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Don Milani ieri e oggi (Giuseppe Gozzini)

Pubblicato su “Notizie minime della nonviolenza in cammino”, n. 175 del 8 agosto 2007, del Centro di ricerca per la pace di Viterbo e tratto dal mensile diretto da Goffredo Fofi "Lo straniero", n. 86-87, agosto-settembre 2007, riprendiamo il seguente articolo (disponibile anche nel sito www.lostraniero.net)

"Giovedì prossimo (20 dic.) ci sarà a Firenze davanti al Trib. militare il processo del giovane cattolico milanese Giuseppe Gozzini obiettore. Se sarà condannato è fissato che i nonviolenti fiorentini digiuneranno in piazza Duomo per tutto il giorno di Natale. Sono favorevolissimo alla manifestazione per molti motivi. Non ho mai partecipato alle marce della pace perché non appare chiara la loro utilità,. Ma qui invece appare. C'è l'immediatezza della cosa. C'è che è cattolico. Una rarità tra gli obiettori che son tutti protestanti. E loro sono assistiti dalla solidarietà della loro chiesa. Giuseppe no. Poi c'è la difficoltà per ognuno di lasciare il pranzo familiare il giorno di Natale. Insomma a me pare molto sana cosa e ho intenzione di andarci con tutti i ragazzi che vorranno (di San Donato e di qui). Purtroppo non potro' esserci prima di mezzogiorno perché ho da dire le Messe. Comunque la notizia della mia partecipazione è segretissima perché non voglio che mi arrivi la proibizione prima del fatto. Ti prego di fare tutto quello che puoi per sensibilizzare i tuoi colleghi dell'avvenimento...".
Così scriveva don Milani al giornalista Giorgio Pecorini il 17 dicembre 1962 e aggiungeva di chiedere conferma della manifestazione ad Alberto L'Abate oppure alla Corsia dei Servi a Milano specificando che "Gozzini esce da quell'ambiente".
Ero in galera alla Fortezza da Basso già da un paio di mesi e quindi aspettavo con ansia l'udienza del 20 dicembre ma il processo fu rinviato all'11 gennaio e la manifestazione, di cui parla don Milani, non ci fu.
Stando "dentro", di quel che avveniva "fuori" sapevo quel poco che mi aveva detto il prete operaio don Bruno Borghi, venuto a trovarmi in carcere. Nella Firenze di La Pira la gente comune si appassionava al caso dell'obiettore cattolico e ne parlava per le strade, nelle chiese, nei bar.
Infatti la mia futura moglie, venendo da Milano, alla fermata del tram chiede dov'è la Fortezza da Basso: "Ah, dov'è rinchiuso l'obiettore...", le rispondono subito. "Sì,, io vado proprio da lui!". E c'era chi voleva accompagnarla: "Gli dica che io (nome e cognome) sono d'accordo!". Del resto anche padre Balducci mi ha raccontato che a sollecitarlo a "prendere posizione" sono stati gli operai della Galileo, che sono andati a trovarlo per dirgli: "Ma qui non si fa nulla?". Era un'Italia in cui le idee contavano più delle chiacchiere.
Per farla breve, il processo, che i più avveduti delle alte sfere politico-militari avrebbero voluto evitare, si concluse con una condanna a sei mesi senza condizionale: il "caso Gozzini" ebbe una risonanza enorme grazie soprattutto agli interventi autorevoli di padre Ernesto Balducci e di don Lorenzo Milani, che hanno pagato di persona ben più di me per la loro coraggiosa solidarietà (denuncie e ostracismi, processi e condanne).

