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Andata e ritorno: otto giorni in Kossovo (Giliola Galvagni)

Fonte: newsletter "Ecumenici"
Il cielo a sud si accende, e noi andiamo verso sud; andiamo in Kossovo e guardando dalla grande finestra del pullman sembra che gli occhi volino oltre l’orizzonte per incontrare quei paesaggi tormentati che per ora sono solo nella nostra fantasia.
            E’ stata una giornata limpida, con un cielo cristallino, spazzato da un vento di tramontana che lo rende ancora più nitido.
            L’imbrunire è l’ora che amo di più: blu, indaco, viola e poi ancora chiaro vicino all’orizzonte dove il sole sta andando a morire. Verona, prima tappa: il pullman a due piano è mezzo vuoto, noi siamo in cinque e abbiamo occupato i posti anteriori. Si viaggia ad una altezza anomala rispetto a come si è abituati normalmente. Si vedono le cose dall’alto. Verso Vicenza il cielo è quasi nero e improvvisamente si para davanti alla grande finestra una luna enorme. Perfettamente rotonda e gialla.
            L’altoparlante continua a sputare una musica balcanica ossessiva: il ritmo, scandito da flicorni e basso tuba batte insistentemente contro l’urlo delle trombe.
            Una grassa signora bosniaca o serba, luccicante di oro, si è presa i posti migliori, proprio i quattro davanti e si è sdraiata sui sedili avvolta in una coperta marrone, le grasse braccia escono dalla coperta e sembrano enormi salcicce bianche , il suo pesante russare ci accompagnerà tutta la notte.
            Noi ci accartocciamo sui sedili come contorsionisti cercando un sonno improbabile. Claudia è l’unica di noi che si addormenta subito. Gabriele, Luca, Gigliola ed io parliamo ancora. Poi le dogane si susseguono senza problemi e ripartiamo nella notte, inghiottiti da un orizzonte troppo lontano ancora.
            Il piccolo televisore appeso al soffitto del pullman manda un film datato, ad un volume assurdo.            
             Io spero che finisca in fretta, vorrei provare a dormire un po’.
            Mi sveglio alle sei, è giorno e la palla infuocata del sole sta salendo davanti al vetro del pullman. Mi sembra un tramonto alla rovescia. Tutti dormono o comunque hanno gli occhi chiusi: non interessa a nessuno guardare l’alba. Io rimango affascinata dai colori del cielo che sono tanti e cerco di isolarli ad uno ad uno. E’ il viola il colore dominante che sfuma nel lillà. Il sole è un’arancia matura, piena di vita e sale in fretta . Attraversiamo paesi addormentati, pianure che hanno addosso ancora il freddo dell’inverno.
            Cerco di capire dove siamo, i nomi dei cartelli stradali che ci corrono incontro non mi dicono niente. Poi alle sette arriviamo alla dogana di Batrovci fra la Croazia e la Serbia. Un lungo intreccio di tubi sotto i quali ci sono i caselli dei doganieri.
           
            Così comincia giovedì 12 marzo. Sono le sette e quindici, siamo fermi aspettando i controlli dei passaporti, dopo un’ora ci fanno passare dalla dogana di Bajacovo  in Serbia. La grassa signora che occupava i posti davanti è scesa,  e noi ne approfittiamo per metterci in “prima fila”: la grande finestra permette di avere una visuale speciale su quello che stiamo attraversando. Ora le ore di viaggio si faranno più veloci.
            Il cielo è leggermente velato e il territorio è una pianura arata  di fresco. La terra è scura, quasi nera. In lontananza una catena di monti innevati ci accompagna Attraversiamo piccoli paesi con case dai tetti di ardesia, la strada è a due corsie, con rattoppi nell’asfalto vecchio. Ai bordi della strada immondizia. Ora il cielo si è rannuvolato, potrebbe piovere da un momento all’altro. Ogni tanto si vedono delle case costruite per ostentare una ricchezza esagerata: piccoli castelli di mattoni con architetture da fiaba. Arriviamo a Novi Sad alle dieci: mi ricorda le città della Romania o dell’Ungheria.            
