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Il futuro della nonviolenza

Il futuro ha radici antiche

È celebre l'affermazione di Gandhi, secondo cui i principi della nonviolenza sono "antichi come le colline": un'affermazione che trova testimonianza nel fatto che tutte le religioni sono portatrici di un messaggio di nonviolenza. In alcuni testi esso è formulato in maniera esplicita, come nel Saman Suttam, il canone jainista che, nel capitolo sui "precetti della nonviolenza" recita: "Caratteristica essenziale di ogni saggio è non uccidere nessun essere vivente. Senza dubbio, si devono comprendere i due principi della nonviolenza e dell'eguaglianza di tutti gli esseri viventi" (Saman Suttam, Mondatori, Milano 2001, p.67). È vero d'altro canto che questi precetti debbono essere letti alla luce dell'ultima parte del canone, che tratta della "teoria jainista della relatività conoscitiva" ( un tema di grande attualità e rilevanza epistemologica, che probabilmente ebbe una grande influenza sulla formazione del giovane Gandhi) e che, più in generale, in molti altri testi religiosi il messaggio appare ambiguo, commisto con affermazioni che giustificano la guerra e l'intolleranza.

Resta indubitabile, in ogni caso, che è solo nel Novecento che, a cominciare dal messaggio e dall'azione gandhiana, la nonviolenza "non rifiutando ogni forma di forza e di pressione", ma diventando essa stessa una concreta ed efficace forma di lotta e di pressione, acquista dimensione e valenza politica.

Che cos'è la nonviolenza

Si possono distinguere due principali concezioni della nonviolenza. La prima, l'ahimsa, indica letteralmente il non nuocere, il non uccidere, l'innnocentia. Essa induce un significato prevalentemente di astensione, di passività, che riguarda la sfera personale, soggettiva. Dal punto di vista morale si richiama al principio del "non commettere" violenza. Ma la nonviolenza gandhiana introduce esplicitamente una seconda concezione, il satyagraha, intesa come "forza della verità", nonviolenza attiva, intervento e lotta contro ogni ingiustizia. Essa si richiama al principio morale del "non omettere", non permettere che altri commettano violenza e ingiustizia.

Come ci ricorda Aldo Capitini, la nonviolenza "è fondamentalmente unprincipio etico, l'essenza del quale è una tecnica sociale di azione...

L'introduzione del metodo gandhiano in qualsiasi sistema sociale politico effettuerebbe necessariamente modificazioni di quel sistema. Altererebbe l'abituale esercizio del potere e produrrebbe una ridistribuzione e una nuova strutturazione dell'autorità. Esso garantirebbe l'adattamento di un sistema sociale politico alle richieste dei cittadini e servirebbe come strumento di cambiamento sociale" (Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano, p. 35).

Ma l'intervento, l'interposizione e la lotta nonviolenta in situazioni conflittuali acute debbono essere attuati rispettando il principio generale dell'unità tra mezzi e fini. Contro il realismo machiavellico del "fine che giustifica i mezzi", vale il principio, in ampia misura verificato pragmaticamente nel corso della storia, che i fini sono già contenuti nei mezzi. L'azione politica deve tener conto della fallibilità, delle conseguenze perverse dell'agire umano, della imprevedibilità del corso dell'azione, che provocano quella eterogenesi dei fini, e dei mezzi, che si è verificata più volte nel corso del Novecento (Marco Revelli, Novecento, Einaudi, Torino 1999).

Tra i lavori teorici sui fondamenti etici della nonviolenza spiccano i contributi del filosofo della morale Giuliano Pontara, uno dei più autorevoli studiosi della nonviolenza gandhiana (si vedano: Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1973 e 1996, voci gandhismo, nonviolenza, in Dizionario di politica, Utet, Torino 2003). Egli distingue tra nonviolenza pragmatica e negativa, e nonviolenza dottrinale e positiva.

Nella prima, l'azione è caratterizzata dalla semplice assenza di violenza diretta (il mezzo) ma è compatibile con qualsiasi fine. Nella seconda ci si propone di "dare una risposta adeguata e comprensiva ai nuovi e gravi problemi posti dall'enorme sviluppo degli armamenti, dall'escalation della violenza politica, sia nelle forme del terrorismo internazionale sia in quelle della 'nuova guerrà, dalla crisi dello Stato nazionale, dai drammatici cambiamenti verificatisi nel sistema internazionale in seguito alla fine della guerra fredda, dallo sviluppo incontrollato dell'industrialismo (non solo capitalistico) e dalle conseguenze che esso può avere su interessi vitali di molte generazioni future, nonché dall'ognor crescente divario fra popolazioni povere e popolazioni ricche" (p. 630).