Due giorni dopo la mia condanna (13 gennaio 1963) padre Balducci pubblica un articolo sul quotidiano "Il Giornale del Mattino" di Firenze sostenendo la legittimità dell'obiezione di coscienza. Denunciato da tre cittadini zelanti viene processato e assolto in primo grado (7 marzo) ma condannato in appello (14 ottobre) a otto mesi con la condizionale per apologia di reato.
L'anno dopo (primo giugno 1964) la condanna diventa definitiva con una sentenza della Cassazione. In una lettera dell'ottobre 1964, scritta con don Bruno Borghi e indirizzata ai sacerdoti della diocesi fiorentina, don Milani prende le difese di padre Balducci "maestro di ineccepibile dottrina e rettitudine".
Ormai l'obiezione di coscienza in Italia non è più la stessa e dilaga anche fra i cattolici (solo nel 1972 sarà regolata da una legge) mentre continuano le polemiche. Non stupisce quindi il rigurgito patriottico dei cappellani militari in congedo della Toscana con il loro comunicato del 12 febbraio 1965. Cio' che fa andare su tutte le furie don Milani è la frase conclusiva del comunicato: "Consideriamo un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta 'obiezione di coscienzà che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà,". Non ci sta a considerare dei vigliacchi gli obiettori di coscienza e scrive con i suoi ragazzi la ormai famosa "Lettera ai cappellani militari" che è il testo antimilitarista più argomentato e convincente che io abbia mai letto.
Distribuita come un volantino a livello di base e mandata a tutti i quotidiani e periodici, la pubblica finalmente il settimanale comunista "Rinascita" sul numero del 6 marzo 1965. Passano appena dieci giorni e don Milani, denunciato da un gruppo di ex combattenti, finisce diretto in Tribunale (16 marzo).
Nel frattempo riceve decine di lettere anonime piene di insulti, oscenità e minacce, spesso sottoscritte con la svastica e col fascio. Risponde a un generale (lettera del 23 novembre 1965) che gli "ha dato di ipocrita, pazzo, ignorante mascalzone, disfattista e traditore, e lo ha fatto su un giornale". Un settimanale romano di estrema destra, "Lo Specchio", per infangare don Milani "prete rosso", pubblica addirittura (21 marzo 1965) una finta intervista (l'inviato, che non era stato ricevuto alla scuola di Barbiana, si era inventato tutto).
E figurarsi se poteva stare zitto il cardinale di Firenze Ermenegildo Florit che gli manda una lunga lettera (8 marzo 1965) che termina così,: "Pertanto la invito a sottopormi, a partire da questo momento in ogni caso, ogni eventuale suo scritto, prima di dargli pubblicità in qualsiasi modo.
Consideri la presente come una precisa prescrizione. Qualora ella avesse a contravvenirvi, sappia che mi riservo, occorrendo, di sospenderla a divinis...".

Io invece mi riservavo sempre di andare a trovare don Milani e non l'ho mai fatto. Tanti, che "salivano" a Barbiana, mi parlavano di lui come di un mio amico. E lo era anche se - incredibile ma vero! - non ci siamo mai incontrati. Ecco che cosa mi scrive a proposito della "Lettera ai cappellani militari" quando stava per "esplodere" sul settimanale "Rinascita":

"Barbiana, 5.3.1965
Caro Giuseppe, la tua lettera mi ha fatto molto piacere anche perché porto il rimorso che al tempo della tua detenzione a Firenze e del processo, non mi ricordo perché,, non mi feci vivo. Si lesse pero' la tua lettera a tavola e si progetto' di far tante cose che poi non si fecero. Comunque scusami.
Naturalmente ho piacere che la mia lettera abbia la massima diffusione e puoi stamparla dove vuoi sia nella rivista che nel libro. Caso mai leva la parola 'canonizzato' a proposito del Papa perché qualcuno mi ha detto che la frase non è di Pio X ma di Benedetto non so quanto. In questo momento non so dove andare a controllarlo. Fra noi ti diro' che la mia preparazione storica non è profonda come appare dalla lettera. Quando insieme ai ragazzi si ando' a contare le guerre d'aggressione, non mi ricordavo nemmen bene qual'era la II e quale la III guerra di indipendenza. Fruga fruga s'è trovato il materiale che faceva comodo! Oggi su Rinascita c'è il testo completo della mia lettera e di quella del Borghi.
Le copie te le mandero' domani perché le prime mi son sparite in pochi giorni. Ne ho già ordinate altre 5000 e domani mi arrivano. Il tipografo è un mio figliolo e la stampa non mi costa nulla.
I ragazzi e io speriamo di vederti presto qui.
Un abbraccio affettuoso da tutti noi, tuo Lorenzo".