            Grandi costruzioni, un’edilizia popolare che ha invaso tutto l’est europeo negli anni del Socialismo Reale. Alcuni palazzi li hanno ringiovaniti con vetrate incollate sugli intonaci grigi a coprire ferite di una guerra di appena dieci anni fa.
            Entriamo a Belgrado quasi a mezzogiorno: la città è sdraiata di fronte a noi. Grattacieli e cupole di chiese si mischiano a campanili e  minareti, mentre più in basso, i tetti rossi di cotto offrono all’occhio un deserto di dune calde. E’ una città grande, trafficata, piena di fermento, in quest’ora prossima al pranzo. Baracche di poveri sono allineate lungo il viale di accesso.
            Arriviamo a Krajova alle 14 e 30. Ci aspettano i nostri compagni che rientrano in Italia. E’ un saluto veloce, ma siamo contenti di vederli. Vorremmo fare tante domande, scrutarli bene, cercare risposte, ma l’autista che ci porterà a Peja Pec ci chiama. Andiamo in Kossovo. Il pulmino rosso è uno sgangherato furgone che traballa ad ogni buca: Milos è un serbo che per vivere fa su e giù dal Kossovo trasportando di tutto, non parla nessun’altra lingua che non sia il serbo o l’albanese. Le poche parole che riusciamo a condividere sono sul clima e su quello che coltivano nei campi. Poi capiamo che ci parla del suo orgoglio di essere serbo, parla dell’odio che ha per gli albanesi; una ferita che lui  non è riuscito a guarire e sentendo quelle parole così aspre penso ai suoi figli e voglio credere che riusciranno almeno loro a superare il sangue, i cadaveri, il fuoco,  la morte.
            Il paesaggio è selvaggio e il cielo si colora di rosa: c’è qualcosa di magico in questa luce. La strada è stretta e trafficata, ai bordi discariche di immondizia ovunque, soprattutto plastica di ogni tipo e di ogni colore. Poi metto a fuoco un’immagine più cruda: lo scheletro di una casa bruciata e poi ancora un’altra e un’altra diroccata, spaccata come un giocattolo che non serve più. I mattoni sbeccati, le finestre sfondate, le porte scardinate: case vuote, fredde, sterili, sotto questo cielo di piombo.
            Arriviamo a Gorazdevac che è notte . Siamo davvero stanchi: abbiamo impiegato 27 ore per fare nemmeno 1.500 km. Ci accolgono gli operatori dell’Operazione Colomba: Manlio, Salvatore, Stefano, Mingo, Fabrizio non c’è, rientrerà più tardi e non c’è nemmeno Massimo che è andato in Italia. Siamo dentro la grande cucina calda,  come un ventre molle, illuminata con varie candele appoggiate nei punti strategici per sfruttare meglio il piccolo fascio di luce che emanano. Nei giorni a seguire scopriremo che l’energia elettrica viene erogata a singhiozzo e tolta senza nessun preavviso e a volte anche per giorni.
             Ci guardano con occhi buoni, hanno preparato una cena che consumiamo stretti intorno ad un tavolo troppo piccolo per così tante persone: ma qui si vede che sono abituati a condividere anche lo spazio. Vorremmo subito chiedere, buttare fuori parole a fiume a saziare una curiosità durata troppo tempo, ma la stanchezza ci ammutolisce. Arriva Fabrizio, il responsabile, il nostro mentore: è contento, ci stringe con affetto.  Dopo cena i discorsi si dipanano, si intrecciano, vogliamo conoscerci. Mi incuriosisce l’innocenza di Stefano, l’energia di Mingo, la riservatezza di Salvatore, l’eleganza di Manlio.
            Poi gli occhi diventano pesanti, la stanchezza toglie lucidità e andiamo tutti a letto. Dormo come un sasso dentro il mio sacco a pelo rosso. Sento che il sonno arriva come un’onda piacevole che mi porta via.
           
            Mi sveglio col canto del gallo: rimango con gli occhi chiusi ad ascoltare: l’acuto si smorza in un grido quasi rauco, aspetto pochi secondi ed ecco ripetersi le stesse note.
