Rinsavite! Nessuna bomba è intelligente!
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“Rinsavite!”, nessuna bomba è intelligente e le persone non sono “effetti collaterali”!. E’ la supplica del vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Martinelli, all’annuncio che anche l’Italia bombarderà la Libia. C’è più politica nelle sue dichiarazioni che nelle stanze dei governi europei. Concetto analogo esprimeva giorni fa il card. Tettamanzi: “Perché ci sono gli uomini che fanno la guerra, ma non vogliono si definiscano come ‘guerra’ le loro decisioni, le scelte e le azioni violente?”.
L’operazione “Odissea all’alba” è cominciata, con le solite litanie sulla necessità degli attacchi aerei per difendere la popolazione civile dagli attacchi delle forze mercenarie e non solo, del colonnello Gheddafi.
Lo hanno deciso a Parigi, e il governo italiano ed opposizione che insieme, a parte alcune lodevoli eccezioni, avevano votato a favore del Trattato di partenariato con la Libia, hanno aderito ed offerto piena disponibilità. Intanto quello che vediamo sono enormi file di popolazione civile che se ne va anche da Bengasi per paura dei bombardamenti, non solo quelli di Gheddafi ma anche delle forze autorizzate dalle Nazioni Unite. Riproponiamo il testo di un capitolo sulla grande guerra ("Vivere la grande guerra"), ripubblicato dal Centro per la Pace di Viterbo, scritto dall'illustre storica anni fa per un manuale per le scuole superiori; testo utile "come contraltare, fra gli altri, alla retorica della patria e della nazione; il cui fine e' far vedere alle persone giovani cosa e' l'esperienza della guerra - e che forse a qualche docente puo' interessare come strumento di divulgazione". Sommario: Vivere la Grande guerra 1. Una guerra desiderata? 2 Il mondo delle trincee: gli uomini 3. La patria, il nemico 4. La patria, il nemico: capovolgimenti 5. Il fronte interno: la vita pubblica 6. Il fronte interno: le popolazioni 7. Donne e uomini Vivere la Grande guerra Smisurata come evento militare, la Grande guerra lo è anche per le conseguenze politiche ed economiche, e ancor più per la profondità degli effetti culturali, psicologici, emotivi. In tutti i paesi i governi ampliano enormemente l'intervento statale nell'economia e in ogni settore della vita civile, facendo crescere gli apparati burocratici e limitando i diritti dei lavoratori e dei cittadini; tendono in varia misura a sovrapporsi al potere del parlamento e usano forme di propaganda che fanno appello a pulsioni arcaiche. Sui fronti di guerra, i combattenti sperimentano i limiti della razionalità di fronte a una realtà irreale, il rovesciamento del rapporto fra la vita e la morte, che si traduce in un intreccio fra nichilismo e misticismo, credulità e cinismo, apprezzamento e deprezzamento della vita. Sul fronte interno, vale a dire nella società civile trasformata in retrovia della guerra, i mutamenti investono ogni aspetto dell'esperienza, a partire da quelli ritenuti più naturali come il rapporto fra i sessi: cresce il numero delle donne occupate, spesso anche in mansioni classificate maschili, e cresce la loro visibilità nella sfera pubblica, anche perché i governi diffondono intensivamente attraverso i media la loro immagine per mostrare che tutto il paese è mobilitato per la guerra. Cambiano così almeno in parte anche i comportamenti femminili e la disponibilità al rapporto con gli uomini. Nell'insieme, la guerra divide il tempo in un prima e in un dopo: prima, fiducia nella possibilità di migliorare il mondo e certezza di stare vivendo un inarrestabile processo di secolarizzazione della società civile; dopo, la paura di cambiamenti catastrofici, un'idea della realtà come "scherzo del destino" e l'ironia come solo antidoto; la rivincita di tutto quello che si contrappone alla razionalità. La storia ha mostrato che questo intreccio di elementi politici, economici, culturali psicologici ha avuto una parte decisiva nella creazione di un nuovo modello di stato e soprattutto nella nascita dei totalitarismi. Ma nella percezione di chi l'ha vissuta - i giovani e meno giovani combattenti, ma non soltanto - la guerra è da subito uno spartiacque: niente sarà più come prima. 1. Una guerra desiderata? Le folle che manifestano per la guerra nell'agosto del 1914 sono una piccola minoranza delle popolazioni, ma una minoranza significativa sul piano dei numeri e rilevante su quello sociale; sebbene ne facciano parte uomini e donne di ogni età e quasi di ogni strato sociale, il grosso è costituito da giovani uomini di classe media, per lo più studenti. A milioni partiranno volontari. La fuga dal moderno Non è solo un cedimento generalizzato al moderno nazionalismo aggressivo, non è solo spirito di avventura, ricerca di uno scopo nella vita, adesione a ideali di virilità. Eric Leed, uno storico americano che ha analizzato il clima dell'estate 1914 in Germania e in Gran Bretagna definendolo "comunità d'agosto", vede in quell'entusiasmo una spinta di massa alla fuga da tutto ciò che appare connesso alla moderna società industriale: l'incasellamento dei singoli in classi e ruoli e la loro riduzione a pedine intercambiabili nell'organizzazione del lavoro; i rapporti sociali ingiusti e la retorica dei buoni sentimenti, l'etica affaristica e l'ipocrisia, l'aumento dei bisogni e la prospettiva del declassamento, la sovrabbondanza di oggetti e il vuoto dei valori; e la solitudine. È un'inquietudine profonda sul destino dell'individuo nella società di massa, una difficoltà a capire un mondo sempre più complesso e caotico. Le avanguardie culturali e artistiche colgono questi stati d'animo, reagendo con programmi e modi espressivi anche molto diversi fra loro per contenuti e qualità: dal mito della tecnologia, della velocità e della potenza caro ai futuristi italiani allo scavo dell'interiorità dell'espressionismo tedesco alla sfida contro ogni regola dichiarata dal movimento dada. Ma un tratto le accomuna: sono movimenti di giovani che si contrappongono dichiaratamente alla società dei più anziani, e che guardano alla propria generazione per dar vita a un mondo nuovo, esemplificando e diffondendo una sensibilità generazionale prima mai così spiccata. Nella massa molto più vasta di giovani che manifestano nelle piazze il loro entusiasmo per la guerra, il sogno di un mondo diverso è rivolto piuttosto all'indietro, a un passato visto con gli occhi nostalgici di chi non c'era. Ma è simile l'inquietudine nei confronti del proprio futuro e il desiderio di cambiamento. La guerra viene allora immaginata come l'esatto contrario della società industriale: povertà e naturalezza contro spreco e artificiosità; sacrificio e coesione morale anziché profitto e competizione; un'esistenza rigidamente strutturata anziché l'ansia di dover fare scelte. È il sogno della comunità preindustriale, fantasticata come regno dell'autenticità e dell'armonia. Il senso di comunanza La descrizione che il romanziere e commediografo viennese Stefan Zweig fa delle folle manifestanti riunisce molti aspetti del senso comunitario dell'agosto 1914: "Centinaia di migliaia di persone sentivano allora come non mai quel che esse avrebbero dovuto sentire in pace, di appartenere cioè a una grande unità... Tutte le differenze di classe, di lingua, di religione erano in quel momento grandioso sommerse dalla grande corrente della fraternità. Estranei si rivolgevano amichevolmente la parola per strada, gente che si era evitata per anni si porgeva la mano, dovunque non si vedevano che volti fervidamente animati. Ciascun individuo assisteva a un ampliamento del proprio io, non era cioè più una persona isolata, ma si sentiva inserito in una massa, faceva parte del popolo, e la sua persona trascurabile aveva acquisito una ragion d'essere". Una comunità maschile, cittadina, di classe media Basterebbe spostarsi a pochi chilometri dalle città per trovare tutt'altro clima. Non solo i contadini sono, nella stragrande maggioranza, ostili alla guerra, ma guardano con scetticismo o con rabbia all'enfasi comunitaria dei loro connazionali cittadini. Per chi ci vive, la comunità preindustriale - o meglio quel che ne rimane - vuole dire lavoro durissimo ed emarginazione; forse più rapporti umani, di sicuro però anche maggior controllo e chiusura. Ma a improntare l'immagine di quella estate è l'esperienza dei volontari di classe media colta, la cosiddetta "generazione del '14". Oltre che essenzialmente giovanile, la "comunità" dell'agosto 1914 è dunque cittadina. Ed è maschile. Anche se a volte le donne sono accesamente nazionaliste - come le ragazze che a Londra offrono una piuma bianca, simbolo della codardia, a chi non si è arruolato - a dominare è l'equazione virilità-violenza, è la mascolinità pronta a realizzarsi nella guerra. È infine una "comunità" di classe, dove le differenze sociali e culturali non venivano nè superate nè abolite, ma semplicemente messe da parte. Non per questo il sentimento comunitario è meno reale. Sarà necessario il confronto diretto, nelle trincee, con i soldati di leva, per chiarire ai volontari che il loro atteggiamento verso la guerra e la nazione è condiviso molto raramente da contadini, operai, braccianti, artigiani. 2. Il mondo delle trincee: gli uomini Nella memorialistica di guerra e con parole diverse anche nei resoconti ufficiali, le trincee sono descritte come un labirinto di cunicoli che si intersecano, gelidi o soffocanti, puzzolenti e brutalmente squallidi, con il terreno sempre intriso di acqua e una popolazione di ratti e di pidocchi. In questo ambiente da topi, da talpe o da "trogloditi", come loro stessi si definiscono, i soldati vivono per giorni o anche per settimane in attesa del cambio, assordati dal frastuono delle artiglierie, esposti ai colpi dei tiratori scelti, i cecchini, senza vedere altro che due pareti di terra e in alto il cielo. Per milioni di uomini è l'esperienza di un isolamento e di una chiusura totali e irreali. Dalla trincea si usciva solo per essere buttati all'attacco contro l'altro schieramento, o di notte per tagliare i reticolati nemici, riparare i propri, trasportare materiali, prolungare i cunicoli sotterranei - un lavoro da formiche che il giorno dopo sarebbe spesso stato distrutto dai tiri dell'artiglieria. Come scrive Siegfried Sassoon, poeta e scrittore inglese ufficiale di fanteria sul fronte occidentale, "alla fin fine la guerra fu principalmente una questione di buche e di trincee". La morte di massa In battaglia, nella "terra di nessuno" e nelle stesse trincee, il confronto con la morte di massa è onnipresente. Si usano i cadaveri insepolti come appoggio per i fucili o come riparo, li si spoglia per recuperare un indumento in buono stato: non è cinismo, ma una compenetrazione tra vita e morte tale da capovolgere il significato che avevano avuto nella vita normale. Da eccezione, la morte diventa routine. Come scrive nel luglio 1916, un soldato pistoiese di 23 anni: "Se non si muore oggi si muore domani, perché cara mia scamparla in questa scamparla in quest'altra e dagli un mese e dagli due, dagli cinque e dagli dieci e dagli dodici e quattordici giorni, poi un giorno bisogna cadere e non si puole sfuggire, perché la storia è troppo lunga e mi è venuta a noia, io non sento più nulla e qualche giorno vado nel carcere e finisco di tribolare e far guerra". Le differenze di classe modellano la percezione di questa realtà. Per molti soldati operai e contadini la guerra è un nuovo insieme di mansioni faticose, sporche e mortalmente pericolose comandate da un caposquadra in divisa; è un male cui bisogna innanzitutto cercare di sopravvivere; e chi l'ha scelta di sua volontà appare uno sciocco, un irresponsabile, un giocatore d'azzardo, e viene trattato di conseguenza. Per i volontari di classe media scoprire, in trincea, che il soldato è sempre più simile all'operaio e la guerra una copia mostruosa della vita industrializzata, mette una volta per tutte la parola fine a qualsiasi concezione eroico-romantica. L'ideale di una contesa cavalleresca, in cui la violenza viene limitata dal culto dell'onore, dal rispetto delle norme condivise e non invade i rapporti fra gli