Nella concezione gandhiana, egli individua inoltre tre tipi di nonviolenza: "la nonviolenza del forte, la nonviolenza del debole e la nonviolenza del codardo. Con quest'ultima espressione (Gandhi) intende denunciare l'atteggiamento di coloro che si rifiutano di lottare per i propri legittimi interessi, o per proteggere i legittimi interessi di altri, per pura vigliaccheria o per altri motivi prettamente egoistici... Per nonviolenza del debole, Gandhi intende, invece, la posizione di coloro che in una situazione conflittuale acuta non ricorrono all'uso della violenza per la semplice ragione che non dispongono dei mezzi necessari per condurre la lotta violenta... Da ultimo, la nonviolenza del forte è la posizione di coloro i quali, pur avendo i requisiti necessari... all'uso della violenza... tuttavia si rifiutano di ricorrere a tale metodo di lotta per determinate ragioni di ordine morale e in quanto ritengono di poter condurre la lotta in modo efficace con metodi diversi" (Pontara, p. 383).

L'eredità di Gandhi e la diffusione globale della nonviolenza

Come già si è osservato è solo con Gandhi che la nonviolenza assume esplicitamente anche una dimensione politica e comincia ad essere sperimentata su larga scala: dapprima in India, poi nelle lotte per i diritti civili negli Usa con Martin Luther King, in Sudafrica con Nelson Mandela e Desmond Tutu, nelle Filippine (1986) per cacciare Marcos, nei paesi dell'Est europeo per liberarsi dal giogo dell'impero sovietico, imploso nel 1989, nella lotta secolare del movimento delle donne, nelle lotte in difesa dell'ambiente, nella difesa dei diritti umani violati, e così via in un crescendo che attraversa tutto il Novecento e continua ai giorni nostri.

Sull'onda di questi sviluppi, verso la fine degli anni '50 del secolo scorso nascono le prime scuole di peace research, ispirate al paradigma della pace positiva e della nonviolenza, con il contributo determinante del ricercatore norvegese Johan Galtung. Una decina d'anni dopo, Gene Sharp pubblica il suo famoso lavoro sulla Politica dell'azione nonviolenta (Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1995) che verrà tradotto in decine di lingue e ispirerà gli attivisti dei movimenti per la pace e per la nonviolenza in ogni angolo del mondo. La comunità di ricercatori, attivisti ed educatori che si richiamano esplicitamente alla nonviolenza si è man mano estesa sino a costituire importanti reti internazionali che operano sia in campo accademico, dall'alto, sia a livello non istituzionale, dal basso (www.transcend.org, www.transnational.org).

In sintesi, la storia del XX secolo può essere interpretata sia come l'esempio della massima violenza, sia come l'inizio di una nuova era, quella delle lotte nonviolente di massa. La documentazione su queste forme di lotta e sulla loro efficacia è impressionante, tanto da indurre un numero crescente di studiosi e di istituti di ricerca a sottolinearne la rilevanza strategica (United States Institute of Peace, Strategic Nonviolent Conflict Lessons from the Past. Ideas for the Future, special report 87, www.usip.org/pubs/specialreports/sr87.pdf) nel condurre lotte di liberazione, abbattere tiranni, ripristinare e difendere la democrazia, creare condizioni di vita più giuste e ridurre la violenza strutturale.

Richard Falk (2003) non ha dubbi nel sostenere che "studiosi e accademici stanno sempre più considerando gli obiettivi dell'abolizione della guerra e della geopolitica della nonviolenza come gli unici fondamenti sostenibili dell'ordine mondiale... Se il momento gandhiano si realizzerà, esso dovrà preoccuparsi sia della violenza delle armi sia di quella delle strutture ingiuste di dominazione e sfruttamento".

