• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Una complessa strategia

Non e' difficile trovare architetti disposti a costruire case per chi ha soldi, economisti pronti ad aumentare il danaro dei ricchi, sociologi disponibili a collaborare con chi sfrutta affinche' lo sfruttamento avvenga con meno difficolta', strateghi o diplomatici disponibili a far propria la causa dei forti. D'altra parte non e' difficile trovare candide persone che credono si possa cambiare gli ingiusti privilegiati e gli sfruttatori prepotenti con le prediche. Si incontrano a un estremo esperti di aumento di produzione e reddito, impegnati a realizzare sviluppo in particolari settori, il cui scopo e' conseguire il massimo guadagno con il minimo sforzo: perlopiu' presentati come scienziati o tecnici, spesso non sono che quadri piu' o meno abili dello sfruttamento, o alleati che facilitano loro il compito realizzando reti di opportuni servizi. Dall'altro estremo e' facile incontrare sognatori impotenti, sfocati, o evasivi, con premura di trovare panacee universali; o educatori impegnati in un lavoro di sviluppo personale o settoriale che prescinde, o quasi, dalla necessaria trasformazione delle condizioni ambientali globali. Alla solidita' chiusa dei primi corrisponde la genericita' effimera o l'insufficenza dei secondi.
A livello locale, nazionale e internazionale, in un contesto transnazionale - i problemi trapassano ormai in ogni modo frontiera -, occorrono nuovi esperti capaci di promuovere e operare dalle singole situazioni, allargandosi via via con le popolazioni potenzialmente interessate, esatte diagnosi e necessari interventi: capaci di lavoro di gruppo, attenti all'intrecciato insieme dei problemi, sensibili sia agli aspetti quantitativi, sia alla qualita' dello sviluppo, cioe' veri esperti di valorizzazione. E soprattutto, a evitare inutili e dannosi conflitti, capaci di intuire quando e come sia possibile operare prima che le situazioni si deteriorino, si sfascino.
Intervenire, a livello locale come a livello internazionale, quando le situazioni sono gia' gravemente compromesse e i rapporti sono ormai corrotti o addirittura saltati, e' naturalmente piu' difficile. Non pochi d'altronde desiderano prepararsi per dare un senso profondo alla propria vita e operare con competenza efficace alla realizzazione di una vita nuova, di tutti, con nuove prospettive.
La costruzione di una nuova societa' che viva in modo pacifico, ovviamente non puo' significare l'assenza di conflitto o lo status quo. Quando si mira a una societa' pacifica, penso, si mira ad una societa' nonviolenta, cioe' a una societa' che strutturalmente tenda a eliminare quelle violenze dirette o indirette (come la guerra, il razzismo, lo sfruttamento) che impediscono lo sviluppo; e nel contempo a una societa' in cui, chi risulti in qualsiasi modo impedito, tenda a impegnarsi - nei conflitti che stima necessari - in modo nonviolento.
La complessa strategia per operare trasformazioni nonviolente richiede capacita' specifiche, ad esempio:
1) Saper promuovere "coscientizzazione" nelle popolazioni interessate, precisa autoanalisi popolare, scoprendo zona per zona le tecniche piu' adatte.
Occorre che ciascuno sappia riconoscere i problemi essenziali: ciascuno, ad esempio, dovrebbe avere esattissima coscienza di come nel suo ambiente si forma, e viene esercitato, il potere. Ogni zona, ogni problema, richiede uno studio a se', approfondito, per sapere ad esempio come impostare la ricerca dei dati essenziali, la proposta di nuovo sviluppo, la discussione popolare di queste proposte, le possibili azioni costruttive, le piu' opportune pressioni.
2) Saper promuovere tra chi e' debole perche' solo, isolato, la sua partecipazione ai diversi gruppi (locali e non) in cui, integrato, possa valorizzarsi sulla base dei suoi piu' profondi interessi; mirare alle piu' vaste dimensioni, agli obiettivi piu' complessi, sapendo come occorre iniziare trovando i punti piu' saldi su cui far leva.
3) Saper promuovere e interrelare nuovi gruppi aperti, democratici, valorizzatori di ciascun membro, e all'esterno.
4) Saper riconoscere e sviluppare i piu' profondi valori, e le persone che li incarnano, ove sono, spesso silenziosi e nascosti: riuscendo a sostituire al modello violento imposto i modelli ideali nonviolenti.
5) Saper promuovere assunzione di responsabilita' nelle popolazioni per una precisa azione di denuncia dei fatti e dei fenomeni relativi alle strutture violente, anche facendo leva sulle "carte" e le leggi, internazionali o nazionali, gia' esistenti.
6) Saper ogni volta inventare le piu' efficaci forme di pressione nonviolenta: attente a elevare il livello dei conflitti da parte di chi li muove (tendendo a elevarli anche negli avversari violenti, se non si vogliono scoprire all'opinione pubblica per quello che sono).
7) Saper promuovere nuovi gruppi di gruppi.
8) Saper promuovere zona per zona, con metodi che variano secondo il grado di maturita' acquisita dalle popolazioni, una pianificazione democratica, organica, col massimo di partecipazione creativa da parte di ciascuno, individuo o gruppo.
9) Saper operare con la necessaria dialettica tra azione maieutica all'intorno, e assunzione personale di responsabilita'.
10) Saper contribuire a promuovere o consolidare la formazione di necessari centri di coordinazione mondiale - non necessariamente di potere - e la coordinazione tra loro stessi.
Non e' possibile prevedere se gli uomini sceglieranno di sopravvivere o di suicidarsi: ma se sceglieranno la vita - per paura se non per amore - questa scelta significhera' l'invenzione sempre piu' scientificamente organica dell'azione e della rivoluzione (cioe' anche di una cultura e di una morale) nonviolenta.
A chi obietta che finora nella storia non sono stati possibili cambiamenti strutturali con metodi nonviolenti, che non sono esistite rivoluzioni nonviolente, occorre rispondere con nuove sperimentazioni per cui sia evidente che quanto ancora non e' esistito in modo compiuto, puo' esistere. Occorre promuovere una nuova storia.
Da Non sentite l'odore del fumo?, Bari, Laterza, 1971, pp. 87-90.

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo