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Ho paura che, in questo conflitto, non funzioni la deterrenza nucleare.

Per essere più chiari, a differenza di quanto avvenuto nei lunghi anni della guerra fredda, il terrore di un'ecatombe nucleare non pare avere la forza di sollevare una grande reazione diffusa nell'opinione pubblica e nei governi.

Sto provando a darmi una spiegazione di ciò e mi sembra che ci siano alcuni elementi evidenti.

Ho vissuto e commentato tutte le guerre che hanno punteggiato il disordine mondiale post-89 da una posizione di minoranza, e spesso di minoranza nella minoranza.

Nel 1990 ero contro la Guerra del Golfo, voluta dagli Usa e autorizzata dall’Onu contro Saddam Hussein che si era annesso il Kuwait: l’annessione di Saddam era illegittima, ma la rilegittimazione della guerra come strumento di risoluzione di una controversia internazionale avrebbe aperto una nuova epoca belligerante dopo la pace armata della Guerra fredda, come infatti è puntualmente avvenuto.

Nel 1998 ero contro “l’intervento umanitario” in Kosovo (così venne chiamata allora la guerra della Nato nella ex Jugoslavia, con una mistificazione linguistico-politica analoga a quella della “operazione speciale” di Putin in Ucraina): le ragioni dei kosovari andavano certamente sostenute, ma le bombe sopra Belgrado mi parevano il modo peggiore di farlo e le conseguenze le stiamo pagando ancora adesso, Putin essendosela, come si dice, legata al dito.

Provo, forse anche nel tentativo di fare chiarezza in quel magma di dubbio nel quale mi trovo, ma che sicuramente preferisco alle facili certezze che leggo di qua e di là.

Alcune premesse sono necessarie, proprio per evitare fraintendimenti.

La prima riguarda il mio punto di vista, che non è neutrale, ma è quello di uno che si è sempre sentito vicino al Movimento Nonviolento fin da quando si è dichiarato obiettore di coscienza: un punto di vista, tuttavia, che non ho mai abitato con le rigide certezze, ma che invece mi ha sempre abituato ad affrontare le situazioni e i conflitti sapendo che questi, anche quando appaiono facili ed evidenti, sono sempre materiale complesso, che non può essere risolto con semplici scorciatoie: sopratutto sono una tragedia, un dramma, una terribile sequenza di schifezze.

Se non si riesce a porre fine a questa guerra nefasta che ha già distrutto l’anima del mondo prima ancora che le istituzioni che ne assicurano la vita, è perché non è stato esorcizzato lo spettro della vittoria. È un luogo comune, ma del tutto falso, che la vittoria sia la conclusione migliore di una guerra. Si tratta di un mito antico: la vittoria è il premio della guerra; la vittoria alata si libra sul trionfo del condottiero, schiaccia l’elmo del vinto; non è concepibile se non la vittoria come uscita dalla guerra, padre e principio di tutte le cose, come è stata teorizzata da sempre, almeno a partire dal detto di Eraclito.

Una considerazione amara e una precisazione storica.

Non è davvero accettabile che qualsiasi tentativo di analisi della situazione ucraina non ridotto alla condanna della Russia di Putin e alla perentoria affermazione della indisponibilità dello stesso presidente russo a trattare venga bollato come filorusso e antiamericano.

I pro non ci sono. Giorno dopo giorno vediamo sempre meglio come la guerra in Ucraina non sia che distruzione di vite, di famiglie, di ambiente, di socialità, di umanità, di intelligenza. Come tutte le guerre. Ma questa di più. Che senso ha mandare armi sempre più potenti i combattenti dell’Ucraina perché ammazzino, si facciano ammazzare, e facciano ammazzare la popolazione civile, vera vittima di tutte le guerre moderne, e poi pagare a Putin gas, petrolio, carbone, fertilizzanti e tante altre cose di cui non sappiamo fare a meno, continuando così a finanziare e rafforzare la sua guerra di aggressione?