individui, crolla così, prima ancora che nel rapporto con il nemico, in quello con i compagni: è la prima e una delle più pesanti disillusioni per la generazione del '14. La guerra-macchina Non solo: molto rapidamente, diventa impossibile capire che rapporto esiste - e se esiste - fra quel che succede e quel che è stato progettato, ordinato, eseguito. Vale per i soldati, vale per gli ufficiali: il caos diventa la norma, e la guerra sembra assumere una sua volontà autonoma, fino ad apparire come un'entità impersonale, una macchina o una bestia gigantesca e malefica, che suscita odio, ma anche stupore, e a volte identificazione nella sua grandiosità e potenza. Fanno eccezione solo la guerra aerea e quella di alta quota, dove ancora conta l'iniziativa individuale e vige una concezione dell'onore simile a quella della cavalleria medievale. Il combattimento può allora essere vissuto come un'esaltazione della mascolinità avventurosa, e qualcosa di simile si può dire anche per le truppe d'assalto (reparti scelti e ben addestrati) come gli arditi italiani, e per una minoranza dei soldati di linea. Un nuovo cameratismo Ma tutti gli altri - milioni di uomini - perché continuano a combattere? Secondo Freud, un aspetto di questa guerra è che il militare scopre il piacere della distruzione, della violenza bruta proibita in tempo di pace. Ma secondo moltissime testimonianze dell'epoca, i soldati combattono innanzitutto perché costretti: fucilazioni e decimazioni per rifiuto di obbedienza o per "codardia" non sono fatti isolati: i tribunali militari lavorano talmente su vasta scala che per esempio in Italia colpiscono un numero di soldati quasi pari a quello dei caduti. Ha forse altrettanto peso la rassegnazione, quasi un annullamento della volontà cui si sostituisce l'obbedienza automatica. Ma gioca anche una spinta morale che non ha destinatari astratti - Dio re patria - ma guarda ai compagni: si combatte per fedeltà ai più vicini, per non lasciarli soli e se possibile per salvarli. È un cameratismo che nasce, piuttosto che da solidarietà precedenti o da un senso di umanitarismo, dal mondo stesso delle trincee, dove si soffre e si rischia insieme, e nella quotidianità condivisa uomini molto diversi finiscono per assomigliarsi. Modernità e pensiero magico Tra gli aspetti comuni, il più diffuso è il ricorso a forme di pensiero e di comportamento mitico-magico. Nascono infinite leggende e dicerie, infinite pratiche scaramantiche e propiziatorie. "La giornata trascorreva in uno stato completamente nevrotico... Pensavi assurdi scongiuri per sviare la granata che sentivi sopraggiungere. Una coazione ormai potentemente interiorizzata portava a sedersi in un certo modo anziché in un altro, a toccare oggetti particolari, a biascicare tra i denti ritornelli. Se questo rituale era completato, si era salvi... fino alla bomba successiva. Questa assurdità aveva assunto i toni oscuri del fatalismo: ci si accorgeva con orrore di essere scivolati nella superstizione, ovvero che i segni che tu stesso creavi ti si rivolgevano contro, e si finiva per attribuire alle granate in arrivo una deliberazione e un'accuratezza che di fatto non avevano. Così trascorrevi tutto il giorno, ascoltando, calcolando, sperando o disperando, cercando compromessi con il destino e scommettendo con te stesso sulle possibilità di questi orrori vari". Sono parole di un ufficiale inglese di stanza sul fronte occidentale, che vive queste pratiche come un sollievo necessario ma in qualche modo degradante. Anche alcuni studiosi hanno visto nel proliferare di atteggiamenti mitico-magici, una regressione a livelli mentali primitivi, e un'anomalia rispetto alla modernità della guerra. Ma per altri autori, anziché di un paradosso si tratta di un aspetto della modernità, di un bisogno attualissimo: quello di opporre a una realtà materiale sempre più complessa e incontrollabile, risposte che vengono da altri livelli dell'esperienza, dal mondo dei miti, dei simboli, da tutto quello che si potrebbe definire il sacro. Le trincee e l'ambiente naturale Scrivendo a casa nell'agosto del '16, un soldato di stanza nella zona della Somme nella Francia settentrionale, dove era stata combattuta una delle più lunghe battaglie della grande guerra, si chiedeva come sarebbe mai stato possibile spianare di nuovo il terreno. Per chilometri e chilometri intorno alla linea del fuoco il paesaggio era sfregiato dalle buche delle granate e dai crateri delle bombe, contaminato dai gas. Ma al di là della devastazione provocata dalle armi, già gli apprestamenti difensivi avevano stravolto il paesaggio naturale: il terreno era bucato da un labirinto di trincee e di cunicoli, barriere continue di filo spinato color ruggine davano l'idea di un autunno perenne, alberi erano stati abbattuti per farne ripari. La stessa presenza di milioni di uomini rappresentava di per sè un'alterazione tale da distruggere l'equilibrio dell'ambiente. La Grande guerra è anche una guerra contro la natura. Nella Somme gli edifici distrutti sono stati ricostruiti; ma il paesaggio artificiale creato dalla guerra non si è mai potuto cancellare del tutto. Restano buche mal riempite, tratti di camminamenti e trincee, un'infinità di materiali di guerra sparsi. Ancora oggi il terreno espelle frammenti metallici, pezzi di filo spinato, proiettili inesplosi. La violazione della natura è ancora più drastica nelle zone di montagna. Sul fronte italo-austriaco delle Dolomiti, la guerra porta masse di uomini, materiali, tecnologie. La montagna viene attraversata da sentieri, mulattiere, gallerie, da strade camionabili e carrozzabili (2.500 km. sul solo versante italiano), teleferiche e funivie. Dove gli alpinisti non erano mai arrivati, arrivano i soldati, usando chiodi e scale, scavando caverne nella roccia e abitandoci per mesi e anni; non scalatori solitari, ma tribù di decine di migliaia di uomini. Costoni e massicci rocciosi che avevano impiegato millenni a formarsi vengono fatti saltare in un secondo. Si cominciano a scavare gallerie nei ghiacciai, fino alla costruzione della "città di ghiaccio" dentro la Marmolada: un vero complesso con alloggi, magazzini, viveri, una centrale elettrica, un centralino telefonico, una camera a tenuta di gas per il controllo delle maschere e una rete stradale di otto chilometri. È il primo incontro della montagna con la modernità, e ne derivano alterazioni definitive dell'ambiente. Ne scaturirà a guerra finita un nuovo interesse per la montagna che assumerà la fisionomia del turismo di massa: decine di migliaia di soldati tornano in quota da borghesi, un mare di neofiti ne segue l'esempio portando gusti e stili totalmente diversi da quelli dei "pionieri" ottocenteschi. Anche per la montagna niente sarebbe stato più come prima. 