In occasione del 2 ottobre, giornata internazionale della nonviolenza, condividiamo questa riflessione sulla nonviolenza di Elena Liotta, pubblicata su "Voci e volti della nonviolenza", n. 237 del 29 settembre 2008.
Le ricorrenze sono fatte per pensare, per riflettere - si spera non solo per una giornata - sul tema prescelto. Dare attenzione significa anche cercare di capire se e quanto le nostre idee si trovano in sintonia con la realtà, esercitando l'autocritica come pratica nonviolenta.
Anni fa, Hillman, psicoterapeuta e scrittore americano, intitolò un suo libro "Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio". La prima difesa intellettuale che si mobilitò tra i colleghi fu: "Figuriamoci allora come sarebbe andato senza!". Certo, questo si può sempre dire, non essendoci modo di provarlo. Ma l'autocritica si interrompe subito.
Le ricorrenze sono fatte per pensare, per riflettere - si spera non solo per una giornata - sul tema prescelto. Dare attenzione significa anche cercare di capire se e quanto le nostre idee si trovano in sintonia con la realtà, esercitando l'autocritica come pratica nonviolenta.
Anni fa, Hillman, psicoterapeuta e scrittore americano, intitolò un suo libro "Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio". La prima difesa intellettuale che si mobilitò tra i colleghi fu: "Figuriamoci allora come sarebbe andato senza!". Certo, questo si può sempre dire, non essendoci modo di provarlo. Ma l'autocritica si interrompe subito.
La nonviolenza inizia dal pensiero e dalla sua espressione sociale, comunicativa.
Pensare di "avere sempre ragione" è un atteggiamento di violenza cognitiva. Pochi sono davvero capaci di tenere a bada l'"aver ragione". Certo, si dice, meglio la violenza verbale di quella fisica e quindi si cerca di insegnare a discutere, a gestire i conflitti, invece che colpire, violare, ammazzare. Lo si fa educando, nella scuola, in famiglia, altrove. E poi ci sono le leggi. Ma non sembra funzionare più di tanto.
Infatti la violenza degli adulti, oggetto di immediata imitazione da parte dei piccoli, è uno stimolo onnipresente, sotto gli occhi di tutti nella forma macroscopica delle guerre e via via delle prepotenze di tutti i generi. Sarà banale ricordarlo, ma parlare di nonviolenza, incoraggiare a praticarla, elaborare sistemi per trasmetterla alle nuove generazioni, non ha purtroppo lo stesso impatto dell'opposta ondata di violenza, spesso irrazionale, esibita, esposta, pubblicizzata sugli ormai numerosi mass-media di cui disponiamo. Il fatto è che la violenza - picchiare per primi - ha l'attrattiva della potenza, del controllo, e il fascino della vittoria sull'altro. Sentirsi in diritto di reagire con violenza a un attacco violento ha poi un'attrattiva ancora maggiore: poter sconfiggere il "cattivo" e diventare un eroe. La nostra civiltà - nei suoi aspetti migliori! - continua ad essere basata su questi miti: l'eroe, la ragione, la logica della forza e del giusto.
Da dove potrebbe mai venire fuori la vera nonviolenza, quella che dovrebbe alimentare fin dalla nascita una sensibilità diversa, nuova, forte, in cui la violenza "naturale" sia riassorbita da altri stili di relazione? Ma poi, qualcuno prova almeno a mettere in dubbio la naturalità della violenza? I maestri non sono certo mancati e la possibilità è stata intravista dal genere umano e praticata da alcuni. Ma potremmo ugualmente dire: "duemila anni di cristianesimo e anche più di buddhismo e il mondo, se non va peggio, certo neanche va tanto bene, visto che il pianeta stesso è a rischio".
La nonviolenza è un'attitudine, una sensibilità, un modo di vivere della mente, del cuore e del corpo che va scoperto, qualora non lo si abbia in dotazione per naturale temperamento; che può essere appreso qualora lo si voglia, con molta pazienza; che può essere condiviso e coltivato insieme ad altri. Ma purtroppo non lo si può trasmettere geneticamente e così ogni nuova generazione ricomincia daccapo. Ah, sì, le leggi e la cultura.