La letteratura su Gandhi e sulla sua eredità è sterminata e crescente: l'umanità è alla disperata ricerca di una via d'uscita dal vicolo cieco e dalla follia  della guerra preventiva e permanente (N. Radhakrishnan, Gandhi in the Globalised Context, www.transnational.org/forum/meet/2003/Radhakrishnan_Gandhi.htm, www.sarvodayatrust.org)E tuttavia quella di Gandhi è un'eredità controversa. I movimenti integralisti che in India stanno conoscendo un momento di pericolosa affermazione, anche politica, non si riconoscono nel suo insegnamento, e lo accusano di aver travisato l'autentico messaggio dell'induismo. Anche alcuni esponenti del movimento dalit (i senza casta, gli harijan, figli di Dio, come li chiamava Gandhi) sono critici nei suoi confronti, poiché ritengono che egli non abbia affrontato con sufficiente radicalità la questione delle caste (Roy, 2004).

D'altro canto, osserviamo come l'eredità di Gandhi appartiene sempre più a tutta quanta l'umanità e oggi viene raccolta da quel movimento dei movimenti che sta rinnovando le società civili nazionali trasformandole in una vera e propria società civile globale transnazionale (Kaldor, 2004).

Questa terza onda di cui parla Michael Nagler (2003) è caratterizzata non solo dall'ampiezza dei nuovi movimenti che, dopo il 15 febbraio 2003, qualcuno ha definito la seconda superpotenza mondiale, ma dal concretizzarsi della capacità di intervento e interposizione nonviolenta in situazioni di conflitto acuto da parte di gruppi, organizzazioni, movimenti di base. È il sogno delle "Shanti Shena", i corpi civili di pace che Gandhi immaginò di poter realizzare sin dagli anni trenta. Ora questo sogno si sta concretizzando con le Pbi (Peace Brigades International), con associazioni quali Global Exchange, The Ruckus Society, International Solidarity Movement, che hanno la loro base negli Stati Uniti, la rete internazionale delle Donne in nero e centinaia di altri organismi di base, capaci di intervenire attivamente nelle dinamiche conflittuali per prevenire la violenza, riconciliare dopo la violenza, interporsi durante la violenza (Mathews, 2001). Sino a giungere all'ambizioso progetto internazionale delle Nonviolence Peace Force che si propone di realizzare un contingente permanente di duemila attivisti pronti a intervenire nelle varie aree del mondo, come già stanno facendo in Sri Lanka, Colombia, Palestina.

Quale futuro

Riflettendo sul futuro della democrazia, qualche anno fa Norberto Bobbio scriveva (1991): "sia ben chiaro, non faccio alcuna scommessa sul futuro: la storia è imprevedibile. Se la filosofia della storia è in discredito, dipende dal fatto che non c'è previsione, annunciata dalle diverse filosofie della storia succedutesi nel secolo scorso e all'inizio di questo, che non sia stata smentita dalla storia realmente accaduta".

Parole simili si possono ripetere per "il futuro della nonviolenza": non siamo in grado di fare delle previsioni e in questo campo "tutte le forme ideali [appartengono] non alla sfera dell'essere ma a quella del dover essere". Bobbio osserva inoltre che nel corso del Novecento è avvenuto un significativo aumento del numero di stati democratici, con una corrispondente democratizzazione del sistema internazionale delle Nazioni Unite, secondo una progressione ideale che avrebbe portato il sistema internazionale da uno stato di anarchia a una condizione di equilibrio delle grandi potenze, al predominio di una potenza egemone e infine a un sistema internazionale democratico condiviso. Se questa successione si rivelasse valida sul piano storico, il passo successivo dovrebbe essere quello verso la nascita di società nonviolente e di un sistema internazionale nonviolento.

Se il sistema internazionale si è democratizzato, cosa è avvenuto delle guerre? Sono diminuite o aumentate? Che significato dobbiamo attribuire all'attacco terrorista dell'11 settembre 2001 e alle successive reazioni degli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq? Dall'esame dei dati relativi agli ultimi quindici anni, dopo la fine della guerra fredda, scaturisce un paradosso: stando alla percezione diffusa, le guerre sono aumentate, mentre i dati elaborati dagli analisti affermano un sostanziale congelamento, o addirittura una diminuzione (Labanca, 2003).