3. La patria, il nemico Patriottismo e militarismo Il nazionalismo "comunitario" che agli inizi della guerra porta grandi masse a mobilitarsi è anche impregnato di militarismo, più di quello ottocentesco. Gli eventi più memorabili della memoria collettiva vengono identificati nella vittoria su altre nazioni, sentirsi parte di una comunità implica sentirsi estranei a tutte le altre: la Francia è Marengo, Austerlitz e Jena, la Gran Bretagna è Trafalgar, la Russia è il trionfo su Napoleone. I volontari (tre milioni nella sola Inghilterra) vanno a morire per tre parole, Dio, re e Patria, e spesso basta l'ultima: la patria è identificata quasi integralmente con lo stato, con la sua religione e con il suo capo, la guerra è per eccellenza la guerra giusta, così giusta da legittimare controlli e persecuzioni contro chiunque sia giudicato inaffidabile: pacifisti, "imboscati", traditori veri o presunti, cittadini di origine straniera naturalizzati. In Italia il motivo conduttore della propaganda è il Risorgimento, non quello statal-diplomatico di Cavour, ma quello di Mazzini, Garibaldi, dei mille. "Alato", sanguinolento, spesso infarcito di accenni alla romanità, questo richiamo dilaga da D'Annunzio alle canzonette alle ballate dei cantastorie. Persino un interventista democratico e socialisteggiante come Cesare Battisti non sfugge a questi toni. È così anche per molti liberali e progressisti di paesi a lunga tradizione democratica, attratti dal risalto che la propaganda dà alla cosiddetta "voce del popolo". La patria-natura Viene adattato alla propaganda di guerra anche un elemento per definizione pacifico, la natura, totalmente assimilata alla patria. In accordo con la fuga dal moderno che la guerra per molti aspetti rappresenta, le immagini che prevalgono in tutti i paesi sono tipicamente preindustriali, campi, boschi, montagne, villaggi, animali: una natura arcaica, presa a simbolo dell'autenticità, della dolcezza, di valori eterni in nome dei quali si chiede agli uomini di morire, e nello stesso tempo si promette loro che ne condivideranno l'immortalità. In questo manifesto inglese di arruolamento, nè una fabbrica nè un centro abitato turbano l'immagine rurale e pastorale della nazione; nella cartolina tedesca intitolata Il camerata caduto, il soldato, morto ma senza un graffio, giace compostamente in un bosco, con una pietra per cuscino, il cavallo accanto ad aggiungere l'ultimo tocco sentimentale e arcaico. La patria-donna Spesso assimilata alla natura, la figura femminile è ancora più presente nella propaganda di guerra. C'è la madre-patria austera o sofferente, con il suo corpo-territorio minacciato dalla "penetrazione" del nemico, e ci sono le patrie-ragazze decisamente sensuali che popolano le cartoline in viaggio tra il fronte e il paese. Nei paesi cattolici è centrale la figura della Madonna, arruolata come suprema protettrice e protagonista di ballate popolaresche intitolate per esempio Visioni e prodigi, racconti in versi dei miracoli e delle visioni di Maria Vergine ai soldati combattenti. Ovunque ci sono bimbe e fanciulle. E naturalmente madri: le patriottiche, che invitano gli uomini a partire; e le sabotatrici, che non vogliono saperne della guerra o che instillano nei figli più amore per loro stesse che per la patria. "La patria è la mamma che sta al di sopra di tutte le mamme", spiega un giornale per bambini, a conferma del timore che queste madri protettive svirilizzino i combattenti: se la patria è metaforicamente femminile, il suo esercito deve essere maschio, pena la decadenza della nazione. C'è infine, leva fortissima per accendere la combattività maschile, l'immagine della donna - madre, fanciulla o sposa che sia - preda di guerra: ferita, uccisa, vittima di violenze sessuali. Il nemico-mostro La demonizzazione del nemico gioca a fondo su questi terreni. Assimilato fin dall'inizio e da tutti i belligeranti a un animale da preda o a un'entità disgustosa o grottesca, il nemico perde ogni forma umana, e la storia della sue atrocità diventa un argomento corrente. Secondo uno dei maggiori studiosi dell'esperienza di guerra, il tedesco George Mosse, durante il conflitto mondiale i tabù sociali e sessuali che in passato avevano contribuito a tenere a freno l'iconografia della brutalità vengono abbandonati: sono moltissime le cartoline che rappresentano il nemico coperto di escrementi e con gli organi sessuali in vista, o che illustrano stupri di guerra e sodomie. Tutti si accusano reciprocamente di tutto, con qualche particolare fantasia macabra riservata ai tedeschi. È un generale processo di riduzione del nemico o dell'estraneo - l'"altro" - a prototipo negativo, simile a quello che colpisce i cosiddetti diversi, ebrei, zingari, "devianti" sessuali: la guerra funziona come una spinta potente alla conformità a tutti i livelli. Al fronte gli stereotipi sono rafforzati dalla clausura della vita di trincea e dalla invisibilità del nemico chiuso nelle trincee opposte. Anche su questo piano si ha un enorme sviluppo di miti e credenze: fantasmi di ufficiali tedeschi che si palesano alla vigilia di ogni attacco, spie misteriose, odori insopportabili emanati dal nemico. Fra le leggende più diffuse, una racconta di un soldato canadese prigioniero dei tedeschi e mostrato ai suoi compagni su una croce a braccia e gambe divaricate, mani e piedi inchiodati dalle baionette; si diceva che