Non ricordo proprio che cosa io gli avevo scritto ma certo lui mi aveva mandato in anteprima copia della "Lettera ai cappellani militari".
Don Milani lo conoscevo per "Esperienze pastorali", un libro che mi aveva sconvolto. Nel 1958, appena uscito, il Sant'Uffizio aveva ordinato di ritirarlo dal commercio ma alla Corsia dei Servi di Milano lo si vendeva sottobanco. Don Milani era dunque uno dei miei grandi maestri della stagione preconciliare.
Dopo l'obiezione di coscienza ci scrivevamo qualche volta ma non ricordo chi ha cominciato nè che cosa ci dicevamo. Alcune delle sue lettere le ho perse, altre le ho date (dopo aver fatto fotocopia) a chi me le chiedeva per la pubblicazione. Non mi risulta che qualcuna sia stata pubblicata. Ho ritrovato, dopo molto scartabellare, la fotocopia di due lettere che mi risultano inedite: quella sopra e quest'altra di parecchi mesi dopo che riguarda una prima edizione di "L'obbedienza non è più una virtù," per la distribuzione di base, quella in cui don Milani mi coinvolgeva sempre. Il mio rapporto con lui non era intellettuale ma di "cose", di possibili azioni in comune:

"Barbiana, 5.11.1965
Caro Gozzini, grazie di tutto. Vorrei ora che te e altri amici vi dedicaste a diffondere migliaia di copie dei tre documenti (comunicato, lettera incriminata, lettera ai giudici) davanti alle scuole e davanti alle fabbriche. Che io sappia nessun giornale milanese aveva il testo completo. Spero di farne un'edizione molto economica essendo i piombi del Ponte (che non mi costano nulla) in mano a un mlo figliolo che ha una piccola tipografia. Se vi interessa averne potete telefonare a lui (...) o scrivere a me.
Saluti affettuosi, Lorenzo".

Naturalmente in quel periodo mi sono dato molto da fare per diffondere "L'obbedienza non è più una virtù,". Era - come scriveva don Milani - una "parola dura, affilata, che spezzi e ferisca, cioè una parola concreta" quella che più ci univa. Impossibilitato a presentarsi al Tribunale di Roma per l'aggravarsi della malattia che lo stava divorando, don Milani scrive insieme ai suoi ragazzi la "Lettera ai giudici": è un documento di autodifesa che gli consente di divulgare le sue idee senza passare per la censura preventiva del Cardinale di Firenze e senza essere cooptato dalla stampa di sinistra com'era avvenuto con "Rinascita".
Rispetto alla prima "incriminata", scritta in pochi giorni, questa seconda lettera è molto più dura, volutamente più "incriminabile", un incitamento esplicito alla disobbedienza. Va più a fondo e ci hanno messo un mese e mezzo per scriverla. Ma - dice don Milani - questa volta "abbiamo orchestrato la simpatia della stampa, premendo con tutte le amicizie possibili e immaginabili in tutti i campi, su tutti i giornali..." perché il documento fosse presentato e letto "senza prevenzioni". Risultato: una sola lettera anonima, accoglienza serena e ragionata da parte della stampa e dei lettori, anche quelli dissenzienti.
Mentre la prima lettera "incriminata" passava in rassegna oltre un secolo di guerre ponendo la domanda: "i soldati dovevano obbedire o obiettare?", la "Lettera ai giudici" scavalca l'obiezione di coscienza al servizio militare per incitare alla disobbedienza alle leggi ingiuste. La scuola, sostiene don Milani, è diversa dal tribunale perché "siede tra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi". I ragazzi, oltre al senso della legalità,, devono possedere anche "la volontà di leggi migliori, cioè il senso politico". Il rispetto per la legge deve essere "costruttivo", cioè - se è ingiusta - ci si deve battere perché sia cambiata. La leva ufficiale è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero.
Ma "quando è l'ora non c'è scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede". Con la più assoluta mancanza di prudenza don Milani aggiunge che bisogna "avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù,, ma la più subdola delle tentazioni".
Per don Milani l'obiezione di coscienza al servizio militare è solo una delle forme di disobbedienza e nemmeno la più importante. Su questo ci capivamo benissimo. E infatti, tre anni prima, riprendendo un'affermazione di Capitini, scrivevo dal carcere: "ogni volta che un uomo rifiuta di diventare complice di una situazione ingiusta, di eseguire comandi o compiere azioni contrarie ai suoi principi, si ha obiezione di coscienza".
In questo senso obiettori lo si è nella vita, nella scuola, sul lavoro, in famiglia, nei rapporti sociali, nell'attività politica.