Più in generale, afferma Richard Falk, "in questo momento della storia umana, sembra che il bicchiere non sia né tutto pieno né tutto vuoto", ma forse stiamo vivendo un "nuovo momento gandhiano", pur di fronte alla scalata innescata dagli eventi dell'11 settembre 2001. Questo parere è condiviso da altri autori che interpretano questo evento come una biforcazione. Possiamo procedere verso l'abisso, seguendo il realismo di ieri della violenza che diventerà la ricetta per la catastrofe di domani, oppure considerare il trauma come possibilità che apre nuove forme di azione: l'utopia di ieri della nonviolenza diventa il realismo di oggi.

Interrogarsi sul futuro della nonviolenza significa anche chiedersi esplicitamente se la guerra ha un futuro. Dato che il XX secolo è stato il più sanguinoso nella storia umana, e che guerre di varia intensità continuano a uccidere e ferire centinaia di migliaia di persone, prevalentemente civili, chiedersi se la guerra ha un futuro può sembrare ridicolo. Ma questo interrogativo è stato sollevato da troppe persone autorevoli, in tempi diversi e con argomentazioni differenti, per apparire peregrino. Se lo pose Albert Einstein, all'inizio dell'era nucleare. Se lo posero in molti dopo la seconda guerra mondiale (Bauer, 1994), e dopo il 9 novembre 1989, folle festanti gridarono "mai più muri, mai più guerre".

Saggiamente, Gandhi sosteneva che "o il mondo progredisce con la nonviolenza, oppure perirà con la violenza".

Gli scettici ribaltano l'interrogativo e preconizzano un nuovo secolo di guerre, a meno che non avvengano profondi cambiamenti nella politica internazionale delle grandi potenze, in particolar modo degli Stati Uniti i quali detengono "un potere senza saggezza, e non sono capaci di riconoscere i limiti delle armi nonostante ripetute esperienze. Il risultato è stato la follia, e l'odio, che sono le ricette per il disastro. E l'11 settembre ne è la conferma. La guerra è arrivata in casa" (Kolko, 2002).

Come uscire da questo dilemma?

Nel chiedersi anche lui se la guerra ha un futuro, Sohail Inayatullah, curatore con Johan Galtung di un provocatorio testo di macrostoria (1997) sostiene che "dobbiamo sfidare l'idea che la guerra è qui per rimanerci come se fosse un fatto evolutivo naturale. Non dobbiamo solo trovare nuovi metodi per risolvere i conflitti internazionali, ma è necessario sfidare tutta quanta la concezione di conflitto armato, simmetrico e asimmetrico".

Dobbiamo inoltre superare la "litania" della semplice contrapposizione tra pace interiore, dell'individuo, e pace collettiva, internazionale. Ovvero dobbiamo affrontare esplicitamente in chiave sistemica il paradosso "dello yogi e del commissario" sollevato sin dal 1947 da Arthur Koestler (2002), agendo contemporaneamente su tre aspetti principali: trasformare la natura del complesso militare-industriale, dell'industria bellica e del commercio delle armi; trasformare il sistema educativo in un processo di formazione alla pace e alla nonviolenza (come recita il documento Onu sul decennio della nonviolenza) centrato sull'acquisizione di capacità di trasformazione nonviolenta dei conflitti e su una diversa lettura della storia umana, non più vista soltanto come una successione di guerre; creare nuove visioni del mondo. Queste nuove visioni comportano il passaggio da una società dominata da strutture gerarchiche patriarcali a una concezione di partenariato (Eisler, 2002); da un'idea di evoluzione intesa come risultato casuale della sopravvivenza del più adatto, che giustifica la guerra, a una in cui essa è frutto della ragione e dell'azione umana; e infine da un'idea di identità definita solo in termini di razza, lingua, religione esclusiva a una consapevolezza planetaria, "gaiana".

A partire da queste premesse, si possono prefigurare quattro scenari principali: permanenza della guerra, con pericoli crescenti che deriveranno non tanto dalla presenza di leader autoritari, quanto dalla facilità con cui ognuno di noi potrà accedere a nuove armi di distruzioni di massa e tenere in ostaggio, da solo, un'intera nazione; scomparsa della guerra, mediante un cambiamento del sistema di potere e della cultura che ora la sorreggono; ritualizzazione e contenimento, con un prevalere della cultura di pace e un permanere della guerra per brevi periodi e come opzione meno desiderabile: genetizzazione della guerra, con procedure  invasive di ingegneria genetica alla ricerca del "gene dell'aggressione", nella speranza di eliminare i comportamenti che porterebbero alla guerra.