fosse morto lentamente: è la raffigurazione del crocifisso, suggerita ai soldati dalle tante immagini della Passione di Cristo collocate ai crocevia in Francia e in Belgio, e forse anche dall'aver visto soldati inglesi legati per punizione a braccia e gambe aperte su tavole o ruote, e a volte frustati dai loro ufficiali. Una leggenda esemplare Ma la leggenda più ricca e più bella - come ricorda lo studioso americano Paul Fussell - riguarda la zona più inquietante del fronte, la sempre bombardata e disabitata terra di nessuno fra le opposte linee, e narra che in qualche punto sconosciuto "si trovava un grande gruppo di disertori semi-impazziti provenienti da tutti gli eserciti, alleati e nemici, che vivevano sottoterra perfettamente in pace tra loro in trincee abbandonate, da dove uscivano di notte per saccheggiare cadaveri e procurarsi cibo e bevande". Raramente una storia riesce a unire tanti elementi significativi: il rimorso per i tanti feriti lasciati a soffrire in mezzo alle linee, una fantasia universale di disobbedienza alle autorità, l'idea realistica che la "normale" vita al fronte è assimilabile alla bestialità e alla follia. Non ultimo, un sogno di capovolgimento: tedeschi e inglesi (e francesi, italiani, austriaci, canadesi, tutti ricompresi nel gruppo dei disertori) non sono nemici fra loro. Per tutti il nemico è la guerra. 4. La patria, il nemico: capovolgimenti Già alla vigilia della guerra sono moltissimi quelli che cercano di sfuggire al reclutamento. La pratica più diffusa, e in continua crescita, è l'autolesionismo: timpani forati con chiodi, ascessi ottenuti con iniezioni di benzina, colpi d'arma da fuoco sparati a bruciapelo ai piedi e alle mani. Molto meno frequenti renitenza e diserzione, perché è alto il rischio - persino la pena di morte - se si viene presi. A giudicare dai dati italiani, la renitenza è invece la scelta più diffusa fra gli emigrati. Dei circa 400.000 uomini in età di leva che dovrebbero rimpatriare per arruolarsi, nel novembre del 1915 solo 60.000 sono tornati. Secondo una sdegnato interventista democratico, per la comunità italiana negli Stati Uniti essere renitente o reduce è esattamente la stessa cosa. Mi interessa più di tutto la vita Che quello di patria sia stato un concetto astratto o altamente negativo per milioni di combattenti soprattutto di classe popolare è ormai ben documentato anche grazie alle lettere inviate dal fronte ai familiari e bloccate dalla censura. A scrivere sono muratori, carrettieri, contadini, braccianti: "a me interessa più di tutto la vita, chi è morto non risuscita più"; "ormai il morire per la patria vuol dire morire da fessi, e io non sono un fesso"; "state pur certi che io non muoio per questa schifa di Italia". Ma anche per moltissimi combattenti della classe media colta, l'immagine della patria crolla. Anni dopo, nel romanzo Addio alle armi (storia di un tenente americano che decide di arruolarsi come volontario nell'esercito italiano e della sua disillusione di fronte agli orrori della guerra), lo scrittore americano Hemingway scriverà che "parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione sembravano parole oscene accanto ai nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e alle date". È difficile dire se la rischiosissima e limitata agitazione condotta al fronte da socialisti, anarchici, spesso anche da cattolici, abbia un peso - e quale - in queste manifestazioni di insofferenza per le atrocità della guerra, o nelle ribellioni individuali o di piccoli gruppi. Se è soprattutto la paura dei generali a vedere ovunque "agenti del disfattismo" e "diabolici subornatori", è anche vero che nelle trincee è forte la tendenza a piegare ogni messaggio ai propri stati d'animo. Sarà così per una nota che Benedetto XV manda ai capi di stato nell'agosto '17 per caldeggiare una pace senza annessioni: un documento essenzialmente diplomatico, che però contiene le parole "inutile strage"; molti le vedranno come un incitamento alla disobbedienza civile e alla ribellione. La loro vita è come la nostra Tra le espressioni di dissenso "antipatriottico", una delle più precoci, temute e perseguite dai comandi è la fraternizzazione con il nemico, che vanifica la sua demonizzazione. Sul fronte occidentale già il primo Natale di guerra vede una calma assoluta: soldati inglesi e tedeschi hanno deciso una tregua informale, e si incontrano nella terra di nessuno per scambiarsi sigarette e scattare fotografie. Nel corso della guerra gli accordi taciti arrivano, attraverso la limitazione del fuoco, a coprire molte necessità della vita quotidiana nei settori non impegnati nelle offensive: è pratica diffusa non interrompere il rancio nemico con il cecchinaggio o con cannoneggiamento intenso, non disturbare lo sgombero dei feriti, la riparazione delle trincee, persino la cura del sole nei momenti di pausa. Non sono che parentesi, ma aiutano a morire meno. Anche durante i combattimenti non sono rare le intese fra soldati: a Verdun, in un settore meno infuocato della battaglia, un volontario tedesco riferirà che i francesi avevano l'ordine di bersagliarli con bombe a mano anche di notte, e di fatto le lanciavano, ma, come da accordi presi con compagni tedeschi, solo sulla destra e sulla sinistra della trincea. Questi sforzi di contenere la violenza non riflettono affatto un'etica prebellica di tipo cavalleresco, nè presuppongono necessariamente un'ideologia politica o una tradizione umanitaria. Nascono soprattutto, come avviene per il cameratismo, dalle stesse condizioni della guerra. In uno scontro dove tutti i combattenti sono vittime della potenza delle armi, identificarsi con il nemico e con la sua volontà di sopravvivere è logico, addirittura necessario: se ogni colpo di mortaio, ogni raffica di mitragliatrice vengono ripagati con altrettanti colpi, un atteggiamento "offensivo" sarebbe suicida. Anche se questa consapevolezza non può da sola evitare i massacri, la fraternizzazione resta uno dei tentativi più forti di riprendere in mano la propria vita, e nello stesso tempo il momento essenziale