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Scrivere dalla Palestina (di Giulio Vittorangeli)

Tratto dalla nonviolenza è in cammino. 1071 di domenica 2 ottobre 2005

Nei giorni in cui lo facciamo, scrivere della Palestina è frustrante.
Intorno a noi le divisioni tra popoli si moltiplicano; le distanze si allargano. A molti, quelle barriere, steccati, frontiere, muri della vergogna, fanno comodo.
Il 12 settembre, Israele ha completato il ritiro dei suoi soldati mettendo fine a 38 anni di occupazione militare della Striscia di Gaza. "Un inferno di miseria e di odio, un popolo tenuto per 38 anni sotto un regime crudele, che distruggeva, giorno dopo giorno, ogni parvenza di diritto. Nel 1991, a una delegazione di parlamentari italiani da me presieduta, il generale Zach e il signor Phines Avivi - i due massimi esponenti della cosiddetta 'Amministrazione civilè dei territori occupati - dichiararono senza vergogna che nella Striscia applicavano volta a volta le vecchie leggi del Protettorato britannico o quelle egiziane oppure i bandi militari" (Ettore Masina, "Lettera" n. 109, settembre 2005).
Così abbiamo visto, almeno per un attimo, la gioia di un popolo che rivendica un desiderio infinito, potentissimo e chiaro, di libertà che si innalza al di sopra e al di là di tutti i confini.
Certo, c'è stato l'assalto palestinese alle sinagoghe dei coloni. Ma averle lasciate volutamente integre, come simbolo dell'occupazione, è stata una scelta sentita da parte della popolazione palestinese come provocatoria.
Gaza restava comunque una specie di bantustan sotto il controllo di Israele; e l'odio è facilmente riesploso travolgendo la fragile tregua. Sono ripresi i raid, gli assassini mirati da parte di Israele e il lancio di razzi palestinesi contro i centri abitati. E di nuovo è l'infinito buio. La spirale tremenda - che soltanto Rabin ha cercato di fermare e per questo è stato ucciso - funziona sempre.

Si diceva che scrivere della Palestina oggi frustra. E non potrebbe essere altrimenti, perché anche noi - impegnati da sempre per la pace fra israeliani e palestinesi - siamo responsabili della crudeltà attuale. Non possiamo non interrogarci, non chiederci se abbiamo veramente svolto al meglio il nostro ruolo.
Abbiamo visto il torto fatto a quella che fu la Palestina tollerante, delle decine di etnie, religioni e chiese. Sono stati i governanti di Israele, che a suo tempo hanno favorito la creazione di Hamas, il movimento islamico palestinese, per indebolire l'Olp. Gli stessi governanti che hanno portato molti palestinesi alla disperazione e ad una sorta di frustrazione rassegnata. Ridurre la gente all'indifferenza e all'apatia, rendere l'esistenza così miserabile da far sembrare necessario rinunciare alla vita stessa: è questo lo stato di disperazione chiaramente voluto da Sharon. E se non dovesse riuscire nell'impresa, gli subentrerà Netanyahu per cercare di portare a termine lo stesso compito terribile e disumano, ma in ultima analisi suicida.

Del resto la storia non ha pietà. Non conosce leggi contro la sofferenza e la crudeltà, non possiede un equilibrio interno capace di restituire il giusto nel mondo a un popolo che ha subito grandi torti. Proprio il groviglio di dolore passato e presente, di ingiustizie passate e presenti, fanno della questione Israele-Palestina un problema internazionale diverso da tutti gli altri.
Per questo bisogna reinventare una solidarietà che superi gli stanchi vecchi metodi che non riescono a promuovere gli interessi palestinesi. È importante appoggiare il popolo palestinese, ma è importante, allo stesso tempo, dire qualcosa - per esempio - sui riservisti israeliani che si sono rifiutati di prestare servizio in Cisgiordania e a Gaza. Se non cominciamo a riconoscere e a lavorare d'intesa con la resistenza israeliana all'oppressione israeliana, resteremo fermi al punto di partenza. Perché non sforzarsi di distinguere i gruppi israeliani che si oppongono alla demolizione delle case, all'apartheid, agli assassini mirati o a ogni altra illegittima manifestazione della prepotenza governativa israeliana? Prepotenza che inevitabilmente crea nuovi spazi per nuovi tipi di resistenza di cui gli attentati suicidi non fanno parte.
Jamal Zaquot, deportato palestinese nella prima Intifada, sul corpo i segni delle torture, ha dichiarato: "Non sopporto che vi siano attacchi sui civili in Israele; anche se nei territori palestinesi i bombardamenti, gli attacchi militari, uccidono civili, non si può rispondere con la logica del dente per dente. Non si può pensare loro ci uccidono, noi abbiamo paura tutti i giorni, i nostri bambini, i nostri giovani muoiono ogni giorno, anche loro devono avere paura, anche loro devono morire. Sono contrario politicamente e moralmente non solo perché si uccidono civili, ma perché è la nostra stessa umanità che si perde, è il futuro del popolo palestinese che non può formarsi con la cultura della morte e della vendetta. Dobbiamo essere i n grado di non sviluppare la sindrome dell'unica vittima, e di non pensare che siccome noi siamo oppressi e umiliati possiamo usare con chi ci opprime e umilia ogni arma".

Non si potrà sconfiggere l'occupazione e ottenerne la fine senza una convergenza degli sforzi concreti e mirati di palestinesi e israeliani.
Dobbiamo concentrarci soprattutto su questo, specialmente oggi che le crepe della società israeliana mostrano un popolo spaventato, chiuso e terribilmente insicuro.
"Spetta sempre alla vittima, non all'oppressore, indicare nuove vie di resistenza, e i segnali dicono che la società civile palestinese sta cominciando a prendere l'iniziativa. Questo è un auspicio eccellente in un periodo di scoraggiamento e regressione agli istinti primordiali" (Edward W. Said).