Oltre a immaginare i possibili scenari futuri, Inayatullah vede cinque principali processi di cambiamento in atto: governo globale, multinazionali dell'economia, ritorno al passato, cyberspazio,  peoplèpower.

Le prime due trasformazioni sono frutto di poteri dall'alto, in mano a piccole elite. Il terzo cambiamento, antitetico e opposto ai primi due è caratterizzato da forme di localismo e nazionalismo esasperati che si oppongono alle forze dirompenti dei processi di globalizzazione per mantenere barriere e privilegi anacronistici. Il quarto processo, basato sulle tecnologie dell'informazione, ha un carattere orizzontale e potenzialmente può coinvolgere chiunque in una grande rete comunicativa con un forte potenziale di democrazia partecipativa. Il quinto processo, infine, è una trasformazione dal basso, attivata da una miriade di soggetti che Immanuel Wallerstein considera nel loro insieme come la nuova ondata dei movimenti antisistemici che stanno costruendo un nuovo ordine mondiale sulle rovine del cadente disordine creato dal capitalismo selvaggio.

I prossimi cento anni di peacemaking

Con questo titolo al tempo stesso ambizioso e impegnativo, Johan Galtung si cimenta nel proporre una terapia per curare la malattia della guerra mediante un insieme di politiche di pace che richiamandosi all'insegnamento buddhista, definisce l'"ottuplice sentiero" e riassume nella seguente tabella [Per esigenze grafiche abbiamo rinunciato a riprodurre la tabella, dandone di seguito una sommaria descrizione in forma discorsiva -ndr-].

Politiche di pace per il XXI secolo.

1.Militari

1. a. Pace negativa: difesa difensiva, delegittimazione delle armi, difesa non militare;

1. b. Pace positiva: forze di peacekeeping, competenze non militari, brigate internazionali per la pace.

2. Economiche

2. a. Pace negativa: self-reliance I, internalizzare le esternalità, usare i propri fattori di produzione anche su scala locale;

2. b. Pace positiva: self-reliance II, condividere le esternalità, scambio orizzontale, cooperazione Sud-Sud.

3. Politiche

3. a. Pace negativa: democratizzare gli stati, diritti umani ovunque, deoccidentalizzazione, iniziative referendarie, democrazia diretta, decentralizzazione;

3. b. Pace positiva: democratizzare l'Onu, un paese un voto, abolizione del veto, seconda assemblea Onu, elezioni dirette, confederazione.

4. Culturali

4. a. Pace negativa: sfida: singolarismo, universalismo, idea di popolo scelto, violenza e guerra; dialogo: tra opposti;

4. b. Pace positiva: civilizzazione globale, un centro in ogni luogo, tempo più rilassato, approccio olistico globale, alleanza con la natura, eguaglianza e giustizia, miglioramento della vita.

(Johan Galtung, The Coming One Hundred Years of Peacemaking, www.transcend.org).

Gli attori sociali di questo insieme di politiche possono essere, in linea di principio, tutti quanti, ma in pratica vi sono delle difficoltà con coloro che detengono posizioni di potere. Galtung tuttavia sottolinea che i due principali errori che si possono commettere consistono nel credere che tali processi possano essere attivati solo dalle elite oppure da chi non appartiene ad esse: dall'alto o dal basso. Passi importanti sono stati realizzati in passato congiuntamente e/o separatamente, come nell'insieme di eventi che hanno portato alla fine della guerra fredda, con l'azione congiunta del potere dall'alto e di quello dal basso. Se ciò si è verificato una volta, potrà verificarsi ancora.

Caratteri di una società nonviolenta

La visione di società nonviolenta di Gandhi è espressa in modo sintetico nel seguente passo: "Lo stato - nel passaggio alla società senza stato - sarà una federazione di comunità democratiche rurali nonviolente decentralizzate. Queste comunità si baseranno sulla 'semplicità, povertà e lentezza volontariè, cioè su un tempo di vita coscientemente rallentato, nel quale l'accento sarà sulla autoespressione attraverso un più ampio ritmo di vita piuttosto che attraverso più veloci pulsazioni nelle avidità di potere e di lucro" (Gandhi, citato da  Capitini, 1967).