di una ritrovata capacità di scoprire l'umanità nel nemico fino a vederlo come vittima e fratello con cui non solo si fa tregua, ma si parla, ci si scambiano notizie e viveri, perché "la sua vita è uguale alla nostra". Come avviene in questo dialogo sul fronte austro-italiano fra un militare austriaco e un soldato di vedetta messinese, carrettiere, analfabeta, vedovo con figli, condannato a 5 anni di carcere per "agevolazione al nemico" "Per lettura di atti e confessione del giudicabile, soldato G. C., è risultato che detto militare in giorni imprecisati dell'aprile 1918, essendo di vedetta, entrava in conversazione con un soldato austriaco. L'austriaco ripetutamente chiamava la vedetta italiana e gli rivolgeva le parole: 'Italiano, italiano, ti metti paura a parlare?', e il G. C.: 'Non ho paura a parlarè, e l'austriaco: 'Come stai?', e la vedetta: 'Come stai tu piuttosto che ieri ti lamentavi e come te l'hai passata la notte?', e l'austriaco: 'L'ho passata male, avevo un pò appetito, hai da buttarmi una pagnotta? e per fumare come la passate?', e il G. C.: 'Bene, ho avuto la mia razione di 13 sigarette e 14 sigarì". Chi odiano i soldati Lo spirito di unità fra soldati intensifica l'odio per gli stati maggiori, che continuano a pretendere cecchinaggio, incremento del fuoco di disturbo e altre misure destinate ad alterare il delicato equilibrio che protegge la sopravvivenza; crescono le accuse di vigliaccheria mosse dai soldati agli ufficiali: fra le truppe inglesi era in uso l'espressione "il rosso simbolo della paura", in riferimento alle mostrine rosse degli ufficiali di stato maggiore. E cresce l'astio verso i loro privilegi. Uccisioni di ufficiali da parte dei soldati avvengono su tutti i fronti, e non sono eventi eccezionali. Ancora maggiore è la distanza che si crea tra il fronte e la "patria", vissuta come il regno di un bellicismo incosciente sbandierato da civili ben protetti. In trincea si maledicono insegnanti e persone mature che hanno mandato i giovani al macello con la loro retorica; si fantastica di stritolare coi carri armati gli stupidi music-hall patriottici, si sogna di essere vendicati dall'esercito nemico: i soldati, scrive un combattente inglese, "odiavano le donne sorridenti per le strade. Detestavano i vecchi. Avrebbero voluto che i profittatori crepassero coi gas. Pregavano Dio affinché i tedeschi mandassero gli Zeppelin contro l'Inghilterra, perché la gente capisse così cosa significa guerra". 5. Il fronte interno: la vita pubblica In tutti gli Stati, la guerra modella pesantemente l'insieme delle attività politiche, economiche, amministrative. Lo sforzo di mobilitare intere popolazioni in tempi brevi favorisce e fa apparire legittima una sospensione di fatto del potere parlamentare a vantaggio di formule di unità nazionale. In Germania, in Austria, in Russia, ma anche nelle democrazie occidentali, tutte le decisioni di rilievo sono centralizzate in mano a governi legati a filo doppio ai capi di stato e ai militari, e retti da politici che si autodefiniscono al di sopra delle parti. Così succede in Francia con la coalizione di Clemenceau, in Inghilterra con il primo ministro Lloyd George, in Italia con Vittorio Emanuele Orlando, che sostituisce nel 1917 Boselli. Stato, economia, società civile Alla concentrazione del potere si accompagna una dilatazione dell'intervento statale in ogni settore della vita civile: si censura la posta, si intercettano le comunicazioni, si "militarizzano" i corrispondenti e i fotografi di guerra, si minacciano di sequestro i giornali che pubblichino notizie giudicate contrarie agli interessi nazionali, si moltiplicano le attività di polizia, mentre anche l'avara assistenza erogata alle famiglie dei combattenti viene subordinata ad accertamenti sul loro patriottismo. L'ingerenza è massima nella vita economica sia in agricoltura sia nell'industria, e va dalla requisizione di veicoli, di animali, di utensili metallici, degli stessi raccolti, alla ripartizione statale delle materie prime; dalla militarizzazione di fatto o di diritto della forza lavoro, al controllo pubblico su interi settori produttivi. Da queste trasformazioni nascono una quantità di nuovi compiti e ruoli affidati a una burocrazia sempre più numerosa. Ne nasce soprattutto un rapporto politica-economia e pubblico-privato del tutto anomalo rispetto ai modelli liberali e liberisti. L'esempio italiano è molto calzante: su piccola scala e a livello comunale debuttano i Comitati civili per la mobilitazione, che oltre a far opera di assistenza e di propaganda spesso organizzano direttamente nuove reti di lavoro a domicilio e nuovi laboratori artigianali. Su grande scala, si crea una vera e propria compenetrazione fra lo stato, divenuto il maggiore committente, l'industria che cresce e prospera al di fuori delle leggi di mercato, e i militari che premono in nome delle esigenze belliche. In Italia fra il '15 e il '17 i profitti nella siderurgia salgono dal 6,30 al 16,55%; quelli dell'industria automobilistica dall'8,2 al 31,51%; quelli del settore laniero dal 5,10 al 18,74%. Ovunque ci sono incrementi simili, e ovunque esplode il deficit dei bilanci pubblici. Per sanarlo solo l'Inghilterra ricorre all'aumento delle tasse sui redditi; in tutti gli altri paesi si rastrellano i risparmi privati attraverso prestiti volontari, lanciati con grandi campagne pubblicitarie. Le opposizioni divise In questo clima il dibattito politico è compresso e le opposizioni inizialmente perdono forza. Non è solo effetto della repressione di polizia e giudiziaria, ma di divisioni vecchie e profonde. Neppure in passato le parole d'ordine del movimento operaio avevano avuto toni univoci, segnate com'erano di volta in volta dal contrasto fra le sue diverse componenti e dalle circostanze di un mondo in rapido movimento. Sul tema guerra e pace anche il pensiero di Marx non si presentava affatto come sistema unitario: al sostegno esplicito alle guerre di liberazione nazionale e a quelle capaci di trasformare i rapporti sociali, si accompagnava la critica al militarismo, ma anche