Dentro l'aeroporto, dove verranno assemblati i cacciabombardieri F35 (quelli di quinta generazione al cui sviluppo partecipa fin dall'inizio anche l'Italia) prati ed edifici sparsi testimoniano che il cantiere deve ancora aprirsi. Ma da gennaio 2011 le ruspe cambieranno ancora di più il volto di Cameri: da aeroporto militare a sito industriale. E tutto con i soldi dello Stato.
Dopo anni di campagna contro i JSF (Joint Strike Fighter o F35 con la sigla numerica) un gruppo di esponenti del mondo del disarmo – grazie alla disponibilità al confronto dell'Aeronautica Militare – ha visitato i luoghi che ne vedrà operativo il secondo polo mondiale di assemblaggio: la cosiddetta FACO (Final Assembly and Check Out facility) che arricchirà il sito di Cameri (in provincia di Novara), da tempo riferimento logistico e di manutenzione ad alto livello tecnologico per la nostra Aeronautica.
A fianco degli hangar in cui già oggi i Tornado e gli Eurofighter Typhoon vengono rimessi a nuovo, dopo incidenti in volo o eventuali problematiche maggiori, un investimento cospicuo di soldi pubblici creerà una nuova struttura che fino al 2026 dovrebbe vedere la costruzione di diverse decine di F35, a completamento del programma (partito ancora negli anni '90 con le prime fasi di sviluppo) per il quale molti fondi sono stati spesi. L'Italia ha già contribuito con circa un miliardo di euro in questi ultimi 15 anni, ma l'ultimo assegno in ordine di tempo è stato staccato dalla legge di stabilità appena approvata: 795,6 milioni per la costruzione di questo nuovo impianto, affidata alla vicentina Maltauro (primo lotto con commessa di 185 milioni). A dimostrazione che le critiche del mondo del disarmo non sono campate "in aria": fino allo scorso anno (lo testimoniano i pareri parlamentari) l'onere previsto era di poco superiore ai 600 milioni, mentre dopo soli 20 mesi il conto è più salato di 200 milioni.
Oltre all'ammontare astronomico della spesa, il problema maggiore sta forse da un'altra parte, nel sistema utilizzato per portare avanti la costruzione e l'acquisizione di questi moderni aerei d'attacco. Tutti gli investimenti statali vanno ad interessare un'area del demanio militare ma automaticamente andranno anche a forte vantaggio di aziende frivate (anche se molte di esse fanno parte della galassia di Finmeccanica, che al vertice ha un controllo a maggioranza pubblico). Qui sta il bello: chi dovrà partecipare alle fasi di assemblaggio (già ora si parla di oltre 35 aziende) o chi, come Alenia Aeronautica, è riuscita a farsi assegnare, soprattutto per la forte pressione del nostro Governo, la costruzione delle ali del velivolo – anche per gli aerei non italiani – si troverà pronta la struttura industriale in cui lavorare. Una collaborazione esterna privata nelle strutture di manutenzione aeronautica c'è sempre stata (e anche noi abbiamo visto diverse giacche griffate "Alenia"), ma con l'operazione F35 le proporzioni si invertono e soprattutto il vantaggio (competitivo ed industriale) per le aziende parte fin dalle fasi di sviluppo e costruzione. Un bel vantaggio, che non trova riscontri in altri comparti della nostra economia. Un modello di interessi intrecciati tra pubblico e privato che da tempo è l'architrave della buona salute dell'industria a produzione militare; non a caso anche Alenia Aermacchi, ad esempio, ha il suo aeroporto di Venegono Superiore inserito in un'area demaniale.
