• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Come soldati, come patrioti, come esseri umani ci opponiamo alla guerra illegale e criminale (Ehren Watada)

Pubblicato sul n. 1390 della “nonviolenza è in cammino” del 17 agosto 2006

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento tenuto dal tenente statunitense Ehren Watada al convegno dei Veterani per la pace il 12 agosto 2006. Ehren Watada il 22 giugno scorso si è rifiutato di partire per l'Iraq, considerando illegali la guerra e l'occupazione: "Poiché l'ordine di prendere parte ad un atto illegale è ovviamente contro la legge, io devo rifiutare quest'ordine". Mentre si accingeva a fare il suo intervento, oltre cinquanta membri dei Veterani che hanno fatto esperienza del conflitto iracheno si sono posti in fila alle sue spalle in un simbolico sostegno al suo gesto. Il tenente Watada ha iniziato a parlare visibilmente commosso]


Grazie a tutti. Grazie per questo enorme sostegno.
Non so dirvi quanto sono onorato e felice di essere nello stesso luogo con voi. Sono profondamente, umilmente riconoscente di essere in compagnia di tali meravigliosi oratori.
Voi siete tutti veri patrioti americani. Sebbene non vestiate più l'uniforme, voi vi attenete ai principi che un tempo avete giurato di praticare e difendere. Nessuno conosce la devastazione e la sofferenza della guerra meglio di chi l'ha provata, ed è per questo che noi veterani dovremmo essere i primi a prevenirla.
Non ero troppo sicuro di cosa avrei detto stasera. In generale, come comandante di uomini, dovrei parlare per motivare altri. Ma questo non è l'esercito, e poi sono solo un tenente. Siamo tutti cittadini di questo paese e ciò che ho da dire non concerne la mia autorità, parlo quindi da cittadino ad altri cittadini.

[Pubblicato sul quotidiano "La stampa" del 2 ottobre 2006, tratto dal n. 1441 di "La nonviolenza è in cammino" del 7 ottobre 2006]
A forza di parlare di guerra globale contro il terrorismo, i responsabili occidentali rischiano di perder di vista le singole battaglie che questa guerra ha originato, e i risultati concreti che la loro somma ha ottenuto in cinque anni. Il concetto di guerra totale al terrorismo ha infatti effetti perversi, sui modi di ragionare e anche di far politica e combattere.
Ha un effetto sulla percezione del tempo, innanzitutto: il tempo si fa statico, sconnesso dal divenire, e questo per due motivi. Perché l'obiettivo si spersonalizza (il bersaglio non è un nemico ma un metodo, appunto il terrorismo). E perché la guerra è presentata come globale, totale, dunque infinita e inviolata. Il giorno che si spegnerà, si spegnerà per ragioni che poco hanno a che vedere con gli eserciti d'Occidente.
Il concetto ha poi un effetto sul nostro modo di valutare le singole battaglie: tutte le guerre iniziate da Usa o Occidente, compreso lo Stato d'Israele (Iraq, Afghanistan, Libano) sono viste separatamente, come esperienze contingenti di una permanente e imperturbata idea generale (la lotta al terrorismo). Quest'ultima si tramuta in ipostasi, cioè in qualcosa che ha una propria consistenza astratta e ideale - così l'ipostasi è spiegata nel Devoto e nell'Oxford English Dictionary - al di là del fluire fenomenico, degli accidenti e delle ombre del reale. I fatti sul terreno non si unificano mai, essendo puri riflessi. S'unificano solo nel cielo delle idee, dove dettagli e accidenti pesano poco, se pesano.

Ho paura che, in questo conflitto, non funzioni la deterrenza nucleare.

Per essere più chiari, a differenza di quanto avvenuto nei lunghi anni della guerra fredda, il terrore di un'ecatombe nucleare non pare avere la forza di sollevare una grande reazione diffusa nell'opinione pubblica e nei governi.

Sto provando a darmi una spiegazione di ciò e mi sembra che ci siano alcuni elementi evidenti.

Ho vissuto e commentato tutte le guerre che hanno punteggiato il disordine mondiale post-89 da una posizione di minoranza, e spesso di minoranza nella minoranza.

Nel 1990 ero contro la Guerra del Golfo, voluta dagli Usa e autorizzata dall’Onu contro Saddam Hussein che si era annesso il Kuwait: l’annessione di Saddam era illegittima, ma la rilegittimazione della guerra come strumento di risoluzione di una controversia internazionale avrebbe aperto una nuova epoca belligerante dopo la pace armata della Guerra fredda, come infatti è puntualmente avvenuto.

Nel 1998 ero contro “l’intervento umanitario” in Kosovo (così venne chiamata allora la guerra della Nato nella ex Jugoslavia, con una mistificazione linguistico-politica analoga a quella della “operazione speciale” di Putin in Ucraina): le ragioni dei kosovari andavano certamente sostenute, ma le bombe sopra Belgrado mi parevano il modo peggiore di farlo e le conseguenze le stiamo pagando ancora adesso, Putin essendosela, come si dice, legata al dito.

Provo, forse anche nel tentativo di fare chiarezza in quel magma di dubbio nel quale mi trovo, ma che sicuramente preferisco alle facili certezze che leggo di qua e di là.

Alcune premesse sono necessarie, proprio per evitare fraintendimenti.

La prima riguarda il mio punto di vista, che non è neutrale, ma è quello di uno che si è sempre sentito vicino al Movimento Nonviolento fin da quando si è dichiarato obiettore di coscienza: un punto di vista, tuttavia, che non ho mai abitato con le rigide certezze, ma che invece mi ha sempre abituato ad affrontare le situazioni e i conflitti sapendo che questi, anche quando appaiono facili ed evidenti, sono sempre materiale complesso, che non può essere risolto con semplici scorciatoie: sopratutto sono una tragedia, un dramma, una terribile sequenza di schifezze.