al pacifismo di molti liberali e del socialismo utopico, accusati di contrabbandare una comunanza di interessi fra borghesi e proletari. Vista come momento della lotta di classe, come laboratorio di trasformazioni, come espressione dei rapporti di forza fra stati, negli scritti di Marx la guerra non viene mai condannata in sè. Nella II Internazionale, dove avevano convissuto internazionalismo e patriottismo, allo scoppio del conflitto si erano delineate grosso modo tre tendenze: una che giustificava le guerre purché difensive; un'altra, maggioritaria, combattuta fra antimilitarismo e speranze di mutamento all'interno dell'ordine esistente; un'altra ancora che vedeva nella guerra un'occasione per l'avvio del processo rivoluzionario e nel pacifismo il tradizionale inganno della borghesia. Con le conferenze internazionali dei partiti socialisti tenute in Svizzera, a Zimmerwald nel settembre 1915 e a Kienthal nell'aprile del '16, si rinnova la condanna della guerra e si chiede una pace senza annessioni e senza indennità; ma resta la spaccatura fra il pacifismo dei riformisti e il "disfattismo rivoluzionario" di gruppi come la tedesca Lega di Spartaco e i bolscevichi russi, che predicano la necessità di usare la guerra per affrettare il crollo del capitalismo. Nella base dei militanti, il contrasto politico è reso umanamente dolorosissimo dal faccia a faccia con domande cui nessuna teoria poteva dare risposta: è giusta la diserzione predicata dagli anarchici, quando al proprio posto andrà un altro proletario? è giusto cercare un posto in fabbrica per fare propaganda antimilitarista, ma nello stesso tempo produrre armi e munizioni? è giusto andare in guerra per solidarietà con i soldati di classe popolare e poi ucciderne altri ugualmente fratelli? 6. Il fronte interno: le popolazioni Visti dalla parte della società, i mutamenti nella sfera pubblica portano a una tale riduzione dei diritti civili e politici da rendere il cittadino molto simile al militare. Ma l'assottigliamento di questa distinzione, e di quella tra fronte bellico e fronte interno, riguarda molti altri aspetti, innanzitutto le condizioni materiali di vita, e ha gradazioni diverse. Ci sono aree relativamente tranquille e città bombardate dalle artiglierie o - come nel caso di Londra - dai dirigibili Zeppelin; ci sono grandi territori invasi con assoluta brutalità. La fame Anche dove la guerra non arriva materialmente, ne arrivano gli effetti: le città scintillanti che colpiscono i soldati in licenza sono uno scenario per pochi, classi agiate e nuovi ricchi che speculano sulle forniture belliche e sui rifornimenti ai civili; per la grandissima maggioranza delle popolazioni iniziano presto il carovita, il razionamento alimentare e dei combustibili, la penuria di beni essenziali, il mercato nero, fino alla fame di massa in caso di cattivi raccolti. Con tutta la sua "modernità", la guerra ripropone il problema del cibo e della sua dipendenza dalla natura e dal clima. In Germania la carestia è tale da provocare la morte per denutrizione di 700.000 persone e un aumento del 50% della mortalità infantile. I lavori delle donne Inizia da subito anche la riorganizzazione produttiva: fabbriche ingigantite, nuovi stabilimenti, ritmi di lavoro pesantissimi, una disciplina interna di tipo quasi militare. Per sostituire i richiamati vengono assunti anziani, contadini, e soprattutto donne, che entrano a milioni in settori prima loro preclusi, innanzitutto nell'industria di guerra. Altre afferrano le nuove opportunità di lavoro nell'amministrazione pubblica, nei servizi, in qualche paese nelle stesse forze armate, che le impiegano negli uffici di assistenza e sussistenza sul territorio metropolitano. Molte sono donne sole, spesso vedove di guerra. È una rottura della divisione sessuale del lavoro che cambia la fisionomia di fabbriche e uffici. Ma anche nelle campagne ci sono donne al posto degli uomini, e a volte al posto degli animali requisiti: questa fotografia di contadine francesi è probabilmente una messa in posa, ma non per questo la situazione è meno vera. In alcuni paesi le donne vanno anche al fronte come infermiere e guidatrici di ambulanze. In tutti i paesi, o nelle retrovie o nei bordelli al seguito delle truppe, altre donne esercitano la prostituzione. Quanto la situazione sia in movimento è mostrato anche dalle non poche che cercano di partire vestite da soldato per combattere in prima linea, e dall'entusiasmo con cui altre, dell'aristocrazia o della borghesia, si mettono a capo di iniziative assistenziali e di propaganda. Se fra città e campagna, fra operaie, impiegate, contadine, ci sono differenze grandi, possono essercene altrettante anche all'interno dello stesso settore produttivo: una cosa è lavorare in una grande fabbrica, un'altra in uno dei laboratori promossi dai vari comitati per "aiutare" donne sole, dove le paghe sono irrisorie. Eppure si possono cogliere tratti comuni: sono sempre impieghi a termine; a parità di mansioni sono sempre meno pagati di quelli maschili; sempre devono convivere con il compito di provvedere alle esigenze quotidiane della famiglia in condizioni enormemente più difficili. Il crollo demografico Non c'è però sforzo in grado di impedire lo schiacciamento della vita. Ne è indice l'andamento demografico, che per esempio in Italia ha un bilancio negativo (più morti che nati) per tre anni consecutivi, 1917, '18, '19, e senza contare i caduti. In alcune zone della Toscana nascono meno della metà dei bambini che ci si poteva aspettare sulla base delle medie prebelliche. I richiami di massa e la forte riduzione dei matrimoni non bastano a spiegare crolli del genere; bisogna mettere in conto una diffusa rinuncia a far figli, probabilmente legata anche a un aumento della mortalità neonatale che nel '18 prende il carattere di una strage degli innocenti: sotto l'effetto congiunto della guerra e di una spaventosa epidemia influenzale (la "spagnola") appena un bambino su quattro degli ultimi nati riesce a superare la soglia di un anno di età. Per la grande maggioranza delle classi popolari e per la parte meno solida del ceto medio la guerra è una lunga storia di difficoltà e di smarrimento che rimescola idee e stati d'animo. Ne escono radicalizzati molti orientamenti spirituali, a partire dal rapporto con la religione: cresce il distacco fino all'ateismo, e cresce ugualmente la fede, spesso intrisa di pratiche superstiziose. Mentre Benedetto XV consacra nel 1917 tutti i combattenti al Sacro cuore di Gesù, pullulano voti e devozioni, e nello stesso tempo tutte le forme di lettura del futuro e di pratiche propiziatorie. Anche nel fronte interno, dove la modernità mostra i suoi orrori subentrano mito e magia. 