            Nel silenzio ogni rumore diventa presenza: l’abbaio del cane, il miagolare del gatto,  lo starnazzare di una gallina e i rumori della casa che si sveglia: la porta della cucina che cigola, il ciabattare di qualcuno che è sceso ad accendere il fuoco, a preparare la colazione, lo sciacquone del bagno,  attiguo alla nostra camera da letto .
            E’ venerdì 13 marzo, facciamo colazione e programmiamo la giornata assieme ai ragazzi. La spesa per la settimana all’ipermercato di Peja Pec, alcune visite a famiglie del villaggio.
            La signora Slavica
 ci accoglie nella sua casa, sono presenti tre dei suoi cinque figli. E’ una donna allegra, accogliente, conosce Fabrizio da tanto. Abitano fuori dal villaggio, proprio vicino ad una famiglia albanese. Ci dice che forse è possibile tornare a sperare, ci racconta della storia d’amore fra lei e suo marito, ci offre caffè e grappa. Tira fuori delle fotografie dei suoi figli, fotogrammi che fermano una storia, la riportano indietro. Lei da giovane, la gita coi bambini , la foto del matrimonio. Poi ci fa mangiare il pane appena sfornato con Kaimak, una crema di formaggio buonissima, peperoni sotto aceto.    
             Racconta ancora, e con Fabrizio ride ricordando tempi lontani. Lei ci prova a migliorare la sua vita e quella della sua famiglia. Nella stalla ha tre mucche e un vitello, se va bene potrà contare su una fonte di guadagno; è una speranza concreta non solo un sogno. Il marito lavora alla base militare italiana. Quando andiamo via ci regala formaggio Kaimak e la promessa che torneremo quando c’è anche il marito: ci cucinerà un piatto tipico serbo.
            Nel pomeriggio andiamo a visitare un’altra signora: Nada, vedova con quattro figli di cui una gravemente handicappata. Lavora pure lei come inserviente alla base militare italiana, fuma in continuazione, sorride. E’ piccola e scura e con un sorriso da bambina timida. Sua figlia è una bella ragazza con gli occhi svegli e smaliziati. Fabrizio scherza con lei, la conosce fin da bambina. Anche qui ci offrono caffè e grappa e sciroppo di lampone allungato con acqua. Torniamo a casa con tante emozioni da scandagliare, la cena ci occupa e ci distrae. Manlio, Salvo, come lo chiamo io, Mingo e Stefano ci raccontano della loro giornata. Cominciamo a capire il senso dell’Operazione Colomba, la difficoltà degli operatori nel portare a temine un progetto, la frustrazione di un lavoro che sfuma all’ultimo momento.
            Dopo cena Luca e Gabriele suonano, noi cantiamo. E’ qualche cosa di immutato nel tempo il canto, qualcosa che unisce generazioni, che lega frammenti di vita già vissuta con vita ancora da vivere.
           
            Sabato 16 marzo andiamo con Salvo al mercato di Peja Pec: vendono di tutto, sono piccole bancarelle di gente povera che sperano di vendere qualcosa prima che finisca la giornata. Ci sono donne a cui non so dare un’età, che vendono dei mazzi di erba secca, poi mi dicono sia the di montagna, altre che vendono bacche di ginepro, e altre ancora che esibiscono dei lavori fatti all’uncinetto  e ricami certosini su tessuti di poco valore. Ci sono dei carri carichi di lunghi tronchi di legna da ardere, i carri sono ancora attaccati al cavallo e sono tutti allineati in un semicerchio. Le bestie sono docili e aspettano con pazienza che qualche compratore gli faccia muovere per sgravarsi di quel carico. Dentro un cortile ci sono le bancarelle dove vendono il latte e i suoi derivati. Grossi tini di legno contengono il Kaimak, altre sono piene di burro. Le bottiglie della coca cola o dell’aranciata vuote, diventano i contenitori per il latte. Altri tipi di formaggio fanno bella mostra dentro contenitori di plastica riciclati per l’uso. L’odore  del latte lavorato impregna l’aria e la gente che passa tra una bancarella e l’altra vi intinge un dito dentro  per assaggiare quale sia il prodotto migliore.