La "Lettera ai giudici", a differenza della prima "incriminata", registra un solo incidente dopo la pubblicazione. Un'agenzia di stampa fascista (agenzia Dies, 24 ottobre 1965), poco prima dell'inizio del processo (30 ottobre), diffonde una notizia che mette in allarme il cardinale Ermenegildo Florit.
Il Pci starebbe raccogliendo fondi a favore di don Milani. È una bufala, una notizia inventata di sana pianta, ma intanto don Milani deve di nuovo difendersi di fronte al suo vescovo che continuamente gli rimprovera lo "spirito classista".
Da buon anticomunista il cardinale fiorentino presagiva quel che di lì a poco sarebbe diventato don Milani per le nuove generazioni. A poco più di sei mesi dalla morte (giugno '67), don Milani è già presente in quell'incipit fulminante di "Contro l'Università,", l'articolo di Guido Viale, apparso sui "Quaderni piacentini" (febbraio '68): "Il primo compito del movimento studentesco è operare delle distinzioni di classe all'interno della popolazione scolastica...". Non ha importanza che Viale abbia o no letto gli scritti di don Milani. È importante che proprio il rifiuto dell'interclassismo, presente in tutte le sue lettere, sia una delle ragioni del successo di don Milani.
Ma chissà quante arrabbiature avrebbe preso lui di fronte ai biechi travisamenti e alle comode strumentalizzazioni della sua opera. La scelta di classe di don Milani riguarda non il proletariato ma i poveri del mondo contadino, è di ordine religioso non politico, è radicata nel Vangelo non nel Capitale. Certo rimane il fatto che non ho visto nessun altro prete (forse il primo don Zeno) così duramente schierato contro i ricchi. E così ostile a una mentalità passivamente concordataria. La sua è una disobbedienza alla cultura borghese e al "disordine costituito". E volendola inculcare nei "giovani sovrani" (invece che sudditi), dice "che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate" ("Lettera ai giudici").

Su questo non avevamo bisogno di molte parole per intenderci. Eppure oggi a distanza di oltre 40 anni, mi pongo due domande.
La prima: perché non ho fatto nulla per incontrare don Milani? Pensavo che mi volesse bene e mi bastava. Al di là delle difficoltà contingenti, mi intimidiva la radicalità delle sue scelte di vita - povero con i poveri (la sua patria!) - con una coerenza pari all'intransigenza verso se stesso. Se ben ricordo, in una delle sue lettere mi diceva che non sopportava le umiliazioni inflitte ai poveri e si domandava come mai con tanta ingiustizia che c'era in giro, c'erano così pochi cattolici in prigione. Lasciando perdere le motivazioni psicologiche cretine - una sorta di pudore, senso di colpa eccetera - il "mio" don Milani, soprattutto dopo il 1965, è un uomo malato, per la maggior parte del tempo coricato a letto (all'ospedale, a Barbiana o in casa della madre a Firenze), che dal letto continua a "fare scuola", a scrivere, ad arrabbiarsi, cioè a pensare agli altri mentre il dolore fisico lo costringerebbe a pensare a se stesso. È un uomo "fuori misura", che non corrisponde fra l'altro a nessun modello di prete, così vicino eppur così irraggiungibile, che per un po' lo rincorri ma poi ti manca il fiato e ti basta non perderlo di vista e sei felice sapendo che c'é,.
La seconda domanda (ancor più seria): perché questa è la prima volta che scrivo di lui? A parte che nessuno finora me lo aveva mai chiesto, mi sento "bloccato", non so da che parte far correre la penna. È successo anche con questo articolo.
Non appena incappi nei suoi testi: o sì o no, o prendi o lasci, o sei d'accordo o li respingi, senza compromessi culturali. Le sue "Lettere" sono come i versi delle poesie, non ci puoi togliere e aggiungere nulla (e credo che anche lui da qualche parte l'abbia detto. Mi scuso quindi per le inevitabili citazioni o parafrasi). Don Milani ci porta a scoprire cose che già sapevamo benissimo ma è come se fossero dette per la prima volta e diventano esplosivamente immediate.