7. Donne e uomini Sebbene il lavoro femminile fuori casa non fosse affatto una novità, le caratteristiche e le dimensioni che assume in guerra rappresentano un allarme per il senso comune, specialmente nei paesi latini, dominati da una tradizione culturale e religiosa che vede nel lavoro extradomestico una minaccia alla purezza femminile e all'integrità della famiglia. Paura dei cambiamenti femminili governi e autorità esaltano strumentalmente la mobilitazione femminile, le reazioni, popolari e non, sono spesso malevole. Poco importa se le operaie lavorano in condizioni simili a quelle documentate da questa fotografia di una fabbrica francese; lo stereotipo è quello della popolana corrotta, potenziale prostituta o mantenuta. Poco importa se nella pubblica amministrazione si esige un rigore da convento; le riviste esibiscono poliziotte identiche alle figurine frivole della belle epoque, con 40 centimetri di gonna in meno. Al sarcasmo si accompagna spesso l'astio: in Francia militanti socialisti accusano le donne di non aver saputo impedire che i loro figli venissero mandati al macello, a Torino parenti di soldati che non trovano niente da ridire se un vecchio entra in fabbrica come operaio, si imbestialiscono contro le donne, "colpevoli" di occupare un posto dove qualcuno avrebbe potuto imboscarsi. Non è dunque solo un problema di competizione per il lavoro, ma di panico davanti alla possibilità di cambiamenti nei ruoli sessuali. Al fronte corrono voci sulle mogli che si consolano fra le braccia degli imboscati o si prostituiscono, nasce la leggenda del reduce che torna dopo tanto per trovare nel suo letto uno sconosciuto (la leggenda parla di letto, e l'incubo è proprio quello): salvo che per la rilevante eccezione dell'emigrazione oltreoceano, mai uomini e donne erano stati separati così a lungo. Ma più che la lontananza in sè a pesare è l'isolamento, che da un lato moltiplica l'ansia di fronte a figure nuove, diverse dal binomio moglie/prostituta che riempe le fantasie dei soldati; d'altro lato - vale soprattutto per le classi medie - porta a vedere le donne anche come le rappresentanti per eccellenza della vita civilizzata, cui molti si sentono ormai inadatti: meglio dunque un mondo non complicato dalla loro presenza, che imporrebbe le convenzioni di prima, dal lavarsi e radersi, al divieto di turpiloquio, ai riti sociali e religiosi. Uomini in guerra: compassione e violenza Ancora di più pesa la vicinanza con la morte. Può nascerne, come spiega la politologa americana Jean Bethke Elsthain, una pietà dolorosa e affettuosa verso "le cose piccole, particolari e vulnerabili: sul fronte occidentale gli uomini coltivavano fiori e verdure fuori delle trincee, (adottavano) cuccioli randagi e perfino dei piccoli topi, una pratica documentata anche dai corrispondenti di guerra". Il soldato si trasforma così in "guerriero compassionevole", teso, anziché a distruggere, a conservare: una sensibilità difficile da comunicare a chi è lontano, e invece paradossalmente vicina a quella dei disprezzati obbiettori di coscienza, che andavano al fronte come infermieri e barellanti - sarà uno di questi, un soldato semplice, l'inglese più decorato della guerra. Ma trovarsi immersi nello sterminio di massa genera anche, e lo si vedrà in molti paesi nel dopoguerra, apatia, freddezza, una predisposizione incontrollata e apolitica alla violenza. I veterani, scrive un oservatore inglese, erano aspri, bizzarri, violenti, depressi, imprevedibili: "non erano più gli stessi uomini: qualcosa s'era alterato in loro (...)tanto da spaventare". Incivilimento e imbarbarimento si mischiano, ma il referente è sempre e solo maschile. Al fronte ci si chiede se e come le donne siano cambiate; nel paese le donne si accorgono che molti uomini lo sono già, e ne temono sia l'inaridimento sia l'amore per i compagni, che avvertono in antagonismo con l'amore romantico e coniugale. I rapporti fra i sessi diventano opachi, e non basta scriversi per capire una realtà ormai a molte facce. È dunque difficile valutare il peso della guerra su questi piani. Nonostante le trasformazioni, sembra ancora operante lo schema per cui le donne rappresentano lo spazio familiare e sicuro cui l'uomo può tornare in cerca di stabilità; forse l'unico spazio che si può sperare sia o almeno torni come prima. Il fatto che questa guerra, decisa anche per rafforzare i gruppi al potere, veda quasi tutti i governi cadere o vacillare, non è la sua sola ironia; presentata come trionfo della virilità, ne è la messa in croce; sognata come unione del popolo, lo restituisce più che mai diviso fra schieramenti contrapposti, innanzitutto fra quelli che hanno combattuto e tutto il resto degli uomini e delle donne. ***** Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Società italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verità. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008 Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo Il New York Times ha affermato che inviare un soldato statunitense in Afghanistan costa in media più di un milione di dollari all'anno. Se i soldati americani già presenti in Afghanistan sono circa 68mila, risulta abbastanza facile capire quanto spende lo stato americano ogni anno per una missione che si sta rivelando, oltre che dannosa e violenta, sempre più inutile.
Tratto da Il Corriere Apuano del 16 luglio 2005
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