Poter ottenere commesse e stringere accordi commerciali "non dovendosi nemmeno muovere dalla scrivania", come ci commenta una fonte militare, è un vantaggio non da poco in tutti i periodi e particolarmente nella congiuntura attuale; il nocciolo sta nel lavoro continuo che parti delle strutture dello Stato compiono a vantaggio (diretto o indiretto) dell'industria degli armamenti. Da Berlusconi che si autodefinisce "commesso viaggiatore per le aziende militari" agli altri livelli governativi che devono spendersi in martellanti trattative ottenere ritorni economici, dalle strutture del Ministero della Difesa che devono facilitare e vigilare sui contratti legati ai mastodontici progetti multi-nazionali fino ai vertici delle Forze Armate che assegnano i loro uomini migliori a produrre dati e relazioni per richiedere soldi al Parlamento. E tutto questo con ritorni tecnologici e di know-how (tralasciando giudizi etici e di merito sull'acquisto) di secondario valore: lo prova il fatto che la linea di Cameri non avrà le stesse specifiche di quella situata in Texas e – causa alti costi – si dovrà accontentare delle attrezzature essenziali, eliminando gli strumenti più avanzati di cui serve Lockheed Martin negli USA.
La recente pressione politica italiana ha probabilmente ottenuto un ritorno industriale complessivo di commesse del 75% sul totale dell'investimento di acquisto dei 131 caccia previsti; ciò a detta del sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, con una stima confermata anche dagli uffici militari.
Ma la crescita vertiginosa del costo base porta ormai ad una spesa di 14 miliardi di euro: anche se ci fosse per le aziende un ritorno di 10 miliardi la partita non sarà poi così positiva perché in un programma aeronautico si spende non tanto dall'acquisto dei veivoli (30%) quanto per il mantenimento e la gestione (70%). Ciò porterebbe, in stima, a 32 miliardi di spesa totale il rientro di meno di un terzo di tali soldi non sarebbe certo un grande affare.
Il meccanismo problematico travalica il singolo programma F35. Le competenti commissioni parlamentari hanno infatti appena deliberato, su richieste impellente e necessaria per l'operatività della Difesa, acquisti di armi davvero sovradimensionati in uno scenario di taglio di fondi pubblica e senza correzione degli squilibri più volte denunciati (anche nel nostro libro "Il Caro armato") nella spesa militare.
Lo shopping armato (alla Camera deliberato in poco più di mezz'ora di discussione) sarà ad ampio raggio: si va dall'acqua in cui sibileranno i siluri per i sommergibili U-212 e navigherà una nuova unità militare di appoggio (87 milioni pagati a WASS e 125 milioni per Fincantieri rispettivamente), alla terra su cui si stenderà la nuova rete informatica militare DII (236 milioni a vantaggio di Elsag Datamat) e potranno sparare 271 nuovi mortai (22,3 milioni di spesa), per finire all'aria in cui voleranno nuovi elicotteri prodotti da AgustaWestland mentre nuovi sistemi di puntamento (Ots della Selex Galileo) e nuovi missili anticarro Spike verranno montati sugli A129 Mangusta, gli stessi di stanza in Afghanistan. Costo di quest'ultima fornitura: 200 milioni di euro.
Una spesa complessiva di circa 950 milioni di euro nei prossimi anni a cui si collegano ulteriori rosee prospettive per la già citata AgustaWestland: l'acquisto dei primi 10 elicotteri AW139 è solo propedeutico ad un altro, più corposo, capitolo che riguarderebbe 12 macchine pesanti, modello AW101, per circa un miliardo di euro di spesa. Elicotteri acquisiti in versione da combattimento e salvataggio per sostituire entro il 2014 quelli oggi in servizio. Per poter far fronte a un tale impegno si dovrà ricorrere, come già in svariati programmi della Difesa, alla "stampella" del Ministero per lo Sviluppo Economico. Sottraendo così risorse ad altri comparti economici, magari in difficoltà, e confermando il favoritismo indebito verso il settore militare, cannibale di ogni fondo possibile. Come nel caso dell'ultimo decreto del dimissionario ministro Scajola, che ha spostato soldi da una vecchia legge per il Mezzogiorno a vantaggio del'industria armiera (50 milioni) ed addirittura delle pistole Beretta (2 milioni) invece di destinarli a laureati del Sud come previsto nella norma originaria.
di Francesco Vignarca da Altraeconomia nr° 123, gennaio 2010