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Educazione alla pace: chi educa chi? (Nanni Salio)

Articolo di Nanni Salio, tratto dal sito del Centro Studi Sereno Regis
Il decennio 2001-2010, proclamato solennemente dalle Nazioni Unite come decennio per l’educazione alla nonviolenza dei bambini e delle bambine del mondo, non poteva cominciare, e proseguire, in modo peggiore: terrorismi e guerre si intrecciano e si alimentano reciprocamente in una spirale di odio, vendette, violenze, irrazionalità, che sembra non aver fine.
Cosa significa, in tale contesto, parlare di “educazione alla pace”? Non si corre forse il rischio di fare della sterile retorica, se non si affrontano alla radice i problemi della pace, della guerra e della democrazia? E chi sono i soggetti di un processo di “educazione alla pace”? Solo i bambini e le bambine oppure, e soprattutto, gli adulti: i politici che proclamano le guerre con giustificazioni false, ciniche e opportuniste; i teologi di varie fedi religiose che teorizzano la “guerra giusta e/o santa”; i politologi che teorizzano anch’essi la necessità della guerra in nome delle dottrine del “realismo politico”; gli economisti che non vedono la violenza strutturale creata dalle ricette economiche del neoliberismo fondamentalista; i militari addestrati a “uccidere e terrorizzare”, deumanizzati nelle “scuole di guerra”; gli operatori dei media, che contribuiscono a veicolare, propagandare e amplificare una cultura della violenza e della guerra; gli scienziati e i tecnici che si nascondono dietro il falso mito della neutralità della scienza; gli educatori troppo timorosi per affrontare questioni spinose e controverse?
Nonostante tutte queste numerose difficoltà, resistenze e contraddizioni, negli ultimi due decenni si sono diffuse le esperienze di educazioni alla pace sia nel mondo istituzionale della scuola sia nei gruppi informali dei movimenti di base. E sempre più l’educazione alla pace si è andata configurando come educazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, dal micro al macro. E’ avvenuto un cambiamento concettuale fecondo, che consente di fare uscire questi processi educativi dalla genericità e retorica dei discorsi sulla pace, spesso inconcludenti quando non addirittura falsi e fuorvianti.
Riconoscere ed esplicitare la presenza del conflitto nei processi educativi consente di affrontare apertamente i problemi della sfera interpersonale e intrapersonale, estendendola anche alla dimensione macro dei conflitti su larga scala. Le esperienze di mediazione del conflitto tra pari permettono a bambine e bambini, ragazze e ragazzi di acquisire competenze che potranno essere utili nella vita quotidiana, facendo loro balenare la possibilità di alternative nonviolente anche per i conflitti internazionali.
Il conflitto non è inteso come sinonimo né di violenza né tanto meno di guerra, ma è visto nella sua ambivalenza e ambiguità sia come costruttore sia come distruttore. Il processo educativo consiste nell’esplorare, con metodologie attive di training, le alternative costruttive e nonviolente per la trasformazione del conflitto in modo creativo ed empatico, con l’obiettivo finale di giungere a costruire personalità nonviolente.
Un secondo filone, altrettanto importante e fecondo, è quello dell’educazione a uno stile di vita e di economia che si ispira al paradigma delle “semplicità volontaria”, che sta alla base delle proposte di economia nonviolenta. L’intreccio tra problemi economici ed ecologici può essere affrontato sia mediante strumenti concettuali particolarmente efficaci, come quello dell’”impronta ecologica”, sia proponendo esperienze relazionali arricchenti che permettano di imparare a star bene con se stessi, con gli altri e con il mondo intero. Le tecniche e le metodologie utilizzate spaziano dal teatro alla musica, dai giochi di ruolo a quelli di simulazione, dai giochi cooperativi a quelli di fiducia e di valorizzazione, allo scopo di stimolare comportamenti attivi e creativi in una prospettiva di educazione reciproca e maieutica.
Se questo è possibile nelle scuole e nei gruppi di base, dovrebbe esserlo, almeno in linea di principio, anche nei parlamenti, nei consigli comunali, nelle sedi di partito, nelle grandi e nelle piccole organizzazioni. La sfida sta proprio in questo: trasformare strutture, culture e persone violente in strutture, culture e persone nonviolente. Qualcosa abbiamo imparato, ma molto resta ancora da fare e il tempo a disposizione è limitato. Forse, un punto di svolta si comincia a intravedere dopo il 15 febbraio 2003, con la nascita di quella che il New York Time ha definito la nuova “superpotenza mondiale” del movimento internazionale per la pace.