normalizzazione cui aspirano gli occupanti resta un miraggio.
Pochissime, almeno fino agli anni novanta, le ricerche che mettono a tema il carattere disarmato di queste lotte, e dovute quasi esclusivamente a studiosi dell'area nonviolenta, fra cui lo storico francese Jacques Semelin.
Elaborando alla fine degli anni Ottanta il concetto di resistenza civile, Semelin dà a queste pratiche eterogenee un solido statuto teorico, e ne chiarisce la specificità: assenza delle armi e metodi in genere nonviolenti, i cittadini come protagonisti principali, autonomia degli obiettivi, diretti a contrastare lo sfruttamento e il dominio nazista sulla società. Altra cosa, e più complessa, del ruolo di appoggio e supporto alla resistenza armata, che pure conta ed è prezioso.

Ancora oggi, nell'opinione comune e nella ritualità ufficiale, è solo quest'ultimo aspetto a essere ricordato. Così anche in Italia.
Sull'onda dell'attenzione di Carlo Azeglio Ciampi per il rapporto fra identità nazionale e resistenza, le celebrazioni del 25 aprile si sono aperte da tempo all'esperienza dei civili, presentati come attori solidali e sofferenti, però calati e confusi in una massa indistinta, gregaria alla lotta in armi. Diversamente che nel dibattito storiografico, quasi mai si parla della resistenza disarmata come di una realtà autonoma.
Eppure anche da noi è esistita, ed ha avuto il suo momento unico, iniziato e cresciuto nei giorni dopo l'8 settembre, quando alla notizia dell'armistizio con gli alleati l'esercito si dissolve, e decine di migliaia di militari si sbandano sul territorio nazionale, braccati da tedeschi e fascisti. Sulle strade - scrive Meneghello ne I piccoli maestri - si vedevano "file praticamente continue di gente, tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio... Pareva che tutta la gioventù italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla visita di leva".
Dietro quei capi sottratti ad armadi già sguarniti, indossati in case cautamente ospitali o in luoghi appartati, si nasconde una iniziativa di massa del tutto indipendente da direttive politiche, e carica di rischi - presa in ostaggio, deportazione, fucilazione. È la più grande azione di salvataggio della nostra storia, e una testimonianza che fra popolazione e nazisti/fascisti si è aperto un contenzioso su aspetti cruciali dell'esistenza collettiva e della legittimità pubblica, come i criteri di innocenza e colpevolezza. È politica, che altro? Solo che a agire sono per lo più donne, e donne odiosamente definite "umili", donne ritenute incompatibili con la sfera pubblica, che operano individualmente o ricorrendo a reti di relazione parentali, di comunità, di vicinato - strutture basilari della coesione sociale, però invisibili alle categorie dell'analisi politica.
In quegli anni si incontrano storie belle e importanti, che andrebbero raccontate in ogni occasione, pervicamente. Che aiuterebbero a ripensare il tema della responsabilità personale nella guerra e nella resistenza.
È vero che la lotta armata chiede corpi giovani e sani, che non tutti possono sparare, vivere in clandestinità, reggere grandi fatiche; ma il quadro cambia se si pensa a una resistenza diversa, praticabile in molti più luoghi e forme, accessibile a molti più soggetti, dalla madre di famiglia al prete al nonviolento, a chi ha un'età anziana o è fisicamente debole. "Fai come me" è un invito che il resistente civile può estendere ben al di là di quanto possa fare il partigiano in armi, e che mina alle radici una infinità di autoassoluzioni.

Quelle storie aiuterebbero anche a smontare lo stereotipo della nonviolenza come utopia per anime belle. Niente affatto. Nel '43, poteva apparire del tutto irrealistico tentare un salvataggio degli ebrei con mezzi nonviolenti, in un paese sotto legge marziale direttamente controllato dai nazisti.
Guardando all'oggi, nessuno aveva previsto le rivoluzioni incruente all'est, e c'è chi diffida dei militanti di Otpor, l'organizzazione serba per la resistenza civile contro Milosevic, che girano l'Europa per insegnare le tecniche non armate, ma che devono pur avere altri fini! - la nonviolenza da sola non varrebbe la pena. Non era utopica neppure la lunga resistenza civile della popolazione kosovara; è stata ottusa la comunità internazionale a non sostenere decisamente Rugova, una scelta che nel tempo ha minato la fiducia nella strategia nonviolenta dando spazio all'Uck.

La seconda guerra mondiale ha ancora molto da dire, a cominciare da quel che si intende per contributo di un paese o di un gruppo alla lotta antinazista (e a qualsiasi lotta). Oggi lo si valuta ancora in termini di morti in combattimento; sarebbe giusto, tanto più in tempi di guerre contro i civili, misurarlo anche sulla quantità di energie, di beni, soprattutto di vite strappate al nemico; sul sangue risparmiato non meno che sul sangue versato.