Pontara ne sintetizza l'immagine "nei tre momenti del sarvodaya, dello swaraj e dello swadeshi". Sarvodaya è l'equivalente di benessere di tutti, ripreso anche da Capitini. Swadeshi si può tradurre con self-reliance, ovvero autosufficienza, sviluppo autocentrato, che utilizzi innanzitutto le risorse locali. Infine swaraj significa indipendenza intesa nel senso di autonomia, capacità di autogoverno, autocontrollo, disciplina. Possiamo riassumere questo insieme di termini nel paradigma della "semplicità volontaria", uno stile di vita più povero esteriormente, materialmente, ma più ricco interiormente, spiritualmente.

Una società nonviolenta è dunque caratterizzata dai seguenti elementi: riduzione di ogni livello di violenza (diretta, strutturale, culturale); elevata qualità della vita e delle relazioni interpersonali; decentramento amministrativo e decisionale, capacità di autogoverno, elevato grado di partecipazione ai processi decisionali collettivi; sostenibilità e basso impatto ambientale, rispetto della vita di ogni essere vivente; modello di sviluppo e di economia nonviolenti, autocentrati, autosufficienti su scala locale, regionale, nazionale, a bassa potenza energetica e a bassa densità urbana; modello di difesa popolare nonviolento, con forze civili di pace che agiscano su scala locale e internazionale.

Sorge spontanea la domanda se esistano o siano esistite società di questo tipo, alle quali ispirarsi per apprendere, migliorarne le esperienze e ampliarne la diffusione su scala internazionale. Gli studi antropologici e sociologici hanno portato a classificare un certo numero di società che si avvicinano all'ideale descritto più sopra. Nei suoi lavori Bruce Bonta ne ha classificate varie decine, che presenta evidenziandone soprattutto i tratti di cooperazione e armonia: "La maggior parte delle società nonviolente nel mondo basa le loro visioni di pace sulla cooperazione e si oppone alla competizione. Sebbene siano società amorevoli e dedite alla cura, molti allevano i bambini ad essere cauti e ad aver paura delle intenzioni degli altri, in modo tale da interiorizzare i valori nonviolenti e non dare per scontati gli atteggiamenti pacifici propri e degli altri. In queste società, non vengono dati ai bambini giochi competitivi; sebbene i piccoli siano molto amati, sin da quando hanno due o tre anni si fa in modo che non si considerino più importanti degli altri. Queste società non attribuiscono alcun valore all'acquisizione perché essa porta alla competizione e all'aggressività, che a sua volta scatena la violenza che essi aborriscono. I loro rituali rinforzano la fiducia e i comportamenti ispirati alla cooperazione e all'armonia. Esse hanno talmente interiorizzato i valori di pace e cooperazione che le loro strutture psicologiche sono in sintonia con la loro fede nella nonviolenza".

Queste società possono essere classificate in due grandi categorie: quelle che appartengono a popolazioni "altre", che vivono in culture tradizionali, e quelle che invece sono inserite nel contesto della modernità e stanno sperimentando nuove forme di vita comunitaria.

Le prime comprendono vari gruppi etnici, tra i quali ricordiamo: Balinesi (Bali), Batek (Malesia), Inuit (Alaska, Canada), Jain (India), Kadar (India), King (Boscimani del Botswana e della Namibia), Ladakhi (India), Zapotechi (Messico). Complessivamente, ne sono state individuate una sessantina.

Nella seconda categoria rientrano esperienze e gruppi diversi, molti dei quali di ispirazione religiosa: Mennoniti, Quaccheri (Società degli Amici), Amish, villaggi dell'Arca di Lanza del Vasto, villaggi gandhiani dell'Assefa in India, kibbutz in Israele. In questa stessa categoria rientra una molteplicità di piccole comunità che stanno sperimentando i principi di uno stile di vita che si richiama alla nonviolenza. Le esperienze sono numerosissime, spesso notevoli, anche se poco conosciute. Una delle più affascinanti si volge nientemeno che nella martoriata Colombia, in una zona inizialmente inospitale: Gaviotas è il nome di questo villaggio dove è in corso una delle più significative esperienze di sviluppo sostenibile, ideata da Paolo Lunari.