Dovrebbero essere loro a garantire la continuità, soprattutto nei sistemi democratici di cui l'umanità si è dotata per autogovernarsi. Ma sappiamo che anche le leggi si fanno e si disfano a seconda delle ideologie, esplicite o sotterranee che siano. E sappiamo pure che il denaro è il vero motore, il riferimento unico e centrale della nostra civiltà dei consumi.
Tutti gli orrori che abbiamo oggi sotto gli occhi fanno capo a un'economia del denaro.
Occorre quindi, nel parlare di nonviolenza tener sempre presente lo sfondo su cui si cerca di operare, non per scoraggiarsi, ma per non farsi inutili illusioni su dove e come poter intervenire, ciascuno con le proprie competenze e possibilità.
Io lavoro con le persone e lì cerco di trasmettere e far apprezzare il modo nonviolento. Sì, farne apprezzare i vantaggi offuscati dall'aura di debolezza e di impotenza che avvolge la nonviolenza e il pacifismo, diciamo la bontà in generale. Ai singoli e ai piccoli gruppi bisogna parlare del loro interesse e appena più intorno, non andando troppo lontano. Si può spiegare loro che la violenza ha dei costi, fisici e psichici. Come lo ha perseguire il potere e accumulare denaro. La violenza e il denaro possono appagare alcuni bisogni ma ne lasciano scoperti molti altri.
Di fronte ai bisogni affettivi solo incalliti praticanti della violenza possono resistere. La maggior parte delle persone, uomini e donne, capiscono ancora i bisogni della sfera emotiva e di relazione e non a caso la crisi della famiglia, della coppia e la vita amorosa in generale, rimangono al centro di molta produzione culturale. La stessa identità di genere è da decenni in uno stato di perenne turbolenza. Sembra che ora stia toccando agli uomini entrare in crisi e aprirsi nuovi percorsi di libertà.
Recentemente, parlando di violenza contro le donne, mi sono accorta che molte donne giovani, culturalmente preparate e consapevoli delle discriminazioni ancora in atto, non sentono il bisogno di appoggiarsi al femminismo, né quello storico né quello più recente. Vanno dirette al sodo della loro vita, come a suo tempo abbiamo fatto noi donne, nate nel primo dopoguerra, con le nostre realtà e i problemi di allora. Hanno voglia di impegnarsi, di esporsi, ma vogliono farlo insieme agli uomini che la pensano come loro, non solo tra donne e per le donne. Hanno chiara anche la responsabilità e la compromissione di quelle donne che hanno sposato il sistema capitalistico e consumista, cioè violento, e non sono ben disposte verso una sorellanza a priori.
Se la violenza tra uomini e donne e verso i bambini e le bambine è la spia più inquietante del livello generale di violenza di ciascuna cultura, sicuramente quella occidentale non può essere ancora un esempio di nonviolenza rispetto ad altre che vengono criticate. Pur essendo le sue leggi contrarie alla discriminazione di genere, vediamo quotidianamente quanto ancora prosperi la violenza in famiglia.
E allora forse queste giovani donne che cercano una nuova alleanza con gli uomini, uomini nonviolenti, non sono sulla strada sbagliata e non appaiono affatto ingenue né deboli. Loro guardano a un obiettivo comune, una questione più grande che riguarda la vita di tutti e del nostro ambiente naturale e sociale.
Il lascito femminista è già incarnato nella loro sicurezza, nell'operato delle generazioni femminili precedenti le cui tracce sono nelle leggi e nelle modifiche del costume.
La realtà sociale va più in fretta non solo della scuola, ma anche della cultura alta e di quella mass-mediatica che seleziona a suo piacere di cosa occuparsi. Io entro in contatto con uomini e donne che sono molto più consapevoli e nonviolenti di quanto non appaia dai nostri sistemi e media comunicativi i cui modelli sono ormai troppo scaduti.