            Ci fermiamo a mangiare in città. Ci raggiungono Fabrizio, Manlio, Stefano e Mingo. La carne che ci viene servita è unta e abbrustolita sulla piastra.
            Dopo pranzo andiamo a visita il Patriarcato di Pec. E’ la più importante chiesa per gli ortodossi del Kossovo: una sorta di Vaticano, protetto dai militari italiani. Le alte mura nascondono la chiesa e gli edifici, all’interno dei quali vivono i monaci e le monache ortodosse.
            La chiesa dei Santi Apostoli è una meraviglia: gli affreschi che la ricoprono  interamente sono ben
conservati. La chiesa di San Demetrio e della Vergine Hodighitria sono comunicanti con la prima e contengono entrambe testimonianza di affreschi molto antichi . Fuori, nei giardini le monache stanno preparando il terreno per la semina dei fiori. Immagino come sarà qui fra qualche mese, quando il verde nuovo prenderà il posto di questo marrone bruciato dal freddo. Il fiume Bistrica scende dalla valle Rugova e passa a  fianco del Monastero. Finita la visita saliamo lungo questa valle che sale alla montagna. A pochi chilometri c’è il Montenegro e la catena di montagne che lo divide dal Kossovo, sono come le nostre in Trentino. Torniamo in tempo per un caffè assieme ai ragazzi del Gruppo Studio. Due di loro parlano molto bene l’italiano. Hillir traduce per tutti.    La nostra storia si intreccia alla loro, le nostre curiosità e le loro. Ci spiegano chi sono, cosa hanno studiato, che cosa sperano per il futuro, quali sono i loro obbiettivi.
            A cena ci scambiamo le nostre impressioni a lume di candela, Fabrizio è contento, Fabrizio è un uomo che ha conservato il cuore del bambino che è stato. Ci guarda con gli occhi di miele e domani ci porterà a Prizren, cittadina del sud, poco bombardata durante la guerra.
           
            Infatti domenica 16 partiamo verso le dieci del mattino. Lungo la strada è il solito rosario di case bruciate, di finestre vuote, di cadaveri ancora presenti nella memoria di un orrore che stenta a sbiadire.
            Fabrizio racconta gli orrori della guerra; è preciso nelle date e nei nomi dei luoghi, ogni tanto un monumento ricorda “un eroe” caduto per la causa.
             Appena la carreggiata si allarga un po’, i soliti cumuli di immondizia: infinita discarica che si colora di plastiche invecchiate al caldo e al freddo. Sui rami degli alberi, ancora spogli di foglie, il vento a fatto maturare frutti strani: sacchetti di plastica impigliati e trattenuti dai rami più sottili. E’ uno scenario irreale, come un set di un film che non avremmo mai voluto vedere.
            La città di Prizren è piena di gente; un sole tiepido invita la gente al passeggio lungo il fiume e nelle strade principali di questa città. Le ragazze sfoggiano vestiti alla moda e trucco pesante: non avrebbero bisogno di minigonne e ombretto, sono belle, giovani, con corpi slanciati. Sorridono abbracciati ai loro fidanzati o mariti. C’è un’allegria che non avevo colto né a  Peja Pec né a Krajova. La città è piena di chiese cattoliche, di moschee, di chiese ortodosse:  reperti di un passato glorioso, quando le varie etnie vivevano lo stesso territorio in pace.
            Quando torniamo a casa troviamo Stefano e Mingo stravaccati sul divano: la domenica è l’unico giorno della settimana che possono davvero riposare e pensare un po’ a loro stessi. Rifletto su questi ragazzi che fanno una scelta così importante: un’esperienza che porteranno con loro per tutta la vita, che li forgerà ad una sensibilità diversa, più attenta, più umana, più dolorosa.
           
            Lunedì 17 marzo comincia con la colazione e il punto sulla situazione. I ragazzi cercano di pianificare gli interventi di tutta la settimana.
Fabrizio parte per Pristina con Luca e Stefano. Staranno fuori due giorni, intanto noi: Gigliola, Claudia, Gabriele ed io rimaniamo con Manlio, Salvo e Mingo. Ci dividiamo in due gruppi. Torniamo a visitare Vido con Manlio che fa da interprete. Ci accoglie nella sua bassa casa con gli occhi che sorridono. Parla qualche parola di italiano, retaggio della guerra del ’45, quando i soldati italiani, dall’Albania salirono verso il Kossovo.