Fondamenti epistemologici della nonviolenza

Caratteristica saliente della nonviolenza è il suo carattere omeostatico, che consente di ricercare la verità senza distruggere quella dell'avversario, imparando dagli errori, con comportamenti altamente reversibili. Non siamo sicuri di essere nel vero, non sappiamo se il corso d'azione intrapreso, anche con le migliori intenzioni, produrrà i risultati desiderati, ma utilizziamo una metodologia che consente alla ricerca della verità di dispiegarsi.

Questo è l'atteggiamento filosofico ed epistemologico che sta alla base delle procedure della ricerca scientifica per prova ed errore, nella consapevolezza che in campo sociale le sfide sono di vita e di morte, altamente non reversibili.

Nella tradizione gandhiana si invita ad agire senza rivendicare il merito dell'azione e senza aspettarne l'esito, che verrà quando meno ci si aspetta. C'è una fiducia nel processo di ricerca della verità, che prima o poi si imporrà, anche nelle situazioni apparentemente più difficili e disperate. Satyagraha vuol dire forza della verità, ma anche "dire la verità", dirla di fronte ai potenti e all'ingiustizia, tanto quanto basta perché si imponga. Così come nella propaganda si sostiene che una bugia ripetuta mille volte diventa una verità, si può aver fiducia che una verità ripetuta mille volte finirà per imporsi.

Bibliografia

- Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000.

- Mark Juergensmeyer, Come Gandhi. Un metodo per risolvere i conflitti, Laterza, Roma-Bari 2004.

- Jacques Semelin, Senz'armi di fronte a Hitler, Sonda, Torino 1993.

- Giuliano Pontara, Etica e generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995- Giuliano Pontara, La personalità nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996.

Sitografia

- www.nonviolenti.org è il sito del Movimento Nonviolento italiano, fondato da Aldo Capitini nel 1962, che pubblica la rivista "Azione Nonviolenta" ed è il riferimento storico più significativo della nonviolenza politica organizzata.

- www.peacelink.it: questo sito svolge un'efficace azione informativa di rete tra i principali gruppi, movimenti e iniziative di pace italiani e contiene molte informazioni anche su quanto avviene su scala internazionale.

- www.arpnet.it/regis è il sito del Centro "Sereno Regis" di Torino, con il catalogo consultabile in rete della biblioteca italiana più specializzata sui temi della nonviolenza.

- www.transcend.org è la rete di ricercatori ed educatori fondata da Johan Galtung. Vi si trovano centinaia di articoli nelle lingue più diverse, e le informazioni sulle principali attività promosse da Transcend.

- www.transnational.org è il sito di una delle più significative organizzazioni, svedese, di ricerca, azione e documentazione sui problemi della pace e della nonviolenza. Offre un importantissimo servizio di selezione di materiali dalla stampa e dalle pubblicazioni internazionali sui temi più rilevanti della ricerca per la pace.


Parole chiave

- Nonviolenza: è il termine convenzionale nelle lingue occidentali con il quale si intende la capacità di trasformazione costruttiva e creativa dei conflitti dal micro al macro, attuata mediante le tecniche e i metodi dell'azione nonviolenta individuale, diretta, collettiva, organizzata.

- Satyagraha: sta a indicare la "forza della verità", ovvero la forza interiore che deve animare chi sceglie di lottare mediante le tecniche della nonviolenza, che scaturisce dalla costante e attenta ricerca personale della verità, senza distruggere quella portata dall'avversario in una situazione di conflitto.

- Ahimsa: è la concezione di rifiuto dell'uccidere, dell'esercitare violenza diretta, che è ispirata da un rapporto di amore e di compassionevolezza nei confronti di ogni essere vivente.

- Difesa popolare nonviolenta: così come esistono dottrine militari per la difesa di uno stato, anche nel pensiero e nella politica della nonviolenza è stata elaborata una dottrina che prevede la possibilità di affrontare conflitti su larga scala addestrando la popolazione in generale e alcune forze specializzate (caschi bianchi, corpi civili di pace) a intervenire in situazioni di potenziale pericolo per prevenire, dissuadere, riconciliare, interporsi mediante tecniche di azione nonviolente.

(2005)

Fonte: Centro di ricerca per la pace e i diritti umani newsletter del 07.02.2016