Per tutte le giovani che tentano "la via della velina" che ne sono moltissime di più alle quali non viene neanche in mente.
È solo che ci viene presentata una realtà pubblicitaria degli interessi dominanti. Ma la realtà delle cose vere prima o poi precipita nella vita di tutti, nel bene e nel male.
Questo mi fa sperare su una diffusione silenziosa e capillare della nonviolenza, nata proprio sulle sofferenze personali, sulle ansie e gli altri sintomi che affliggono ormai indifferentemente maschi e femmine di tutte le età, che scoprono un nuovo diritto: quello di non riconoscersi in una società violenta e ossessionata dal denaro e dal successo. Questo è il primo passo nella liberazione dalla violenza. Perché diventi nonviolenza ci vuole anche la solidarietà e la vicinanza degli altri che hanno scelto questa strada.
Pensare di "avere sempre ragione" è un atteggiamento di violenza cognitiva. Pochi sono davvero capaci di tenere a bada l'"aver ragione". Certo, si dice, meglio la violenza verbale di quella fisica e quindi si cerca di insegnare a discutere, a gestire i conflitti, invece che colpire, violare, ammazzare. Lo si fa educando, nella scuola, in famiglia, altrove. E poi ci sono le leggi. Ma non sembra funzionare più di tanto.
Infatti la violenza degli adulti, oggetto di immediata imitazione da parte dei piccoli, è uno stimolo onnipresente, sotto gli occhi di tutti nella forma macroscopica delle guerre e via via delle prepotenze di tutti i generi. Sarà banale ricordarlo, ma parlare di nonviolenza, incoraggiare a praticarla, elaborare sistemi per trasmetterla alle nuove generazioni, non ha purtroppo lo stesso impatto dell'opposta ondata di violenza, spesso irrazionale, esibita, esposta, pubblicizzata sugli ormai numerosi mass-media di cui disponiamo. Il fatto è che la violenza - picchiare per primi - ha l'attrattiva della potenza, del controllo, e il fascino della vittoria sull'altro. Sentirsi in diritto di reagire con violenza a un attacco violento ha poi un'attrattiva ancora maggiore: poter sconfiggere il "cattivo" e diventare un eroe. La nostra civiltà - nei suoi aspetti migliori! - continua ad essere basata su questi miti: l'eroe, la ragione, la logica della forza e del giusto.
Da dove potrebbe mai venire fuori la vera nonviolenza, quella che dovrebbe alimentare fin dalla nascita una sensibilità diversa, nuova, forte, in cui la violenza "naturale" sia riassorbita da altri stili di relazione? Ma poi, qualcuno prova almeno a mettere in dubbio la naturalità della violenza? I maestri non sono certo mancati e la possibilità è stata intravista dal genere umano e praticata da alcuni. Ma potremmo ugualmente dire: "duemila anni di cristianesimo e anche più di buddhismo e il mondo, se non va peggio, certo neanche va tanto bene, visto che il pianeta stesso è a rischio".
La nonviolenza è un'attitudine, una sensibilità, un modo di vivere della mente, del cuore e del corpo che va scoperto, qualora non lo si abbia in dotazione per naturale temperamento; che può essere appreso qualora lo si voglia, con molta pazienza; che può essere condiviso e coltivato insieme ad altri. Ma purtroppo non lo si può trasmettere geneticamente e così ogni nuova generazione ricomincia daccapo. Ah, sì, le leggi e la cultura.
Dovrebbero essere loro a garantire la continuità, soprattutto nei sistemi democratici di cui l'umanità si è dotata per autogovernarsi. Ma sappiamo che anche le leggi si fanno e si disfano a seconda delle ideologie, esplicite o sotterranee che siano. E sappiamo pure che il denaro è il vero motore, il riferimento unico e centrale della nostra civiltà dei consumi.
Tutti gli orrori che abbiamo oggi sotto gli occhi fanno capo a un'economia del denaro.
Occorre quindi, nel parlare di nonviolenza tener sempre presente lo sfondo su cui si cerca di operare, non per scoraggiarsi, ma per non farsi inutili illusioni su dove e come poter intervenire, ciascuno con le proprie competenze e possibilità.