            Il portone della sua casa è ancora sventagliato di buchi di proiettile; ricordo questo di una guerra ben più vicina. Ci racconta della follia dell’odio. La casa mi ricorda quelle viste in Romania: gli stessi cortili su cui si affacciano piccole case: tutto è a portata di mano, la cucina, il pollaio, la legnaia, la stalla.
            Per fortuna è arrivata la figlia che vive a Belgrado: pulisce lo sporco di mesi e Vido è contento di avere ancora un surrogato di famiglia.
           
            Martedì 17 marzo incominciamo la giornata con le solite visite nelle case. I volontari della Colomba fanno l’impossibile per riuscire a risolvere i problemi di questa gente, che sono davvero tanti.
            Io lascio aperte le porte del cuore e ascolto il suono delle parole, guardo l’espressione dei volti delle persone che raccontano. A volte non serve nemmeno la traduzione: capisco il senso, l’intenzione. Parlano le loro mani, aperte  come ali, a sottolineare una fatalità che subiscono. Mi colpisce la Signora Lara: viveva a Sarajevo, poi l’assedio, la perdita di tutto quello che avevano, lei e il marito scappano vengono qui, ma la loro casa viene bruciata per ben due volte. Il suo racconto pacato è in realtà una lama poco affilata che affonda con dolore nella mia coscienza. Cerco di immaginare la sua vita, non sono capace di fermare il pensiero che corre a scene di film e le sovrappongo alle parole dosate di questa donna intelligente e rassegnata. Mingo traduce per noi: chissà quante volte ha sentito questa storia, eppure quando tocca certi passaggi la sua voce si fa quasi roca, a nascondere un’emozione che nemmeno lui, dopo un anno che è qui, riesce a controllare. Capisco meglio il senso di precario che infondono queste case: loro lo sanno che potrebbe arrivare ancora il tempo della fuga. L’essenziale diventa il tutto a cui aggrapparsi. Ci fa vedere dei lavori a maglia che confeziona con grande maestria: comperiamo delle babbucce di lana colorate per pochi euro. C’è una dignità infinita in questa umiliazione, la colgo quando Gigliola si sbaglia e le da più soldi di quello che chiede: lei dice che vuole il giusto e nulla di più.
            La loro ospitalità mi commuove ogni volta: non hanno quasi nulla eppure dividono con noi il loro cibo, il loro pane, la loro grappa, le loro sigarette.
           
            Mercoledì !8 abbiamo un incontro a Peja Pec con un ragazzo albanese che lavora per il Tavolo Trentino con il Kossovo. Il suo italiano è buono.  Ci spiega che i settori nei quali vengono investiti i progetti del TTK sono l’agricoltura, la cultura, l’integrazione attraverso iniziative di vario genere (sport, studio, ricerca). Quando torniamo a casa troviamo Fabrizio, Luca e Stefano che sono tornati da Pristina: sono soddisfatti degli incontri avuti, Luca un po’ meno delle due notti passate ad ascoltare Fabrizio russare come una locomotiva.
            Oggi è il nostro ultimo giorno di permanenza. Stasera andremo dalla padrona di casa che abita di fronte: cucinerà per noi una tipica cena serba, con carne, verdure, sottaceti, formaggi,  salumi e dolci   Domani mattina alle 8 Milos ci porterà a Krajova da dove prenderemo il pullman del ritorno per L’Italia.Siamo tutti un po’ tirati: sentiamo che è difficile staccarsi. C’è stato un bene sincero che è calato dentro i nostri cuori, un affetto spontaneo che ci ha uniti, ci ha fatto ridere, riflettere, quasi piangere, ci  ha fatto chiedere, ci ha fatto mangiare insieme, ci ha fatto cantare, ascoltare, giocare, aspettare, guardare, amare.
            Grazie a Fabrizio, Mingo, Stefano, Salvo, e  Manlio che sono stati il  tramite fra noi e il Kossovo