Il vostro riconoscimento mi rende felice e orgogliosa, e solo un brutto incidente mi impedisce di essere con voi. Vi sono profondamente grata. Da molti anni nel mio lavoro di storica studio e scrivo di lotte nonviolente. Cerco anche di dare un contributo alle iniziative di associazioni come la fondazione Alexander Langer, che fra le altre attività svolge un'opera assidua di sostegno a quanti e quante si dedicano a costruire ponti al posto dei muri. E quando i muri resistono, li "saltano" simbolicamente e spesso concretamente, con coraggio, con rischi e costi personali, senza violenza.
Qui voglio proporvi una breve riflessione sulle azioni nonviolente, tenendo conto degli stereotipi che circolano da noi, e non solo da noi.
È difficile trovare oggi qualcuno che neghi il valore della nonviolenza. Ma è anche difficile trovare qualcuno che non si affretti a relativizzarla. Si precisa, per esempio, che a livello teorico sarebbe la scelta migliore, ma non nella pratica: perché è un'utopia che non può durare, non può vincere; e dove ha avuto successo (a questo punto l'esempio d'obbligo è il Sudafrica) non è riuscita a risolvere le questioni di fondo - come se ogni nuovo corso non si trovasse di fronte al medesimo problema. È la vecchia pretesa del "tutto e subito", che nei confronti della nonviolenza è applicata con particolare accanimento.
Eppure esistono ormai varie ricerche sulle resistenze non armate (dette anche civili) e armate, che mostrano come nel Novecento siano state le prime a ottenere più esiti positivi; secondo Erica Chenoweth e Maria J. Stephan, fra il 1900 e il 2006 sono state rispettivamente il 59% contro il 27% nelle lotte interne antiregime, il 41% contro il 10% di risultati parziali in quelle contro l'occupazione di un paese o per l'autodeterminazione (per la realizzazione piena i dati si equivalgono). Solo nelle campagne per la secessione di un territorio la scelta nonviolenta conta zero vittorie (e quella violenta l'esile percentuale del 10%), mentre ha il monopolio dell'affermazione nelle lotte contro l'apartheid e per i diritti civili.
Infine, la nonviolenza offre più opportunità per una transizione pacifica: le controversie tra forze politiche non hanno strascichi militari, mentre sono minori le occasioni per desideri di rivalsa e di vendetta. Il libro delle due ricercatrici ha per titolo Perché la resistenza civile funziona.
Credo che dietro l'accusa di utopismo inefficace giochino ancora oggi alcuni corposi equivoci.
Diversamente da quel che molti credono, la nonviolenza non rinuncia ai conflitti sociali e politici, anzi, li apre, ma prova a affrontarli in modo evoluto, con soluzioni in cui nessuno sia danneggiato, soluzioni "win-win", come insegna la teoria dei giochi. Non si limita a rigettare le armi proprie e improprie, rifiuta l'odio. Non è dogmatica, prova a limitare quanto più possibile la violenza nel mondo; lo stesso principio del non uccidere prevede eccezioni, se uccidere è l'unico modo di salvare gli indifesi da un pericolo mortale.
E ancora, la nonviolenza non vive negli interstizi lasciati liberi dal potere: all'opposto, lo sfida. Non dipende dalla sua benevolenza, lo costringe semmai a essere più benevolo. C'è chi pensa che Gandhi potesse agire perché il governo britannico glielo consentiva; certo la Gran Bretagna non è il Terzo Reich, ma se approda a una certa tolleranza è perché il movimento gandhiano non le lascia scelta fra il massacro e la trattativa. Dunque non è una pratica per anime belle, richiede pazienza, sagacia, e coraggio davanti alla ferocia altrui - esiste una combattività nonviolenta molto temuta da chi è al potere.
Non è neppure predicazione per raccogliere proseliti. il concetto ha una carica di immediatezza che nasce dalla semplicità del suo primo fondamento, realizzare un obiettivo senza spargere sangue. Molte e molti che non si sarebbero definiti nonviolenti lo sono stati di fatto.
Come quelle e quelli che qui nella vostra Toscana fra il '43 e il '44 partecipano a due ampi e straordinari fenomeni. Il primo è la protezione accordata ai militari italiani sbandati nei giorni successivi all'armistizio dell'8 settembre 1943, quando l'esercito viene lasciato a se stesso e si disfa letteralmente; il secondo è l'aiuto offerto ai prigionieri alleati evasi in quegli stessi giorni dai campi di concentramento sul nostro territorio nazionale - con i britannici, la maggioranza, ci sono americani, indiani, neozelandesi, sudafricani, francesi, australiani. Le due vicende vedono attivarsi centinaia di migliaia di persone in tutta l'Italia occupata, i salvati sono decine di migliaia. "Fino al giorno della liberazione la maggioranza degli italiani formò una strana alleanza con i prigionieri" - dirà il 17 maggio 1946 Sir Noel Charles, ambasciatore inglese in Italia.
Ma la nostra storiografia ha ignorato questi eventi per decenni, e così la memoria pubblica; il primo libro sull'aiuto ai prigionieri alleati è pubblicato nel 1991 a Firenze (ma in inglese) dallo storico scozzese Roger Absalom, reduce dalla guerra negli Appennini.
Perché non includere i soccorritori nella costruzione di una nuova immagine nazionale, riscattata dai crimini fascisti e fondata sulla capacità di resistenza della popolazione?
La risposta è penosamente semplice, e vale per tutta Europa: in sintonia con la cultura dell'epoca, si era scelta come terreno elettivo della rigenerazione la lotta in armi, che oggi giustamente onoriamo come preziosa ribellione al dominio fascista e nazista.
Preziosa, ma non la sola. Certo, i soccorritori disarmati non "vincono la guerra". "Funzionano" su un altro piano: non consentire che i nazisti si impadroniscano di migliaia di giovani per avviarli ai lager o all'esecuzione â€" è questo il loro campo d'onore. Alcuni dei soccorritori - donne, uomini, contadini, operai, ceto medio, alcuni aristocratici, religiosi e religiose - pagheranno con la vita, come si erano affrettati a sancire una legge di Salò e un decreto tedesco. Non avrebbero meritato i più alti riconoscimenti?
Oggi la situazione sta cambiando, in parte è già cambiata. Ma il lavoro per dare valore a questi resistenti disarmati sarà lungo, e di molti non arriveremo mai a conoscere il nome. Quello che tutti possiamo fare per loro è provare a seguirne l'esempio â€" quegli esempi che Hannah Arendt definisce i cartelli segnaletici della morale - per salvarci dalla tentazione di voltare le spalle alla sofferenza del nostro prossimo, dovunque si trovi e da qualsiasi lontananza provenga.
[Dal sito del Centro studi "Sereno Regis" di Torino riproponiamo il testo del messaggio di Anna Bravo in occasione della cerimonia di consegna del Premio nazionale "Nonviolenza" promosso dall'Associazione Cultura della Pace, Sansepolcro, 17 novembre 2018]
Fonte: Centro di ricerca per la pace e i diritti umani