Io lavoro con le persone e lì cerco di trasmettere e far apprezzare il modo nonviolento. Sì, farne apprezzare i vantaggi offuscati dall'aura di debolezza e di impotenza che avvolge la nonviolenza e il pacifismo, diciamo la bontà in generale. Ai singoli e ai piccoli gruppi bisogna parlare del loro interesse e appena più intorno, non andando troppo lontano. Si può spiegare loro che la violenza ha dei costi, fisici e psichici. Come lo ha perseguire il potere e accumulare denaro. La violenza e il denaro possono appagare alcuni bisogni ma ne lasciano scoperti molti altri.
Di fronte ai bisogni affettivi solo incalliti praticanti della violenza possono resistere. La maggior parte delle persone, uomini e donne, capiscono ancora i bisogni della sfera emotiva e di relazione e non a caso la crisi della famiglia, della coppia e la vita amorosa in generale, rimangono al centro di molta produzione culturale. La stessa identità di genere è da decenni in uno stato di perenne turbolenza. Sembra che ora stia toccando agli uomini entrare in crisi e aprirsi nuovi percorsi di libertà.
Recentemente, parlando di violenza contro le donne, mi sono accorta che molte donne giovani, culturalmente preparate e consapevoli delle discriminazioni ancora in atto, non sentono il bisogno di appoggiarsi al femminismo, né quello storico né quello più recente. Vanno dirette al sodo della loro vita, come a suo tempo abbiamo fatto noi donne, nate nel primo dopoguerra, con le nostre realtà e i problemi di allora. Hanno voglia di impegnarsi, di esporsi, ma vogliono farlo insieme agli uomini che la pensano come loro, non solo tra donne e per le donne. Hanno chiara anche la responsabilità e la compromissione di quelle donne che hanno sposato il sistema capitalistico e consumista, cioè violento, e non sono ben disposte verso una sorellanza a priori.
Se la violenza tra uomini e donne e verso i bambini e le bambine è la spia più inquietante del livello generale di violenza di ciascuna cultura, sicuramente quella occidentale non può essere ancora un esempio di nonviolenza rispetto ad altre che vengono criticate. Pur essendo le sue leggi contrarie alla discriminazione di genere, vediamo quotidianamente quanto ancora prosperi la violenza in famiglia.
E allora forse queste giovani donne che cercano una nuova alleanza con gli uomini, uomini nonviolenti, non sono sulla strada sbagliata e non appaiono affatto ingenue né deboli. Loro guardano a un obiettivo comune, una questione più grande che riguarda la vita di tutti e del nostro ambiente naturale e sociale.
Il lascito femminista è già incarnato nella loro sicurezza, nell'operato delle generazioni femminili precedenti le cui tracce sono nelle leggi e nelle modifiche del costume.
La realtà sociale va più in fretta non solo della scuola, ma anche della cultura alta e di quella mass-mediatica che seleziona a suo piacere di cosa occuparsi. Io entro in contatto con uomini e donne che sono molto più consapevoli e nonviolenti di quanto non appaia dai nostri sistemi e media comunicativi i cui modelli sono ormai troppo scaduti.
Per tutte le giovani che tentano "la via della velina" che ne sono moltissime di più alle quali non viene neanche in mente.
È solo che ci viene presentata una realtà pubblicitaria degli interessi dominanti. Ma la realtà delle cose vere prima o poi precipita nella vita di tutti, nel bene e nel male.
Questo mi fa sperare su una diffusione silenziosa e capillare della nonviolenza, nata proprio sulle sofferenze personali, sulle ansie e gli altri sintomi che affliggono ormai indifferentemente maschi e femmine di tutte le età, che scoprono un nuovo diritto: quello di non riconoscersi in una società violenta e ossessionata dal denaro e dal successo. Questo è il primo passo nella liberazione dalla violenza. Perché diventi nonviolenza ci vuole anche la solidarietà e la vicinanza degli altri che hanno scelto questa strada.