Dopo che, l'11 febbraio 1965, un gruppo di cappellani militari della regione toscana aveva stilato un comunicato che si concludeva con questa frase: «Considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà», don Lorenzo Milani rispose loro con una lettera, che provocò non solo un processo (contro di lui) ma svegliò molti italiani (in suo favore) e ancora oggi è un piccolo monumento nella storia della società contemporanea.
Oggi, l'obiezione di coscienza viene invocata come diritto, non solo dai militari, ma anche da professionisti di altre categorie, come i medici nei casi di aborto, anche terapeutico. Secondo la vecchia lettera dei cappellani militari toscani, questi medici, ora sostenuti dalla Chiesa cattolica come difensori della vita, sarebbero vili sostenitori di un'idea «estranea al comandamento cristiano dell'amore». I tempi cambiano. Forse, altri sacerdoti dovrebbero prendere la penna in mano e riportare di nuovo in primo piano il testo di don Milani. Per l'obiezione alla guerra? Proprio per l'obiezione alla guerra.
Ma non si può. Anche don Milani non potrebbe più farla, dovrebbe cambiare argomenti e obiettivi. La guerra, ormai, si fa di mestiere. Il parroco di Barbiana in quella sua risposta citava Gandhi: «Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della guerra» (Non-violence in peace and war. Ahmedabad 14 vol. I). Per chi fa la guerra di mestiere è una frase allucinante, sono le parole di un pazzo. Infatti, fu assassinato. E quel «pazzo» (così veniva definito in una lettera minatoria pubblicata sui giornali) di don Milani quasi certamente partirebbe da qui.
Parlando di patria, i cappellani militari toscani tracciavano una differenza fra italiani e stranieri. Differenza logica, visto che ci sono nazioni e confini, ma traumatica quando si parla di una «patria» contro l'altra: qui non ci si aiuta, si muore. Don Milani affermava: «Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».
Penso che un cristiano non possa non acconsentire. Don Milani ricordava che Vittorio Emanuele II di Savoia, il «re buono», premiò nel 1898 il generale Bava Beccaris che a Milano aveva fatto cannoneggiare una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento: «solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiare polenta. Poca perché era rincarata».
Mario Pancera
Oggi, l'obiezione di coscienza viene invocata come diritto, non solo dai militari, ma anche da professionisti di altre categorie, come i medici nei casi di aborto, anche terapeutico. Secondo la vecchia lettera dei cappellani militari toscani, questi medici, ora sostenuti dalla Chiesa cattolica come difensori della vita, sarebbero vili sostenitori di un'idea «estranea al comandamento cristiano dell'amore». I tempi cambiano. Forse, altri sacerdoti dovrebbero prendere la penna in mano e riportare di nuovo in primo piano il testo di don Milani. Per l'obiezione alla guerra? Proprio per l'obiezione alla guerra.
Ma non si può. Anche don Milani non potrebbe più farla, dovrebbe cambiare argomenti e obiettivi. La guerra, ormai, si fa di mestiere. Il parroco di Barbiana in quella sua risposta citava Gandhi: «Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della guerra» (Non-violence in peace and war. Ahmedabad 14 vol. I). Per chi fa la guerra di mestiere è una frase allucinante, sono le parole di un pazzo. Infatti, fu assassinato. E quel «pazzo» (così veniva definito in una lettera minatoria pubblicata sui giornali) di don Milani quasi certamente partirebbe da qui.
Parlando di patria, i cappellani militari toscani tracciavano una differenza fra italiani e stranieri. Differenza logica, visto che ci sono nazioni e confini, ma traumatica quando si parla di una «patria» contro l'altra: qui non ci si aiuta, si muore. Don Milani affermava: «Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».
Penso che un cristiano non possa non acconsentire. Don Milani ricordava che Vittorio Emanuele II di Savoia, il «re buono», premiò nel 1898 il generale Bava Beccaris che a Milano aveva fatto cannoneggiare una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento: «solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiare polenta. Poca perché era rincarata».
Mario Pancera