È sbagliato quindi trattarlo come si fa con gli scrittori. Fra l'altro ha scritto un solo libro (formidabile, ma uno solo e ci ha messo sette anni per darlo alle stampe). Gli altri scritti, ai quali qui faccio riferimento, sono frutto di un'elaborazione collettiva, più o meno lunga, più o meno condizionata dal suo contributo di maestro e allievo nello stesso tempo. Don Milani vola alto stando con chi è in basso (a differenza degli intellettuali che fanno l'inverso). Per questo è un maitre à vivre, che disinnesca "bombe di comunicazione" dirette al cuore e alle coscienze. Non chiede adesione intellettuale ma impegno di testimonianza, non chiacchiere ma fatti.
È "l'adaequatio mentis et rei" di San Tommaso che alcuni sessantottini hanno tradotto in "praticare l'obiettivo". E infatti, secondo i diversi modelli della contestazione, don Milani contro la cultura borghese "praticava" una scuola di classe, contro l'assolutismo pacifista un antimilitarismo radicato nella storia, contro l'astratto umanitarismo i poveri in carne e ossa, contro l'alibi del patriottismo il dovere della disobbedienza, e potremmo continuare. Ma su questa strada si arriva solo a fare di don Milani un modello parziale a proprio (ed esclusivo) uso e consumo, con più o meno onestà intellettuale. Certo la sua vita puo' essere narrata e il suo insegnamento approfondito ma con la consapevolezza che non sono riconducibili a un sistema "altro da lui".
Don Milani va dunque strenuamente difeso: - dai suoi ammiratori, soprattutto dai rappresentanti di quel mondo intellettuale e borghese (di destra, di centro e di sinistra) che ha fatto di tutto per condannarlo o esaltarlo, omologarlo o edulcorarlo, alzando un polverone tale (convegni, articoli, libri, antologie, inediti, trasmissioni radiotelevisive, spettacoli teatrali, film) che non si riesce più nè a collocarlo nel suo contesto storico nè a trarne insegnamenti per uscire dall'orribile palude nella quale siamo immersi; - dal potere ecclesiastico, che ora lo riscopre con un candore sospetto e una disgustosa ipocrisia secondo l'abitudine, collaudata da secoli, di canonizzare in morte chi è stato vituperato in vita. Sarebbe sommamente istruttivo andare a rileggere quello che la stampa cattolica ha scritto contro di lui quand'è uscito, ad esempio, "Esperienze pastorali" e confrontarlo con le recenti commemorazioni del "coraggioso sacerdote fiorentino".
Per concludere il racconto sulle disavventure giudiziarie di don Milani per aver affermato "il dovere di disobbedire", dopo la "Lettera ai giudici" è assolto con formula piena il 15 febbraio 1966 ma rimane imputato per il ricorso del pubblico ministero. E quando muore il 26 giugno 1967, la giustizia italiana non l'ha ancora assolto. Anzi, più di un anno dopo, la Corte d'appello, modificando la sentenza di primo grado, lo condanna definitivamente. A uno come don Milani la legge non ci arriva proprio, è inadeguata.